Il segretario di Stato Blinken è venuto a passare in rassegna i politici europei per rimettere in chiaro il legame con la Casa Madre, tornata democratica. Si sa che i repubblicani sono meno interessati all’Europa, al suo tentativo di reggersi sulle sue gambe, semplicemente non ci vedono come Unione europea.
Non è così per i democratici che, dopo la fine della guerra fredda, ci hanno ostacolato con misure mirate.
Il democraticissimo Clinton appoggiò le vendette anti Mosca dei paesi baltici e centro-orientali, aiutandoli a entrare nella comunità europea, mentre, con la sponda del papa polacco, favoriva il distacco della Croazia e della Slovenia da Belgrado, e soprattutto legittimava le prese di posizione della Polonia, sempre più culturalmente estranea alle nostre. Vi fu anche il divorzio tra Slovacchia e Praga e proprio da Praga serve partire con le verità scomode cui risalire.
In America chi si occupa di politica estera? In campo repubblicano prevale l’interesse del business oppure, come nel caso dei due Bush, il castigo contro chi osi sfidare l’apparato militare più forte del mondo; dopo 20 anni i talebani stanno dimostrando di star loro castigando l’America.
In campo democratico la politica estera la suggeriscono gli esperti che lavorano nei think tank, nelle più importanti università, compilano dossier e li fanno arrivare sulla scrivania del presidente, sicuri di avere sodali in loco.
Chi sono costoro? Sono cloni di Margareth Albright, il politico di Clinton cui si deve non solo la scelta convinta di disfare la Jugoslavia, ma anche quella di introdurre nel cuore della comunità europea i paesi del centro Europa, con un legame prioritario con l’America più che con l’Europa. Di noi europei non si fidano, potremmo cambiare orientamento, fare oggi un oleodotto e domani chissà quale business con Mosca, il nemico per antonomasia.
La Merkel che parla russo e Macron il francese arrogante sono sempre sotto sorveglianza con i loro propositi di autonomia, di ricostruzione di un’autonomia europea, libera dai condizionamenti della guerra fredda. Sono propositi respinti da Washington, con disprezzo se è repubblicana, con indifferenza da Trump, non così da Biden, influenzato da personalità come Blinken. Sono personalità che hanno in comune l’origine centro-europea o russa, l’estrazione sociale medio-alta, la religione ebraica, e un desiderio di rivalsa nei confronti dell’Europa, più forte del loro altissimo quoziente di intelligenza, cultura, esperienze.
La rivalsa ha due motivazioni. La prima è un antenato in fuga da progrom, o campi di sterminio nazisti. La seconda è più complessa ed ha a che vedere con le vicende della Russia sovietica. Come racconta Yuri Sleznik nel “Il secolo ebraico” (e come consta a chi scrive) gli ebrei russi e dei paesi centro orientali “sovietizzati”, hanno sostituito gli esperti borghesi cacciati e si sono assunti il compito di far lavorare il proletariato formalmente al potere, innanzitutto svolgendo funzioni direttive e poi istruendo operai e tecnici a svolgere le loro stesse funzioni. Sino agli anni sessanta gli esperti ebrei hanno goduto dei medesimi privilegi degli alti funzionari del partito-Stato e poi, via via che il loro ruolo di esperti diveniva superfluo, tornavano a essere riconsiderati ‘borghesi’ e per di più ebrei, e dunque doppiamente sospetti in paesi dove l’antisemitismo poggia su antichi pregiudizi di natura economico-sociale: ebrei ricchi, contadini poveri.
Quando negli anni settanta l’Urss e l’America fecero l’accordo sulla possibilità che gli ebrei lasciassero il paese in direzione Israele, vi fu la fuga di coloro che stavano scontando un’immeritata marginalizzazione dall’élite politico-economica, goduta dai loro padri. Da Israele la grandissima maggioranza si spostò in Canada e poi in America, ricevendo ovunque attenzioni e opportunità, tra cui quella di diventare grandi guru di questioni europee. Blinken è un prototipo: è appena venuto in Europa con la mission di rimettere gli europei sugli attenti, rammentarci i nostri limiti, rivitalizzare lo strumento Nato, magari facendo intravedere al più debole dei membri, all’Italia, il regalo di una carica di prestigio. Guai a noi se strizziamo l’occhio a Putin che tiene in galera Navalny, guai a noi che vorremmo dagli inglesi l’uscita di galera di Julian Assange.
La scelta tra governi democratici e autocrazie non può che influenzare le politiche dell’Unione europea, pur tenuta a fare qualche eccezione, per esempio in Polonia e in Ungheria. Sono paesi cui si concede di poter tornare ai loro anni trenta, a un clima politico, a un’antropologia culturale in contrasto con i principi costitutivi dell’Unione europea. Non a caso si sta diffondendo l’ipotesi del suo fallimento, il che significa la riemersione degli Stati nazione, ciascuno a muoversi per conto proprio, e non tutti insieme a fare blocco, a esistere come Europa. L’irlandese Biden e l’ucraino Blinken riusciranno a portarci rispetto, mettendo infine da parte atavici risentimenti?
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