‘Libere tutte’ si dice con voce forte quando si gioca a nascondino e chi riesce a correre prima ‘di chi sta sotto’ e a ‘fare: tana libera tutti’ libera chi ancora stava nascosta/o. Ma la libertà ogni donna e le donne insieme se la devono sempre conquistare, non c’è nessuno che può far ‘tana’ al posto loro. Libere tutte: ha un bel titolo il libro – edito da ‘minimum fax’ – di Cecilia D’Elia e Giorgia Serughetti, evocativo, giocoso, e al contempo impegnativo: Dall’aborto al velo. Donne del nuovo millennio, recita infatti il sottotitolo. La libertà delle donne è difficile e faticosa, ha nuovi nemici, si è prestata e si presta a un uso distorto: “Dopo i decenni della liberazione sessuale, della critica all’autoritarismo e al patriarcato, della conquista di nuovi diritti la rivoluzione conservatrice traduce le domande di libertà che si erano espresse in quegli anni in una nuova ideologia del mercato” (pp.7-8). Siamo negli anni ’80, regnano le tv commerciali e Berlusconi, le ideologie individualistiche e neoliberiste. “La libertà neoliberale si afferma esattamente in questa capacità di valorizzazione di sé, che si traduce nell’essere perennemente dediti alla produzione, al consumo, al godimento e alla competizione con gli altri” (p.9). “Diversamente dai regimi autoritari, il neoliberalismo governa non contro, ma attraverso la libertà: non la sopprime né la reprime ma la usa, la incrementa e la consuma, nella forma dell’autoaffermazione individuale che convalida e rilancia il dispositivo che la produce” : quest’ultima è la voce di Ida Dominijanni, Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi,2014, p. 47). Ma in cosa consiste questa libertà delle donne alternativa all’individualismo liberale? La risposta è ancora una volta difficile, ma qui si gioca tutto il senso del femminismo oggi: “ il conflitto tra i sessi si gioca prevalentemente non più sul terreno dell’oppressione ma su quello della libertà” (Dominijanni, 2014, p. 206). “Il quadro è appunto, sostengono le autrici, quello di un conflitto aperto sul senso della libertà, i cui esiti non sono scontati” (p.12). E questo senso della libertà il femminismo lo costruisce e lo decostruisce sempre, è un’opera continua di costruzione del sé di ogni donna, è stata ed è un’opera collettiva delle donne nella storia del mondo. E allora si possono leggere i percorsi e le riflessioni di Giorgia e Cecilia anche immedesimandosi dal punto di vista personale, per chi questi percorsi e queste riflessioni li ha attraversati, li ha vissuti, insieme alle altre. Perché il femminismo sono le nostre vite, le nostre opere (Carla Lonzi). Ed emergono i ricordi. «Il patriarcato è finito, non ha più il credito femminile ed è finito. È durato quanto la sua capacità di significare qualcosa per la mente femminile. Adesso che l’ha perduta, ci accorgiamo che senza non può durare” scrivevano le autrici della Libreria di Milano nel Sottosopra rosso del 1996, citate come un momento di dibattito importante nel femminismo da Giorgia e Cecilia. E qui subito un ricordo flash: quante discussioni intorno a questa frase, che ancor’oggi sottoscrivo, tra chi la condivideva, la sentiva sua, e chi ci ricordava i delitti che ancora il patriarcato continuava ad infliggerci. Ed allora a dire: sì, ma sono colpi di coda, reazioni alla nostra libertà, terribili e violente, ma ormai il segno nella storia l’abbiamo impresso. “Le nuove frontiere del diritto” (1988), ”Diritto sessuato?” (1993), “La legge e il corpo” (1996), erano i titoli di Democrazia e diritto, alla cui redazione collaboravo, ed erano volumi “emozionanti” , anche se l’aggettivo non sembra appropriato, emozionanti perché affrontavamo con coraggio e spirito d’avanguardia tutti temi più complessi in termini nuovi, dall’eutanasia, alle nuove tecnologie riproduttive, alla gestazione per altri, dalla violenza sessuale all’aborto, dal diritto leggero ai limiti del diritto, tutti temi che oggi riprendono Cecilia e Giorgia, con lo stesso rispetto della loro complessità, e come allora, con lo stesso coraggio della chiarezza. Nell’affrontare le questioni spinose che trattiamo in questo libro, noi vorremmo mantenere aperto uno spazio di riflessione libera tra questi due estremi. Non crediamo né al mito neoliberale dell’individuo proprietario di sé, né alla prescrizione paternalista di qualche bene superiore per le donne. Potremmo anzi dire che tra il paternalismo dello Stato e il laissez-faire del mercato c’è di mezzo la libertà delle donne” (p.29)… Ma l’agire autonomo non è mai astratto o separato, ma sempre incarnato e sessuato, intersoggettivo… Quel che ci interessa, a partire da questa visione, è dare conto di condizionamenti, limitazioni e vincoli, ma insieme difendere la capacità delle singole donne di compiere scelte libere e responsabili per le loro vite (p.31). “La legge deve consentire che vengano prese decisioni responsabili, senza mettere sotto tutela la competenza delle donne su se stesse e sul proprio corpo” (p.42). Questo l’approdo teorico e politico delle autrici, che in tante condividiamo, frutto di ricerche, discussioni, elaborazioni, che in tante fin dagli anni 70 abbiamo costruito, perché il femminismo è questo, un’opera individuale e collettiva in costruzione. Questo approdo diviene per le autrici la bussola per affrontare le singole tematiche così espresse nell’indice del libro: Essere e non essere madri; Aspettando la cicogna; E vissero felici e contenti; Per piacere, per amore, per denaro; Bikini, burkini e scontri di civiltà. Senza entrare nel merito di tutte queste questioni, continuo con alcuni ricordi e riflessioni personali, che incrociano i percorsi di Cecilia e Giorgia, perché, come dicevo, questo libro si presta per chi lo legge a chiedersi: io c’ero, io allora dove stavo? Cosa pensavo su questo tema? Con chi condividevo pensieri e pratiche? È così che un libro diventa nostro. Aborto “Ma perché è così difficile accettare questa competenza delle donne su se stesse e sulla gravidanza? Perché l’aborto è il campo di una contesa sempre aperta? Cos’è che inquieta tanto nella possibilità delle donne di decidere se portare avanti una gravidanza? Certo ci sono convincimenti etici e religiosi, che vanno rispettati, ma tenuti distinti dalla legislazione di uno Stato laico… Ma com’è possibile pensare che il processo che porterà a una nuova vita debbacompiersi nel corpo di una donna anche contro la sua volontà e il suo desiderio? Che non si affidi a lei e alla sua coscienza libera e responsabile la decisione, che non sia la sua «la prima parola e l’ultima»? Quanto è fragile il cambiamento realizzato nei quarant’anni alle nostre spalle?” (pp.49-50). Hanno ragione le due autrici: quanto è fragile il cambiamento, basti pensare alla diffusione distorta dell’obiezione di coscienza, ben documentata nel libro, intesa non solo come problema “di organizzazione del servizio e di reclutamento del personale, ma della cultura che esprime il servizio sanitario nei confronti delle donne” (p.59). Ancora e forse più di ieri è diffuso “lo stigma che avvolge il fenomeno abortivo, come conseguenza di un giudizio morale negativo che dall’aborto in sé si trasferisce, forse inconsapevolmente, sulla donna che vi ricorre e sul medico che lo pratica» , è la voce di Livia Turco, Per non tornare al buio. Dialoghi sull’aborto (2016, p.41) citata dalle autrici. Ma quella dell’aborto è stata e sarà sempre una storia tormentata. Ricordo all’inizio della discussione legislativa quando la prima proposta del PCI prevedeva che a giudicare la possibilità di una donna di abortire fosse una commissione di esperti e di medici cui la donna doveva sottoporsi! Ci fu una rivolta delle donne del Pci, che segnò un cambio di rotta verso l’autodeterminazione. Ma ancora, a legge approvata, giudizi contrastanti su quello che autorevoli femministe definirono un cattivo compromesso. Quello che viene riconosciuto nella 194 è il diritto alla propria salute psicofisica. Principio in equilibrio con quello della tutela di chi persona deve ancora diventare. Secondo l’articolo 4 la donna deve accusare “circostante per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito” (p.58). Non proprio un riconoscimento dell’autodeterminazione! Tant’è che la 194 ha funzionato malgrado il suo testo, si è detto in questi anni. Meglio allora solo la depenalizzazione, come si sostenne da diversi fronti negli anni 70 e poi negli anni 90, meglio semplicemente cancellare la parola aborto dal Codice penale (vedi la ricostruzione di tutte le diverse posizioni nelle pagine 55-61). Liberazione sessuale Una generazione visse davvero quella “congiuntura Sessantotto-femminismo” di cui parlano le autrici, contrapponendosi a chi oggi la mette sotto accusa (p.134 sgg). Per me e per la mia generazione il ‘68 fu scoperta del mondo, alternativa di vita, liberazione sessuale; il femminismo per me non fu rivolta delle oppresse, ma riconoscimento e approfondimento di quella libertà. Qualche anno dopo, nel referendum sul divorzio del 1974 si espresse poi un femminismo diffuso, fu un emergere nello spazio pubblico delle nuove soggettività delle donne. Il ‘68 provocò un’onda lunga e benefica che percorse tutti gli anni 70, nonostante il terrorismo; in quell’onda si svilupparono movimenti e soggetti in tutti gli ambiti, dalle carceri ai manicomi, dalla scuola all’ambiente. “Militanza senza appartenenza” fu un volumetto che pubblicammo su questi nuovi movimenti al CRS, un luogo particolare di ricerca e confronto. Particolare anche per il femminismo, che qui trovò una sede feconda di elaborazione e discussione animata da Maria Luisa Boccia, che si riflesse nella rivista Democrazia e diritto, nei materiali quali “Il genere della rappresentanza” e “Voce e silenzio”. La legge 40 “La legge sulla procreazione medicalmente assistita, la n. 40 del 2004, è figlia di un dibattito che, negli anni Novanta e all’inizio del nuovo millennio, si è avvitato attorno alla presunta emergenza di quello che veniva definito ‘Far West procreativo'” (p.80). Ricordo bene quanto scandalistica fu quella campagna di stampa sul Far west procreativo, mamme-nonne, mamme in affitto, mamme irresponsabili e egoiste, mamme contronatura, ecc., che documentammo nel convegno “Il potere di generare – Il limite della legge – Ordine e norme per le tecnologie di riproduzione assistita (maggio 1995) in cui emersero tutti i temi che oggi riprendono Cecilia e Giorgia, e che furono e sono oggetto di una approfondita letteratura femminista in materia. L’eclissi della madre, come l’hanno definita Maria Luisa Boccia e Grazia Zuffa (1998), fa perdere la bussola che dà senso al viaggio del venire al mondo. Oscura i corpi pensanti, contrappone embrione e donna, come nella grammatica dei diritti soggettivi. Nella tensione a ristabilire un ordine di fronte alla frantumazione dei processi riproduttivi che le tecnologie consentono,si fa fuori proprio la soggettività e il corpo vivente protagonista della nascita. Il corpo femminile è ridotto alla sola funzione biologica di garantire lo sviluppo dell’embrione. La legge 40 era una legge manifesto, che chiaramente intendeva mettere in discussione anche la 194, e nel 2005 fu sottoposta a referendum popolare… La campagna referendaria fu un’occasione sprecata di alfabetizzazione ed elaborazione di uno sguardo condiviso, un discorso pubblico competente (p.82). E qui di nuovo un ricordo collettivo delle trasmissioni televisive durante la campagna referendaria: mai fu invitata una donna che partisse da sé, dalla riflessione su di sé in rapporto alle problematiche della riproduzione assistita; mai fu invitata una femminista esperta e competente. Sempre uomini a parlare di biologia, di tecniche, di morale, di religione, in modo ideologico e astratto, come se non riguardassero soggettività incarnate, corpi generanti, vite reali. Gestazione per altri A differenza della procreazione assistita, la Gpa non è una tecnica, ma una relazione tra più soggetti, tra una donna disposta a portare avanti una gravidanza e una coppia – eterosessuale o omosessuale – o una singola single, che desidera avere un figlio. In questa relazione sono spesso coinvolti anche donatori e donatrici di gameti. Inoltre, nei paesi in cui la pratica è legale e i contratti di surrogazione di maternità sono riconosciuti, sono spesso attive agenzie di intermediazione che facilitano l’incontro e l’accordo tra le donne che si offrono come ‘portatrici’ e i ‘genitori intenzionali’. Ci troviamo nel bel mezzo di una crisi delle categorie tradizionali di lettura della realtà. Il punto principale di difficoltà è la moltiplicazione delle figure che concorrono all’evento procreativo: madri surrogate, madri donatrici (ovodonatrici), madri intenzionali, madri biologiche, madri giuridiche, che vedono un quasi corrispondente numero di padri (p.85-86). Senza semplificare questa problematica, le autrici danno conto delle profonde divisioni se non lacerazioni in seno al femminismo, fino alla proposta di alcune associazioni e singole donne di un divieto universale perché si esproprierebbero le donne dei loro corpi – presi “ in affitto” – e dei loro figli , “sotto pressioni multiple: i rapporti di dominazione, familiari, sessisti, economici, geopolitici» (dalla Carta per l’abolizione universale della maternità surrogata). “Ma è possibile”, si chiedono le autrici, “che una donna si dia liberamente disponibile a portare avanti una gestazione per altri, o non lo è? E se lo è, di che tipo di libertà si tratta?”(p.91). E così rispondono: “il fatto che le donne nel business della Gpa possano essere oggetto di abusi non dovrebbe essere una ragione sufficiente per introdurre un divieto generalizzato di realizzarla in qualsiasi forma… In molti interventi critici sulla surrogacy, la parte da attribuire allo sfruttamento è invece presa per il tutto, così da negare che possa esserci autonomia e consapevolezza nella scelta di chi decide di portare avanti la gravidanza per qualcun altro” (p.94). “Condannare tout court questa pratica come asservimento della capacità riproduttiva delle donne non tiene conto delle volontà singole, del limite che ognuna, se non è costretta da altri ed esercita pienamente la sua autodeterminazione, può e sa responsabilmente individuare per se stessa nell’uso del proprio corpo” (p.97). Condivido pienamente, ma a di là di questo quello che vorrei sottolineare ancora è quanto il femminismo sia composto di soggettività vive e ricche, pur se in alcuni casi contrapposte, ma in nessun altro movimento il dibattito è così vissuto e sofferto. In pochi mesi molti documenti, libri, ricerche sull’argomento; da ultimo vorrei citare Mamma non mamma, a cura del gruppo del mercoledì, supplemento al numero 123/2017 di Legendaria. “Altri temi da sempre laceranti nel femminismo trattati in questo volume: la prostituzione, emblema del potere patriarcale per alcune, per altre è giusto invece il riconoscimento della soggettività di chi si prostituisce e la decriminalizzazione delle forme di scambio consensuale di sesso per denaro. Ma il capitolo che tratta questo tema è molto ampio: dalla legge Merlin alle posizioni del Comitato delle prostitute e di Roberta Tatafiore; alla pervasività del rapporto sesso-denaro nei rapporti tra i sessi, nei media, nella pubblicità, nella politica. Anche qui, quante discussioni appassionate, quante divisioni sofferte!” Il violento ha le chiavi di casa “La violenza non è amore, è il titolo di un progetto della Polizia di Stato rivolto ai ragazzi e alle ragazze delle scuole superiori… Se è giusto distinguere tra amore e violenza, educare a questa distinzione, è altrettanto importante sapere che veniamo da una storia che ha reso possibile quel legame. Una storia in cui la violenza maschile contro le donne non era riconosciuta e nominata come tale. E torniamo sempre lì, alla seconda metà del secolo scorso, allo scompiglio portato nel mondo dal femminismo della seconda ondata. Non si può non partire da questo, dalla soggettività femminile che nasce e cambia tutto, compresa la vita degli uomini. Ma un cambiamento così grande non è un battito di ciglia… La violenza contro le donne, la sua natura culturale e strutturale, evidenzia nella sua drammaticità la questione maschile” (pp.127-129). Anche su questo tema un capitolo molto documentato sia rispetto alle dimensioni e alle forme del fenomeno della violenza maschile contro le donne, sia rispetto all’iter legislativo: quasi mezzo secolo di discussioni, di proposte di associazioni e di parlamentari. Dalle firme in calce a una proposta di legge di iniziativa popolare per lo spostamento nel codice penale della collocazione del reato di violenza sessuale dal capitolo dei reati contro “la moralità pubblica e il buon costume”, al capitolo dei “delitti contro la persona”; alla legge del 1996, alla Convenzione di Istanbul e ai successivi testi normativi; dal superamento dell’istinto di vendetta – che comporta la logica dell’inasprimento delle pene – alla libertà di elaborazione e personale dell’offesa subita da parte della vittima ( da qui la questione se inscrivere nella legge la procedibilità d’ufficio o la querela di parte), alle tutele durante il processo (cfr. da ultimo: Ilaria Boiano, Femminismo e processo penale): tutte questioni affrontate ma ancora aperte. Nel capitolo si parla anche del difficile lavoro dei Centri antiviolenza: “Dunque il lavoro delle operatrici è sostenere la donna per liberarla da una dipendenza affettiva insana, lavorare sulla relazione, attente a non far scattare la colpevolizzazione della donna, giudicata incapace di scappare da una simile situazione di violenza”. (pp.127-128) E della nuova, anche se ancora molto ristretta, coscienza maschile. L’indipendenza del soggetto maschile, che ne fonda la presunta superiorità rispetto al femminile, è considerata nella nostra cultura una caratteristica positiva, ma la rimozione di ogni debolezza e dipendenza è anche un’amputazione, una distanza rispetto al proprio stesso corpo, che genera varie forme di sofferenza, precludendo la possibilità di relazioni libere, tra uomini e tra uomini e donne (Ciccone, Essere maschi, 2009). In particolare, l’incapacità di elaborare il distacco o l’abbandono da parte di una moglie o una fidanzata, di fare i conti con la propria dipendenza, è per molti uomini fonte di tale frustrazione e senso di impotenza da generare, appunto, violenza. Intanto continuano e si intensificano le violenze contro le donne, gli stupri, i femminicidi. “Femminismo e razzismo non dovrebbero essere mai compatibili” (p.197) E’ un’affermazione forte, che condivido in pieno, un’altra bussola che il libro ci offre verso chi, anche nel femminismo, in nome dei valori occidentali vorrebbe ‘salvare’ le donne musulmane dall’oppressione, anche attraverso norme contro la loro libertà. Serve invece riconoscere l’agency (sostiene Renata Pepicelli, Il velo nell’Islam, 2012), la capacità delle donne di agire a partire dai propri desideri e bisogni, pur all’interno dei condizionamenti della cultura e della società in cui ognuna si trova a vivere. Per evitare quel “relativismo pigro che finisce per sfociare nell’indifferenza e per giustificare violazioni dei diritti umani delle donne” (p.191) nel femminismo più che un confronto tra culture abbiamo promosso l’incontro tra soggetti, in particolare con le donne immigrate in Italia, per relativizzare le nostre stesse culture e rifuggire da identità stereotipate che impediscono il confronto. “Le donne che figurano come ‘altre’, perché musulmane e velate, si trovano spesso schiacciate fra due sistemi patriarcali che pretendono di usarle ognuno a proprio piacimento: da un lato, il fondamentalismo islamico che vuole condannarle a una posizione subalterna al maschile, dall’altro un Occidente che le compatisce come povere vittime e ne fa strumenti di una battaglia contro lo straniero” (p. 196). Ricordo le prime manifestazioni “Non in nostro nome” (24 novembre 2008) quando si volle con l’omicidio di Giovanna Reggiani perseguire con il decreto sicurezza una presunta emergenza criminale rumena e rom, etnicizzare il crimine, come se il mostro fosse solo fuori di noi. E ricordo, tanto più, la manifestazione più difficile, quella dopo i fatti di Colonia: “mentre sui media italiani tanti osservatori accusavano le femministe di tacere colpevolmente sulle violenze, queste in realtà erano già in piazza, ‘contro il sessismo e contro il razzismo’ come recitava uno dei tanti cartelli alzati durante le manifestazioni” (pp.197-198). Il femminismo e la storia Ho riattraversato questo libro e ogni femminista lo potrebbe fare perché le vicende narrate riguardano tutte noi. Ma non parla solo al femminismo, anzi il femminismo, nelle sue diverse posizioni, lo fa parlare, perché la sua voce può raggiungere anche altri ambienti, altre donne, altri uomini. La ricostruzione delle vicende delle donne in Occidente, e in Italia in particolare, delle loro riflessioni politiche, delle loro pratiche, delle loro lotte, fa parte infatti della storia, della storia di tutte e tutti. E la storia, dunque, si potrebbe scriverla così come la scrivono le storiche femministe e le autrici stesse di questo libro: “È solo nella seconda metà del 1700 che si afferma l’idea della responsabilità genitoriale. Cambia così il ruolo della madre e la sua importanza, ma nasce anche il mito dell’istinto materno, e per le donne questo diventa un dovere e un destino, dall’alto valore civile e sociale, per tutto l’Ottocento e gran parte del Novecento. Sono del resto anche i secoli in cui si sviluppa l’interesse delle nazioni per la crescita demografica della popolazione. Moralisti, uomini di Stato e di Chiesa «prometteranno meraviglie alle madri perché assolvano le loro funzioni: ‘Siate buone madri e sarete felici e rispettate. Rendetevi indispensabili alla famiglia e otterrete diritto alla cittadinanza’ (Badinter, L’amore in più, 2012, p. 155). La cittadinanza delle donne è stata quindi legata, per secoli, alla loro funzione di madri. E le donne che non potevano o volevano essere madri? E le madri che non acconsentivano a dedicarsi solo e interamente ai figli? Naturalmente, hanno subito la condanna morale e il disprezzo sociale dei loro contemporanei” (p.51). Cittadine in quanto madri Fu proprio nei periodi delle grandi rivoluzioni borghesi dell’epoca moderna e contemporanea, delle nuove – seppur parziali – aperture alle istanze democratiche, che si verificò l’emarginazione delle donne. Nel passaggio dall’Ancien Régime agli Stati moderni, infatti, le sfere del mercato e della politica furono separate dalla sfera privata e familiare. Ciò determinò ancora una volta l’esclusione delle donne, in ragione della loro appartenenza alla sfera domestica, dalla politica e dalla cittadinanza. Pur se tempestive nel richiedere l’uguaglianza tra i sessi, furono escluse dalle nuove libertà e dai nuovi diritti. La loro esclusione dai diritti politici deve essere vista non come semplice omissione, ma come momento obbligato nell’edificazione della società contemporanea in cui, se la sfera pubblica si ridefinisce nel passaggio da sudditi a cittadini, la sfera privata si struttura facendo perno su una nuova figura di donna: moglie e madre garante dell’ordine domestico e familiare. L’amore coniugale e l’amore materno diventano tratti considerati costitutivi della ‘natura femminile’ e, quindi, dell’identità individuale e sociale delle donne. ‘L’enfasi sulla sfera familiare come luogo della cura diviene essenziale alla definizione della sfera pubblica come luogo di potere’ ( cfr.Annarita Buttafuoco, Questioni di cittadinanza,1977, pp.11-15. Ma vedi anche le citazioni di Annarita Buttafuoco del libro di Gabriella Bonacchi e Angela Groppi, Il dilemma della cittadinanza, 1993). Se lo Stato concesse alle donne prima dei diritti civili e politici, i diritti sociali, fu per diverse ragioni: a) perché attribuì al “genere femminile” diritti sociali specifici, riferiti non tanto alle donne come persone, ma alla loro funzione materna. E fu il movimento stesso delle donne – d’altra parte – costretto a dover trascendere l’identità femminile per partecipare ad una cittadinanza neutra, a riaffermare questa stessa identità, fondandola sul materno, a chiedere questi diritti specifici, queste tutele, a ritenerle prioritarie. ‘Ma la costruzione del femminile come specificità della cittadinanza ha avuto l’ effetto di ribadire la posizione secondaria delle donne nella sfera pubblica’ (Maria Luisa Boccia, La differenza politica, 2002); b) perché la concessione dei diritti civili e politici avrebbe sovvertito l’ordine familiare; c) perché la riproduzione non deve corrispondere all’autonomia femminile, ma deve rientrare nell’ambito dei poteri legislativi dello stato, deve essere sottomessa al potere normativo delle scienze e della medicina. In Italia il risultato fu “lo squilibrio tra i diritti pubblici e privati delle donne nel testo costituzionale” come sostengono le autrici, citando Anna Rossi Doria (p. 110), e un grande ritardo nell’ottenere i diritti civili, come le autrici stesse documentano nelle loro pagine. “In Italia bisognerà aspettare gli anni Settanta per ottenere le leggi che invereranno gli importanti principi egualitari che le nostre madri costituenti erano riuscite a scrivere nel testo costituzionale” (p.111): dal divorzio (1970) al diritto di famiglia (1975), alle unioni civili (2016!) mentre la possibilità del cognome materno – siamo nel 2017!- non è ancora legge e giace al Senato.
Bibliografia Badinter Élisabeth, L’amore in più, Fandango, Roma 2012. Boccia Maria Luisa e Zuffa Grazia, L’eclissi della madre, Pratiche, Parma 1998. Boccia Maria Luisa, La differenza politica. Donne e cittadinanza, il Saggiatore, Milano 2002. Boiano Ilaria, Femminismo e processo penale. Come può cambiare il discorso giuridico sulla violenza maschile contro le donne, Ediesse, Roma, 2015. Buttafuoco Annarita, Questioni di cittadinanza. Donne e diritti sociali nell’Italia liberale, Protagon Editori Toscani, 1997. Ciccone Stefano, Essere maschi. Tra potere e libertà, Rosenberg & Sellier, Torino 2009. Dominijanni Ida, Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, Ediesse Roma, 2014, Pepicelli Renata, Il velo nell’Islam. Storia, politica, estetica, Carocci, Roma, 2012 Rossi-Doria Anna, Dare forma al silenzio. Scritti di storia politica delle donne, Viella, Roma, 2007. Turco Livia, Per non tornare al buio. Dialoghi sull’aborto, Ediesse, Roma,2016
Qui la scheda de libro
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