“…we shall form to the American Union barrier against the dangerous extension of the British province of Canada and add to the Empire of Liberty an extensive and fertile country thereby converting dangerous enemies into valuable friends.” (…dovremo creare una barriera alla pericolosa espansione della provincia inglese del Canada, aggiungendo all’Impero della Libertà un vasto e fertile paese, così trasformando pericolosi nemici in preziosi amici.)
Thomas Jefferson, lettera a George Rogers Clark, 25 dicembre 1780
Le origini dell’impero
La Dichiarazione d’Indipendenza è il documento fondativo degli Stati Uniti d’America. Adottata il 4 Luglio 1776, anno seguente il principio della guerra di rivoluzione, il documento costituisce una spiegazione formale sulle ragioni per le quali il Congresso continentale aveva votato l’indipendenza americana dal Regno di Gran Bretagna. Anche se il documento fu presentato al Congresso dal cosiddetto “Comitato dei Cinque” (Adams, Jefferson, Franklin, Sherman, Livingston), il principale autore della Dichiarazione era Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori dell’America.
Il pensiero e gli scritti di Jefferson, il suo impegno nella promozione dei diritti umani, della libertà di parola e di religione, ebbero un’influenza decisiva sugli eventi che ispirarono la rivoluzione americana, contribuendo alla nascita degli Stati Uniti come nazione sovrana. Jefferson era stato profondamente suggestionato dall’illuminismo e, in generale, dalla cultura europea riformista del XIX secolo. Era un pensatore non convenzionale, religioso ed empirista allo stesso tempo. Credeva nel valore morale degli insegnamenti di Cristo, ma non nei miracoli.
È negli scritti di Jefferson che, per la prima volta, la nozione di impero si trova associata alla nascente nazione americana, definita come “Impero della Libertà”.
Jefferson era consapevole della fragilità della giovane repubblica, appena emersa da una sanguinosa guerra d’ indipendenza. Le potenze europee continuavano a coltivare aggressive aspirazioni territoriali, mal tollerando l’indipendentismo americano, che risultava particolarmente vulnerabile nei vasti territori del nord e nord-ovest.
Per affrontare il rischio di perdere l’indipendenza guadagnata ad alto prezzo di vite umane, Jefferson ritenne indispensabile promuovere una visione espansionista, estendendo il territorio verso l’ovest del continente americano. Tale espansione era considerata critica per la futura sopravvivenza del nuovo Stato americano. Jefferson non intendeva l’espansione verso ovest come un progetto di dominio coloniale. Piuttosto, era il risultato della convinzione che gli USA non avrebbero potuto sopravvivere come Stato indipendente, se non avessero consolidato i propri confini geografici e forgiato nuove alleanze per contenere future minacce alla propria esistenza.
All’indomani della Dichiarazione d’Indipendenza, Jefferson elaborò la sua visione dell’Impero della Libertà attorno a due principi fondamentali: la necessità di difesa della giovane sovranità nazionale e la responsabilità morale degli Stati Uniti nel diffondere la libertà nel continente e oltre.
Entrambi i principi implicavano un deciso ruolo internazionale. Jefferson immaginava la missione redentrice degli Stati Uniti non solo come elemento primario della politica estera americana ma anche come espressione essenziale del carattere nazionale.
Come Joyce Appleby analizza in Inheriting the Revolution (Joyce Appleby, Inheriting the Revolution. The First Generation of Americans, Harvard University Press, 2001), all’indomani della guerra rivoluzionaria, gli americani, che celebravano l’indipendenza, si accorsero che la guerra di liberazione aveva prodotto un nuovo Stato, ma non un senso di identità statuale basato sulla condivisione di sentimenti distintamente americani. In tale momento fu proprio la visione dell’“Impero della Libertà”, ovvero di un esperimento di governo profondamente innovatore, fondato sulla universalizzazione dei valori di libertà ed eguaglianza, a offrire uno dei principi costitutivi dell’identità americana.
Tale principio fu quindi adottato come elemento di distinzione della neonata nazione dalla cultura coloniale europea, dalla quale si era violentemente separata. Quello che successivamente sarebbe stato spesso considerato come espansionismo o imperialismo, in realtà nacque inizialmente da una necessità storica di difesa dell’indipendenza nazionale, sostenuta da un naturale fervore evangelico universalista. Questa ispirazione universalista divenne presto elemento cardinale nella edificazione dell’identità nazionale, trasformando la missione redentrice internazionale in uno dei valori principali di quello che sarebbe poi stato definito come “eccezionalismo americano”.
In misura diversa, la visione dell’Impero della Libertà di Jefferson, avrebbe definito il futuro della politica estera statunitense sino ai nostri giorni. Monroe Doctrine (James Monroe), Manifest Destiny (Andrew Jackson), Gettysburg Address (Abraham Lincoln), Roosevelt Corollary (Theodore Roosevelt), Wilsonianism (Woodrow Wilson) sono solo alcune delle più note declinazioni strategiche dell’espansionismo USA, secondo una traiettoria storica non rettilinea ma certamente costante.
Dalla nascita dello Stato, nessuna amministrazione statunitense sarebbe mai risuscita a ignorare la stretta connessione tra politica domestica e proiezione internazionale, anche se i principi ai quali Jefferson si era originariamente ispirato, sono stati interpretati in modo eclettico, risultando in manifestazioni politiche molto diverse. Tra l’internazionalismo liberale di Woodrow Wilson e l’interventismo neoconservatore di Paul Wolfowitz esiste una profonda differenza.
L’Impero delle Libertà, ossimoro immaginato da Thomas Jefferson per il suo valore metaforico, ha costituito sin dal principio un paradosso che è fondamentale per comprendere l’essenza della saga americana. Come hanno potuto gli USA – madre di una rivoluzione antimperiale, nazione fondata sui principi di libertà ed eguaglianza, Paese promotore di diritti universali – tramutarsi infine in potente impero, alimentato dallo sfruttamento della schiavitù e dallo sterminio degli americani autoctoni? Come ha riconciliato la sua evoluzione imperiale con la nozione di libertà, elemento cardinale della Dichiarazione d’indipendenza?
La storia americana racconta l’epopea di uomini e donne (uomini, per lo più) animati da una genuina fede nella liberazione dei popoli oppressi. Ma è una storia che racconta anche le tragiche vicende di molti avventurieri motivati da finalità di predominio, che non esitarono ad adottare la retorica della libertà per perseguire ambizioni personali. Questi ultimi, barattando le ispirazioni illuministe di Jefferson con l’opportunismo individuale, non fecero nulla di originale. Piuttosto utilizzarono spregiudicatamente una contraddizione insita nel più profondo dell’anima americana.
A lungo si tentò di risolvere tale contraddizione con un duplice atto di fede: il protestantesimo evangelico edificato sull’etica del lavoro e della giustizia sociale, da un lato; e il senso messianico di un Paese investito della missione divina di diffondere universalmente la libertà, dall’altro. In fragile equilibrio perpetuo, i due principi fondanti degli Stati Uniti d’America, impero e libertà, sarebbero infine entrati in rotta di collisione nel XX secolo. Esattamente come Jefferson e Lincoln, avevano temuto.
Il secolo americano
Alla fine della Prima guerra mondiale, Gran Bretagna e Francia emersero profondamente indebolite dal devastante conflitto, e il periodo successivo vide una progressiva erosione dell’influenza dei rispettivi imperi. Qualche anno dopo, all’alba della Seconda guerra mondiale, una parte dell’amministrazione statunitense ritenne che fosse proprio l’incertezza americana nel rilevare la declinante leadership internazionale inglese nel ventennio 1920-1940, ad avere implicitamente incoraggiato le ambizioni militariste della Germania. Fin dal 1940 non restava, quindi, scelta agli USA: occorreva intervenire per sconfiggere la minaccia nazista, portare a conclusione il conflitto e “democratizzare” il resto del pianeta. L’unico modo per garantire la stabilità del mondo era per gli Stati Uniti di dominarlo. Alla fine della Seconda guerra mondiale, gli americani si sarebbero investiti della responsabilità di divenire guida illuminata del mondo. Era arrivato il “secolo americano”.
I principi della nuova politica estera internazionalista statunitense furono rappresentati per la prima volta come dottrina di Stato dal Presidente Woodrow Wilson. Consapevole dell’importanza che, già nei primi anni del ‘900, l’economia e le forze armate USA avevano acquisito, il presidente ritenne che gli Stati Uniti potessero disporre della propria potenza militare per rendere il mondo più sicuro, proteggendo i sistemi democratici. In altre parole: assumere un ruolo di guida internazionalista, volto a diffondere un moderno sistema di liberalismo capitalista.
In sostanza, la nuova dottrina era ispirata dai valori di Jefferson e non era necessariamente guidata da principi di natura ideologicamente egemonica. Piuttosto, era ispirata dal convincimento che gli enormi sviluppi ottenuti dalle scienze sociali all’inizio del XX secolo, potessero condurre a una gestione più razionale degli affari internazionali, incoraggiando sviluppo democratico, crescita economica e infine progresso globale della civiltà umana.
Wilson era convinto che una grande alleanza tra le nazioni democratiche fosse l’unico sistema politicamente attuabile per il consolidamento della pace e dello sviluppo nel mondo. Sarà proprio questo convincimento alle origini della creazione della Società delle Nazioni nel 1921, di cui Wilson fu il principale architetto e la cui breve esperienza precorrerà la fondazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite nel 1945.
I successori democratici di Wilson, Franklin D. Roosevelt and Harry S. Truman, consolidarono l’applicazione dei principi di Wilson nella nuova politica estera statunitense. Dalla Seconda guerra mondiale sino a oggi, i principi del liberalismo internazionalista hanno guidato la politica estera di ogni presidente, con la notabile eccezione di Donald J. Trump. Anche G.W. Bush si adoperò all’estremo nel forgiare una coalition of the willing prima di invadere l’Iraq e presentare tale aggressione come un’iniziativa internazionale ispirata da un comune impegno per la promozione della democrazia. Persino durante l’amministrazione Trump, alcune personalità di orientamento politico conservatore hanno continuato a sostenere la tradizione americana di liberalismo internazionalista, sebbene la loro influenza sia stata progressivamente affievolita da un’opinione pubblica sempre meno incline ad assumere responsabilità esplicite per vicende estranee agli interessi nazionali più diretti.
Gli statunitensi sono probabilmente il popolo più religioso dell’Occidente e l’immagine del redentore è uno degli elementi centrali nella loro simbologia identitaria. George Washington ha debellato la tirannia dei colonizzatori; Abraham Lincoln ha cancellato l’abominio dello schiavismo (ma non il fantasma della supremazia razziale, mai del tutto sparito dagli orizzonti della cultura nazionale); nel ventesimo secolo gli Stati Uniti hanno sconfitto prima il nazismo e quindi il comunismo (quest’ultimo, agli occhi di molti statunitensi, una calamità forse anche più sciagurata del nazismo).
Negli ultimi cento anni, gli USA hanno coltivato un’immagine di sé come benigni dispensatori di democrazia planetaria. Spesso si sono presentati anche come liberatori dalle forze dell’oppressione e dell’ingiustizia. Iraq e Afghanistan sono egregi esempi di come l’applicazione di tale convincimento abbia trasformato la storia, non solo di questi Paesi. Non sempre però tale processo di aspersione democratica è stato lineare. Occasionalmente, qualche dittatore si è materializzato dalle nebbie delle loro tutele, emergendone rinvigorito. Salvo poi rientrare inaspettatamente nella foschia, quando l’essenzialità delle sue funzioni democratiche fosse divenuta oggetto di un atto di improvvisa reinterpretazione.
Attualmente gli Stati Uniti detengono 800 basi militari in aree considerate di interesse strategico. Alcuni sostengono che tale capillare presenza militare sia determinata dalla responsabilità di proteggere democrazia e libertà. Altri sospettano che l’interesse primario sia l’estensione di influenza e potere. Altri ancora ritengono che il secondo obiettivo sia in realtà una funzione del primo.
Nella concezione degli strateghi del Pentagono, l’ordine internazionale e il futuro della democrazia e del capitalismo liberale dipendono dall’estensione dell’influenza statunitense nel mondo. Tradizionalmente gli imperi hanno consolidato il proprio potere con l’acquisizione e il controllo di nuovi territori. Gli Stati Uniti hanno compreso molto prima di altri Stati (certamente prima della Gran Bretagna) l’inevitabilità del processo di decolonizzazione, sempre più evidente a partire dal periodo successivo alla fine della Seconda guerra mondiale. Tale processo avrebbe presentato nuovi rischi all’egemonia USA. La costruzione di miriadi di basi in ogni continente per proiettare la propria potenza militare, evitando le responsabilità di una diretta annessione territoriale, ha evitato questi rischi ed è stata una delle risposte strategicamente più consequenziali della politica estera del dopoguerra.
Dalle basi americane sono state lanciate o sostenute guerre che hanno ridefinito ordini politici nazionali, provocato un imprecisabile numero di casualità e soprattutto protetto un’architettura economica che ha principalmente beneficiato le élites economiche statunitensi, minacciando ogni potere indisponibile a essere parte di tale strategia. A posteriori, tali conflitti si sono dimostrati spesso evitabili, talvolta superflui, quasi sempre onerose distrazioni rispetto alle grandi, reali sfide globali. Soprattutto, hanno seminato longeve inquietudini politiche e profonde divisioni sociali. In ultima analisi, tali conflitti hanno sempre assolto alla loro funzione di tutela e consolidamento della egemonia politico-finanziaria anglo-americana.
Alla fine del ventesimo Secolo, gli Stati Uniti, nazione sorta dal turbine di una delle prime grandi rivoluzioni anticoloniali, celebrano il completamento della propria paradossale metamorfosi nell’ultima, incontrastata, potenza egemonica mondiale.
La NATO e la lotta al comunismo
All’indomani della Seconda guerra mondiale, una delle espressioni principali della nuova strategia diplomatica americana in Europa è l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico. La NATO nasce a Washington il 4 aprile 1949, inizialmente composta da 12 Paesi. Oggi i Paesi membri sono 30. Creata con il dichiarato proposito di rafforzare la pace in Occidente, l’Alleanza è dedicata alla soluzione pacifica delle dispute e alla protezione della democrazia in Europa. Significativamente, è fondata sul principio di difesa collettiva: un attacco contro un alleato è considerato un attacco contro tutti gli alleati, assicurando che la sicurezza di ogni Paese europeo membro dell’Alleanza sia inseparabilmente legata a quella di ogni altro membro, inclusi gli Stati Uniti.
Per comprendere la rilevanza strategica di tale organizzazione bisogna risalire ai primi anni della guerra fredda, quando il blocco sovietico e l’alleanza occidentale avevano, ciascuno, posizionato una linea di difese militari in stato di perenne allerta, dal Mar Baltico al porto di Trieste. La dottrina militare sovietica promuoveva apertamente l’esportazione della rivoluzione e la conquista di quella parte di Europa “dominata dall’imperialismo capitalista”. Il rischio di una guerra tra Est e Ovest era reale. La NATO fu creata proprio per affrontare tale rischio.
Ben presto però ci si rese conto che l’Unione Sovietica – divenuta nel frattempo blocco sovietico con il Patto di Varsavia – aveva avviato un imponente processo di riarmo e di mobilitazione militare, che sarebbe stato arduo eguagliare. La capacità operativa militare, il volume di truppe e risorse militari NATO mobilizzabili avrebbero difficilmente raggiunto l’espansione del potenziale militare sovietico. Il risultato di tale calcolo strategico fu la percezione che l’Unione Sovietica disponesse di risorse militari superiori agli alleati occidentali e che tale sproporzione rendesse arduo contrastare, con forze militari convenzionali, un possibile attacco sovietico lungo la cosiddetta cortina di ferro.
La principale sfida per i governi occidentali era quindi come affrontare il rischio di invasione sovietica, in un contesto geopolitico dove l’equilibrio del potere militare sembrava favorire sempre di più il blocco comunista. In quel momento era ancora viva nella memoria europea l’esperienza delle occupazioni naziste e la formidabile resistenza opposta dalle azioni popolari. Una resistenza che aveva contrastato non poco l’occupazione nazista, nonostante si trattasse di azioni di guerriglia pressoché improvvisate. Negli anni ‘50, coloro che erano responsabili della pianificazione organizzativa NATO, immaginarono che in caso di invasione sovietica, qualora gli eserciti NATO non fossero stati in grado di respingere con successo un attacco coordinato del blocco sovietico, una operazione di resistenza popolare come quella che ebbe luogo nella Seconda guerra mondiale avrebbe potuto ostacolare possibili piani di invasione. Questa resistenza anticomunista avrebbe potuto essere ancora più efficace della resistenza al nazismo durante la Seconda guerra mondiale, se non fosse stata abbandonata allo spontaneismo popolare ma fosse stata preparata e coordinata in anticipo dalla NATO. Possibilmente con il sostegno logistico di CIA e MI6, due tra le istituzioni occidentali più capaci nel contenimento dell’infiltrazione comunista in Europa.
La creazione di una rete operativa clandestina anticomunista, addestrata a intervenire prontamente in caso di richiesta dei comandi alleati, fu una delle risposte degli alleati NATO alle minacce della guerra fredda. O perlomeno, a come tali minacce erano concepite dagli strateghi statunitensi. A partire dai primi anni 50, i servizi segreti statunitensi e inglesi, in stretto coordinamento con i loro omologhi dei paesi dell’Europa occidentale, si dedicarono alla costruzione di una nuova, complessa struttura parallela alla NATO. Non solo, parallela anche al sistema occidentale di spionaggio già esistente in Europa. Tale struttura sarebbe stata specificatamente dedita ad azioni di spionaggio, sovversione, infiltrazione e sabotaggio preventivo di possibili minacce comuniste.
Il meccanismo iniziale prevedeva l’attivazione del reclutamento di nuovi agenti o fiancheggiatori, con varie mansioni, che venivano equipaggiati con adeguati armamenti, munizioni, sistemi di comunicazione, trasporto e addestramento. Nonché di un codice gerarchico che permetteva a tale nuova struttura segreta, successivamente nota come Stay-behind (in Italia come “Gladio”) di operare come una vera armata clandestina. Questa struttura era regolarmente attivata per la conduzione di operazioni di training o esercitazioni in cooperazione con forze militari o paramilitari di varia natura, con il proposito di assicurare uno stato di continua allerta per intervenire prontamente ogni qualvolta le circostanze lo ritenessero necessario. Il numero di tali forze variava dalle decine, alle decine di migliaia, rispetto alla natura specifica del rischio in ogni dato paese dell’Alleanza.
Tra il 1952 e il 1954, in Italia, la CIA ed il SIFAR (Servizio Informazioni Forze Armate, il servizio segreto italiano sorto nel 1949 per volere del Governo americano, che continuerà ad operare sotto stretta supervisione CIA sino al 1966) concordarono di creare anche un quartiere generale per le operazioni Gladio, che fu collocato in Sardegna a Capo Marrangiu, nella zona di Alghero. Noto tra i membri Gladio come CAG (Centro Addestramento Guastatori); opererà come un piccolo regno segreto e indipendente, dotato di uffici forniti di sicuri mezzi di comunicazione, un porto, una pista di atterraggio aerei ed elicotteri, un centro addestramento con poligono di tiro e alcuni bunker sotterranei. Il tutto attentamente recintato e sorvegliato da sofisticati sistemi di protezione.
Come sappiamo, durante la guerra fredda l’esistenza di tali reti spionistico-paramilitari fu tenuta accuratamente nascosta. Cionondimeno, in alcuni circoli diplomatici e ambienti militari, l’esistenza di un sistema NATO clandestino, non era ignota. Quando qualche rara informazione superava le maglie di una stampa largamente acquiescente, gli ambienti politico-istituzionali negavano risolutamente.
Nel 1990, dopo 40 anni, la Germania occidentale si riuniva finalmente con la sua parte orientale, Gorbaciov aveva guadagnato la simpatia di gran parte dell’opinione pubblica occidentale e i regimi del Patto di Varsavia si dissolsero uno dopo l’altro in rapida sequenza, sino all’epocale dissoluzione dell’Unione Sovietica. Gli aspri toni della guerra fredda si stemperarono e Francis Fukuyama (forse un po’ frettolosamente) decretò la fine della storia.
Il 24 Ottobre 1990, in un imprevisto discorso alla Camera dei Deputati, il Presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti ammise l’esistenza di Gladio, che in quel momento divenne quindi la prima organizzazione aderente alla rete Stay-behind a essere resa pubblica. Tale sorprendente discorso generò uno shock mediatico di enormi ripercussioni. A lungo sussurrata nei circoli diplomatici, in quel momento l’organizzazione era ignorata dalle opinioni pubbliche internazionali. L’inatteso discorso di Andreotti al Parlamento non fu certamente determinato da una decisione spontanea. Il Presidente del Consiglio era appena stato contattato dal giudice Felice Casson che, indagando sulla strage di Peteano del 1972, era riuscito a ricostruire una pista fascista conducente alla struttura di una organizzazione segreta, che si rivelerà infine essere Gladio. In quel momento, non era più possibile mantenere il segreto.
Nei mesi successivi, un flusso graduale di dichiarazioni governative rivelò l’esistenza di organizzazioni Stay-behind anche in altre nazioni europee, generando interrogazioni parlamentari e indagini da parte delle rispettive magistrature. Nella confusione che seguì il turbine di rivelazioni e smentite, l’opinione pubblica, disorientata, cominciò a domandarsi come tale sistema occulto potesse essere compatibile con i principi di un moderno Stato di diritto. Le spiegazioni ufficiali saranno oggetto di continue rivisitazioni, spesso contrastate da fonti investigative che gradualmente cominciarono a gettare una luce nuova e inquietante sulla più recente storia europea e su quella dell’Italia in particolare, il Paese dove la rete clandestina pareva fosse stata più attiva.
In ogni Stato europeo interessato, la versione ufficiale offriva il quadro di una organizzazione di cui si ammetteva la segretezza come necessità strategica, il cui fine ultimo era la protezione della pace, della democrazia e della libertà in Europa. Non solo, ma l’elemento principale nella creazione delle reti Stay-behind, era che tali organismi fossero attivati esclusivamente in caso di necessità, ovvero di attacco di forze nemiche dell’Europa. Con tale espressione si intendeva: in caso di invasione o infiltrazione comunista. Secondo tale narrazione, in assenza di tali rischi concreti, il sistema Stay-behind era supposto essere inattivo sino a quando non fosse stato reso operativo per ragioni specifiche da un rigoroso sistema di comando interno.
Questo è un punto centrale. Numerose indagini, condotte in tempi successivi da procure diverse in Italia e altrove, hanno dimostrato come elementi e cellule di tale organizzazione siano stati a lungo attivi in tempo di pace, in operazioni che non avevano nulla a che fare con il mandato ufficiale di Stay-behind. Tali operazioni erano in realtà concepite come ingerenze dirette nei processi democratici di alcuni Paesi dell’Europa occidentale. Spesso tali iniziative avevano finalità eversive, implicando anche l’uso della violenza. Talvolta si è trattato di operazioni terroristiche che hanno causato la morte e il ferimento di numerosi civili.
Tali operazioni in Italia talvolta sono state implementate in cooperazione con organismi criminali (mafia, camorra, ‘ndrangheta), logge massoniche con finalità eversive (P2), movimenti eversivi neofascisti (Ordine Nuovo, Rosa dei Venti) ed ex protagonisti del regime fascista o della Repubblica Sociale Italiana. In alcuni casi le autorità investigative hanno individuato l’uso di equipaggiamenti militari ed esplosivi originariamente destinati ad attività inerenti al contesto della guerra fredda. Spesso si trattava di esplosivi e armi in dotazione alle forze NATO. In taluni casi è stato rilevato che organi di polizia e autorità giudiziarie hanno attivamente intralciato o depistato indagini relative all’accertamento della verità su gravi episodi di terrorismo, nei quali strutture Gladio e individui appartenenti a istituzioni dello Stato, anche di livello apicale, sarebbero stati direttamente coinvolti.
Quattro diverse procure italiane indagheranno per anni su vicende connesse a Gladio, vicende che hanno avuto un impatto determinante sul corso della storia della Prima repubblica italiana. Undici processi si sono avvicendati con lo scopo di accertare presunte responsabilità di membri e strutture Gladio in attività con obiettivi politici eversivi. Sino ad oggi, nessuna condanna è stata emessa.
Non è sorprendente che durante il periodo di maggiori tensioni della guerra fredda, sia i Paesi occidentali che gli Stati del patto di Varsavia, abbiano potuto perseguire attività che non sempre rispettassero i confini della legalità. È certamente sorprendente, però, che la NATO, ufficialmente concepita come schermo di difesa dei valori democratici occidentali, abbia creato una rete occulta, che non abbia esitato a servirsi di azioni sovversive per riorientare il percorso politico di alcune democrazie europee, indipendentemente dagli esiti elettorali. Anzi, talvolta in opposizione a essi.
Dalle indagini dei giudici istruttori è emerso che Stay-behind è stata anche implicata nella implementazione di una strategia volta a diffondere instabilità politica e panico tra la popolazione con operazioni terroristiche: massacri su treni e stragi in occasione di manifestazioni popolari (Italia), sostegno a colpi di Stato militari (Turchia, Grecia), azioni di disturbo contro gruppi che si opponevano a regimi autoritari (Portogallo, Spagna).
In definitiva, in assenza di una temuta invasione sovietica dell’Europa, la rete Stay-behind si è dedicata a una guerra inconfessabile per contrastare soprattutto le forze politiche della sinistra, elette attraverso un regolare processo democratico. In alcuni casi, tali azioni di contrasto hanno compreso operazioni terroristiche che si cercava di attribuire falsamente ai movimenti comunisti per discreditarli. Il fine ultimo di tale strategia era di diffondere massimo terrore tra popolazione, sollecitando reazioni favorevoli a una svolta autoritaria.
Mentre le versioni ufficiali continuano a ripetere che le finalità ultime di Gladio erano di proteggere i principi democratici occidentali, sappiamo oggi che – quali che fossero le intenzioni – il risultato è stato l’esatto opposto. Nella seconda parte del XX secolo, Stay-behind ha rappresentato uno dei fattori che ha più attivamente inquinato il sistema democratico di alcuni Paesi europei, proprio quel sistema che professava di voler proteggere.
In realtà, ancora oggi, a cinquant’anni dai primi elementi emersi dalle indagini del giudice Casson, non esistono prove irrefutabili che documentino i legami tra i vertici NATO, CIA, MI6 ed elementi appartenenti alla rete Stay-behind. Mentre sono stati appurati gli sforzi di agenti Stay-behind nell’interferire nei processi politici in numerose circostanze e in diversi Paesi europei, manca l’evidenza incontrovertibile di istruzioni dirette di strateghi oltreoceano ad agenti Stay-behind attivi nel continente europeo. Non è possibile quindi determinare con precisione il ruolo delle diverse istituzioni statunitensi in Europa nel periodo della guerra fredda. Quali che siano le nostre interpretazioni di tale ruolo, è, però, oggi arduo negare le conseguenze di una istituzione creata con degli scopi ufficiali precisi, presto trasformata in una potente macchina di ingerenza politica che in ultimo ha contrastato le aspirazioni di progresso sociale di due generazioni.
L’espansione dopo la caduta del muro
Certamente non ci sarà nessuna improvvisa dissoluzione dell’egemonia statunitense in Europa, dove, a seguito della invasione russa dell’Ucraina, l’Alleanza atlantica gode oggi di una stagione di rinnovato fervore. Anche Paesi come la Finlandia e la Svezia, con una politica estera tradizionalmente ispirata da principi di neutralità, hanno improvvisamente richiesto di entrare nell’Alleanza; una decisione impensabile in altri tempi. Non solo, quindi, l’Alleanza ha rilanciato il proprio ruolo, ma è probabile che presto tale ruolo si espanda a una funzione di raccordo tra l’Europa e l’area dell’Indo-Pacifico, utilizzando i rinnovati dinamismi atlantici per rafforzare l’alleanza con Paesi come il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia, le Filippine e anche l’India. In tale nuovo contesto, Giappone e Polonia sono diventati primari punti di riferimento: il primo nelle crescenti tensioni con la Cina, il secondo in Europa, nel confronto con la Russia. La grande sfida si svolgerà non in Europa ma nell’Indo-Pacifico, dove sarà cruciale collegare la NATO alle nuove alleanze asiatiche, per contenere la Cina ed evitare che Taiwan cada nella sfera d’ influenza cinese, o peggio, sia annesso.
Tale sfida non sarà militare, così come gli obiettivi NATO non sono mai stati puramente militari. Dalle sue origini la NATO non ha mai avuto come finalità principale il consolidamento delle risorse militari occidentali, per il semplice motivo che l’establishment del Pentagono è sempre stato consapevole che il potenziale militare aggregato di tutti i membri europei della NATO – anche nel periodo di maggior tensione della guerra fredda – non avrebbe superato le cento divisioni: una piccola frazione del potenziale bellico del Patto di Varsavia.
La vera garanzia deterrente occidentale era (ed è) la preponderante macchina bellica statunitense con la sua autorità nucleare, ben al di là delle modeste risorse militari europee. Dal principio, il fine ultimo della NATO non è stato specificamente guidato da una strategia militare, bensì da una visione politica di un ordine mondiale a guida americana. In tale visione, la NATO è la principale configurazione istituzionale che regola il coordinamento delle relazioni strategiche tra l’Europa occidentale e gli Stati Uniti.
La protezione militare statunitense ha costituito una delle precondizioni implicite nelle concessioni europee a vantaggio della crescita economica americana (accordi commerciali, politiche monetarie, vincoli di forniture industriali, etc.). In tal senso le occasionali proteste americane (particolarmente di Trump) per la supposta negligenza europea nel finanziare adeguatamente il budget militare NATO, sono pretestuose. Il Governo USA è sempre stato consapevole degli eccezionali vantaggi politico-economici che gli Stati Uniti hanno guadagnato dalla NATO, infinitamente superiori rispetto ai loro contributi. In caso contrario non si spiegherebbe come la NATO non abbia seguito la stessa sorte del Patto di Varsavia nel momento della dissoluzione dell’Unione Sovietica, come era logico auspicare. Invece, all’indomani della scomparsa dell’Unione Sovietica, la NATO si è dedicata a un processo di accelerata integrazione atlantica del resto dell’Europa appena liberata dalla sfera d’influenza sovietica. Questo processo contraddiceva le assicurazioni date da G.W. Bush a Putin, nel vertice NATO di Bucarest nel 2008: la NATO non si sarebbe espansa oltre i confini raggiunti nel 2008. Al contrario, la NATO continuò – e continua – a espandersi senza limiti; uno degli elementi fondamentali che costituiscono il background politico dell’invasione russa dell’Ucraina.
A seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica, il rilancio del progetto NATO di sicurezza collettiva avrebbe dovuto essere alimentato da rinnovate istituzioni, connettendo la crescita della democrazia allo sviluppo economico. In realtà la prospettiva di crescita economica fu garantita dall’apertura dei mercati dell’est europeo all’economia neoliberista, cementando una nuova alleanza tra le élites degli apparati di sicurezza dell’Europa orientale e l’establishment finanziario statunitense. Tale configurazione strategica ha svolto una funzione fondamentale per sostenere la seconda ondata di annessioni NATO durante la stagione della cosiddetta guerra al terrorismo, quando nel 2004 sette nuovi Paesi guadagnarono l’ingresso. Molto presto le operazioni di antiterrorismo (con tutto ciò che vi gravitava intorno) avrebbero fatto recedere ogni preoccupazione su principi democratici e diritti umani.
Il futuro dell’impero e dell’Europa
Al di là delle loro dichiarazioni ufficiali, gli Stati Uniti non hanno mai avuto grande interesse di esigere un contributo militare sostanziale alla NATO da parte degli alleati occidentali. Dal principio gli strateghi del Pentagono avevano preventivato che gli Stati Uniti avrebbero dovuto fornire tutto il necessario supporto militare alla NATO per raggiungere un livello adeguato di deterrenza, al di là del contributo europeo. La guerra in Ucraina ha riaffermato tale modello, se possibile amplificandolo.
Gli investimenti americani per sostenere le forniture militari all’Ucraina hanno superato i 50 miliardi di dollari solo nel primo anno del conflitto: più del doppio di quanto offerto dall’insieme di tutti i Paesi dell’Unione Europea. Quali che siano stati gli investimenti militari europei dalla fine della Seconda guerra mondiale, il potenziale militare europeo continua a dimostrare un modesto livello di autonomia e una preponderante dipendenza dall’apparato militare USA. I sistemi di coordinamento NATO precludono la duplicazione di risorse militari tra forze europee e forze americane, relegando il ruolo degli alleati europei a funzioni militari essenzialmente secondarie. Il volume della produzione di forniture militari degli USA, la potenza di penetrazione commerciale del loro apparato industriale militare e gli standard di coordinamento tecnico tra gli eserciti occidentali ne hanno favorito l’industria militare a scapito di quella europea, impedendo infine la creazione di una forza militare europea autonoma.
In realtà questo non è un paradosso ma probabilmente una delle inevitabili conseguenze della NATO: aumento della dipendenza politica, militare, economica dei partners occidentali dal principale azionista NATO, gli Stati Uniti. Con il proprio contributo alla NATO (circa 6% del budget globale del pentagono, un contributo marginale rispetto ai colossali investimenti militari complessivi) gli USA hanno consolidato la propria egemonia politica sul continente, allo stesso tempo garantendo la longevità di un lucrativo mercato per la propria industria militare.
Come si diceva prima, questa strategia si è consolidata con la guerra in Ucraina, dove il massiccio impulso al riarmo europeo ha determinato un significativo aumento dei profitti dell’industria militare statunitense, con un peso non indifferente nella crescita dell’economia. L’accordo implicito in sede NATO al principio della guerra in Ucraina (mai ufficializzato ma ben inteso da tutti), assume che gli Stati Uniti finanzieranno la maggior parte delle spese militari, i partners europei finanzieranno le spese per il proprio riarmo (con forniture provenienti principalmente dall’industria USA) la ricostruzione dell’Ucraina, stimata, nel febbraio 2024, in una cifra che supera i 600 miliardi di dollari. Non serve quindi continuare a evidenziare i notevoli profitti generati dal sistema NATO per l’economia statunitense. E non è difficile immaginare come tale modello possa presto essere sperimentato con una espansione della NATO verso l’Indo-Pacifico, dove non è affatto scontata la volontà europea di sostenere un’altra avventura militare, questa volta con la Cina.
In tale contesto, è probabile che presto la diplomazia USA incoraggi un rafforzamento dei legami EU-Giappone. Il Giappone appare sempre di più l’alleato di punta per gli Stati Uniti nell’Indo-Pacifico, in quanto potenza militare non dichiarata ma in formidabile crescita. Il Giappone oggi dispone di una flotta seconda solo a quella americana, evidente segno di strategia espansionistica, come dimostrato dall’aspirazione a controllare le acque dell’arcipelago. Oltre al Giappone, anche la Corea del Sud è sempre più sollecitata a rivestire un ruolo maggiormente attivo nelle strategie americane dell’Indo-Pacifico. E tuttavia molti tra i Paesi che sono al cuore di tale contesto geopolitico non desiderano divenire satelliti degli USA, preferendo navigare in modo più autonomo le acque diplomatiche che scorrono tra la sponda cinese e quella americana. Ovvero riservandosi di volta in volta l’opportunità di scelte politiche differenziate, in funzione dei propri interessi nazionali.
Il conflitto in Ucraina ha dissolto l’ordine internazionale emerso alla fine della guerra fredda, innescando la più grave crisi in Europa dalla Seconda guerra mondiale. In effetti, l’Europa oggi affronta l’impatto di tre crisi parallele: il conflitto in Ucraina, l’espansione dell’influenza cinese e la crisi politica interna negli Stati Uniti, il Paese che ha sino a oggi rappresentato la principale garanzia di difesa della stessa Europa. Tali crisi hanno indirettamente prodotto una inattesa rinascita dell’Alleanza atlantica e un ritorno (paradossale) alle antiche garanzie di protezione statunitense, che, come sappiamo bene, sono oggi più fragili che mai.
In un momento in cui la leadership europea è chiamata a misurarsi con nuovi e più minacciosi rischi geopolitici, si preferisce ritirarsi in un’Alleanza che appartiene al passato, piuttosto che osare immaginare un’alleanza che anticipi la sicurezza del futuro. I leaders europei sembrano essere disorientati dalla improvvisa confluenza di più aggressive minacce, incapaci di rispondere alle nuove sfide con una nuova visione di sicurezza. A una devastante guerra sul continente, un crescente rischio di guerra regionale nel Medio Oriente, emergenti tensioni nell’Indo-Pacifico e riemergenti tensioni nei Balcani, gli Stati europei non hanno saputo reagire se non con un rilancio della NATO, peraltro limitato a progetti di riarmo, senza una nuova strategia globale. Esattamente ciò che potrebbe contribuire a nuove tensioni, piuttosto che risolvere tensioni già esistenti.
Il miglior modo di evitare future catastrofi deve cominciare dal riconoscimento delle opportunità offerte dall’attuale conflitto in Ucraina. Prima delle quali è il perseguimento di alleanze esterne alla costellazione NATO, precondizione essenziale per un nuovo sistema di sicurezza europea indipendente dalla protezione militare americana. Non certo un sistema antagonistico ma una coalizione resa più forte dalla nuova estensione, meno pregiudiziale delle storiche tradizioni atlantiche, che affianchi l’alleanza americana con una nuova visione politica, ben oltre gli attuali entusiasmi militaristi.
La delegazione USA alla recente conferenza di Monaco sulla sicurezza ha reso abbondantemente chiaro a tutti i presenti che gli Stati Uniti si attendono che l’Europa sia più capace di difendere se stessa. Dalle discussioni in margine alla conferenza, ai leaders europei è stato reso evidente che da un lato, gli antichi principi della alleanza atlantica sono oggi resi incerti dall’avvicendarsi dei più recenti eventi politici e militari; dall’altro i Paesi del Sud intendono ricalibrare le loro relazioni con i tradizionali partner. Ne consegue che la futura sicurezza europea non sarà più garantita dal volume degli investimenti militari e da provvidenziali (e oggi improbabili) salvazioni esterne, bensì da nuovi rapporti di equilibrio con i Paesi emergenti, oggi indispensabili per affrontare le sfide del futuro. E nuovi rapporti richiedono una nuova visione, guidata non da tradizionali strategie diplomatiche ma da una coordinata offensiva di soft power specificamente concepita per i Paesi del Sud.
A tutt’oggi mancano studi che abbiano analizzato in modo approfondito le ragioni della crescente penetrazione dell’influenza cinese e russa in aree dove erano tradizionalmente assenti. Pochissime sono state le strategie occidentali che hanno contrastato con successo tale ascesa, rispondendo in modo innovativo al declino dell’influenza europea. Conquistare i cuori e le menti dei paesi emergenti richiederà una profonda revisione degli equilibri esistenti e della statica posizione europea verso tali equilibri. Comporterà una diversificazione di investimenti occidentali e una immaginazione diplomatica molto diversa da quella impiegata sino a oggi.
Il successo della futura leadership europea sarà proporzionale alla capacità di riconfigurare i rapporti tra l’Occidente ed i Paesi emergenti del XXI secolo: India, Indonesia, Brasile, Sudafrica tra gli altri. In sostanza, valorizzare un assortimento di risorse europee non militari, per affrontare le sfide che hanno un impatto particolarmente sentito nei Paesi del Sud. In fondo si tratta di sfide universali, che preoccupano tanto i Paesi in via di sviluppo, quanto l’Occidente e il resto del mondo: debito pubblico, ineguaglianza, sicurezza alimentare, salute pubblica, istruzione, cambiamenti climatici, gestione dei flussi migratori.
La guerra in Ucraina ha definitivamente dissolto l’illusione della autonomia strategica europea, dimostrando la continua dipendenza dell’Europa dal sistema politico e militare americano. Ha anche determinato una improvvisa ansietà tra i leaders europei, per i rischi comportati dal volatile contesto politico negli Stati Uniti. Soprattutto, ha rivelato una preoccupante mancanza di visione coesiva tra Capi di Stato e di Governo in Europa. Forse la gravità di queste nuove consapevolezze, potrebbe finalmente convincere l’Europa ad aspirare non tanto ad una più imponente proiezione militare, quanto ad una maggiore responsabilità strategica. Il futuro dell’Europa non ha bisogno di una più stretta cooperazione all’interno della NATO. Ha bisogno di una nuova visione che vada oltre la NATO, cominciando a sciogliere quei vincoli di dipendenza che ancora la legano alle ombre di un passato forse mai del tutto passato.
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