Il rapporto tra etica e politica, quello tra élites intellettuali, masse e potere, l’insopprimibile fragilità della natura umana, sono i temi di fondo dell’ultimo lavoro di Franco Cassano, problematico fin dal titolo e, comunque, di grande impatto sul terreno teorico. La trattazione dell’agile, ma denso saggio (un prologo, tre capitoli, un epilogo) prende le mosse da un’inedita interpretazione della Leggenda del Grande Inquisitore, il famoso racconto che F. Dostoevskij, nel suo romanzo I fratelli Karamazov, affida alla voce narrante di Ivan. Da qualche tempo questa grande pagina di letteratura offre spunti di riflessione e di analisi utili alla comprensione di fenomeni che caratterizzano la realtà contemporanea: lo scorso anno la casa editrice Salani aveva pubblicato il testo della Leggenda aggiungendovi, a corollario, un contributo di Gherardo Colombo intitolato Il peso della libertà. Due anni fa, sempre alla Leggenda, aveva dedicato un proprio saggio Gustavo Zagrebelsky. Racconta, dunque, Ivan al fratello Aliosha che, nella Siviglia del Cinquecento, l’Inquisitore fa arrestare Cristo, appena tornato sulla terra, e si reca a far visita al prigioniero. Quello dell’Inquisitore è un lungo monologo, attraverso il quale egli rimprovera al Nazareno la sua perfezione morale, che non è in grado di cogliere la debolezza dell’animo umano (il rigore del Cristo è per i santi, non per l’imperfezione del mondo) e lo accusa di aver dato agli uomini la libertà invece del pane, dimenticando che le sole forze che la fragile umanità accetta davvero come formule per una vita felice derivano dal Mistero, dal Miracolo e dall’ Autorità. Così il Grande Inquisitore apostrofa Gesù: “Sappi che anch’io sono stato nel deserto, anch’io mi sono nutrito di locuste e radici, anch’io ho benedetto la libertà con la quale Tu avevi benedetto gli uomini, e anch’io mi ero preparato a entrare nel numero degli eletti tuoi, nel numero dei capaci e dei forti. Ma io ho aperto gli occhi, e non ho voluto servire la follia. Ho virato di bordo, e mi sono aggregato alla schiera di quelli che hanno emendato le tue gesta. Ho girato le spalle agli orgogliosi e mi sono rivolto agli umili, per la felicità di codesti umili.” Il riferimento è a quel celebre passo dei Vangeli in cui Gesù, nel deserto, respinge con asprezza le tentazioni di Satana, tentazioni tipicamente umane, come sono il cibo, il potere. L’esempio del Nazareno è un esempio esigente, che non promette facili aiuti, che chiama coloro che aspirano a seguirlo alla dimostrazione di una grande forza di volontà. L’Inquisitore ha un rimprovero durissimo da muovere: consegnando la fede ad un atto di libertà, Cristo ha proposto agli uomini un compito del tutto superiore alle loro forze; gli uomini non sono fatti per la libertà perché non ne sono all’altezza. Ecco allora che, secondo il Grande Inquisitore, è bene che la Chiesa si occupi degli uomini comuni. Questo avverrà attraverso l’inganno, la paura, la soggezione, ma solo così gli uomini verranno sollevati dal dover contare su se stessi, da una libertà troppo gravosa per loro. Il potere temporale è divenuto tale, a detta dell’Inquisitore, proprio perché ha permesso a tutti di peccare. Naturalmente la lettura più comune di queste celebre pagina insiste sulla polemica di Dostoevskij nei confronti della Chiesa Cattolica. Secondo l’interpretazione classica, il Grande Inquisitore vuol essere la rappresentazione del male, mentre Cristo, ovviamente, è quella del bene. Ma, dice Cassano, la figura dell’Inquisitore è molto più complessa. Molto più complessa è la critica della supremazia morale, che si traduce quasi sempre in “aristocratismo etico”. Molto più complesso è il riconoscimento (storico, non solo morale) della umana imperfezione. Superando le interpretazioni tradizionali, Cassano sottolinea come le ragioni del Grande Inquisitore abbiano una loro motivazione stringente e ad esse va riconosciuto se non altro il merito di porre “l’attenzione per i miseri , per i deboli, per coloro che non hanno la forza morale per essere all’altezza dei principi più esigenti formulati da Cristo”. Quello descritto da Ivan, attraverso la figura del Grande Inquisitore, è un male che conosce profondamente la natura degli uomini e fonda il suo potere sulla capacità di coltivarne le debolezze. Nella partita contro il bene, grazie alla sua “umiltà”, cioè alla capacità di non ergersi mai a censore del “comune sentimento morale”, il male parte sempre in vantaggio poiché accetta la natura umana così come essa si manifesta, assecondandola e, dunque, potenziandone la fragilità. Se il bene incarna il dover essere, il male rappresenta l’essere; perciò non richiede agli uomini impegnativi percorsi di redenzione. “Il bene – scrive Cassano- è così preso dall’ansia di raggiungere le sue vette che spesso finisce per voltare le spalle all’imperfezione dell’uomo, lasciandola tutta nelle mani delle strategie del male. Chi ha gli occhi fissi solo sul bene, spesso ha deciso di non guardare altrove: l’urgenza di giudicare, di misurare l’essere sul metro del dover essere, lo porta a guardare con impazienza chi rimane indietro, e tale mancanza di curiosità lo porta alla sconfitta. Il male approfitta della distrazione o della boria del bene per mettere le tende e costruire alleanze”. Dunque, l’attenzione per i più deboli (l’”umiltà del male”, appunto) non deriva, in questo caso, da un sentimento di solidarietà, ma dalla volontà di usare gli uomini “per i propri disegni, di riprodurne la soggezione, di mantenerli per sempre fanciulli e dipendenti da sé”. L’obiettivo del Grande Inquisitore è, perciò, quello di allontanare i “migliori” (élites o avanguardie che siano) dal resto della società umana, mettendo in evidenza l’insopportabile narcisismo della perfezione morale. “Il vantaggio dell’Inquisitore, – scrive Cassano – quello che gli ha permesso nel corso di quindici secoli di occupare ed usurpare lo spazio della predicazione evangelica sostituendo ad essa una macchina del potere, sta tutto nella sua visione più realistica dell’uomo, nella scelta di attenderlo non alle grandi imprese edificanti, ma nel momento della debolezza e del bisogno. Sta nel fatto che egli crede che la verità dell’uomo risieda nella sua perenne ed insanabile immaturità”. Un ulteriore approfondimento, nella riflessione sul rapporto tra bene e male e su come esso venga vissuto dagli esseri umani, poggia sull’analisi lucidissima e “scientifica” proposta a suo tempo da Primo Levi ne I sommersi e i salvati, là dove ci si sofferma sulla cosiddetta “zona grigia” che, nell’inferno dell’Olocausto, rendeva spesso confuso, nei comportamenti quotidiani dell’esperienza concentrazionaria, il confine tra vittime e carnefici, tra torturati e torturatori. La “zona grigia” non è tale solo perché le figure dei persecutori e delle vittime si confondono, ma anche perché questa sovrapposizione rende difficile la formulazione di un giudizio su chiunque sia stato risucchiato al suo interno. Di fronte all’Olocausto, occorre mettere tra parentesi il giudizio. “Sospendere il giudizio sui prigionieri–funzionari significa … ricordare che quegli uomini avevano il diritto ad una vita normale, l’unica che gli avrebbe permesso di essere innocenti o colpevoli, esemplari umani ottimi o pessimi, in quanto esseri liberi. Essi sono da sottrarre al giudizio perché sono stati sottratti alla loro libertà. Il male corrompe e confonde, cerca di inquinare le prove. Dichiarare la propria impotentia judicandi non vuol dire abdicare al giudizio, ma al contrario evitare questa confusione. Per quanto deboli ed imperfetti fossero i deportati essi avevano il diritto di vivere la propria debolezza in condizioni normali, mentre il male non solo l’ha dilatata con il terrore, ma l’ha anche resa strumento dei suoi progetti e dei suoi incubi”. “L’abiezione massima del nazionalsocialismo sta proprio nell’aver ucciso l’anima delle vittime facendole diventare carnefici a loro volta”, riflette Cassano. Non a caso ad uscire salvi dal lager sono, paradossalmente, i reietti, le anime peggiori. Quelle che, con il male, scendono a patti, perché il ribelle, che è turbamento dell’ordine malefico ed insieme concretizzazione di un bene possibile, è eliminato fisicamente, tramutandosi da esempio in ammonimento. La chiave del testo è qui. Nella ricerca della soluzione giusta per combattere con efficacia la brutalità del male, senza finirne tentati. E, soprattutto, schiacciati. Citando La banalità del male di Hanna Arendt, Cassano riconosce che l’uomo medio si esonera dal proprio senso di colpa perdendosi nella massa indistinta, cosicché in un regime totalitario può giustificare se stesso nell’individuazione del tiranno quale capro espiatorio, come Male Assoluto, vero e unico colpevole di ogni nefandezza. Ma evidentemente, osserviamo, esiste una differenza decisiva tra la zona grigia di un campo di concentramento (racchiusa nella figura paradossale del kapò che si fa aguzzino) e la zona grigia di una società complessa e formalmente democratica: questa è piuttosto costituita dalla somma delle sue maggioranze silenziose. Il terzo ed ultimo capitolo del saggio è dedicato ad un famoso dibattito radiofonico, che vide contrapposti Arnold Gehlen e Theodor Adorno, nel quale emerse con chiarezza la distanza fra due modi di intendere la natura umana. Per Gehlen l’uomo trova nelle istituzioni, nella loro capacità di contenere gli istinti, di stabilizzare secondo regole certe i comportamenti: binari certi, che sollevano dal problema, dalla fatica di una continua decisione e autodeterminazione. Adorno, in sintonia con la linea filosofica della Scuola di Francoforte, vede le istituzioni come espressione di un potere imposto, e legge l’adesione acritica ad esse come la conferma di una sudditanza, di un meccanismo alienante. Di qui l’idea che sia necessario dotare ogni uomo di forti strumenti critici, per una vera autonomia, per una autentica indipendenza da un pensiero unico pervasivo. Ma mentre Adorno vede nella subalternità alle istituzioni una fonte di alienazione, una patologia storico-sociale che l’uomo deve combattere per conquistare la propria libertà, per Gehlen la funzione vitale delle istituzioni sta proprio nella loro capacità di liberare le spalle degli uomini dall’onere di dover riflettere e assumere decisioni su ogni questione. Adorno ammette che la strada da lui prospettata non è semplice, ma conferma come essa sia l’unica che porta verso una vera libertà. L’approccio antropologico di Gehlen parte, invece, dall’osservazione della natura umana per quella che è, escludendo qualsiasi prospettiva di liberazione futura, qualsiasi concessione all’utopia. Le “riletture” proposte da Cassano vanno, con tutta evidenza, riferite all’Italia di oggi. Scrive Cassano: “Uno dei rischi più gravi oggi è quello di rifugiarsi in una sorta di repulsione antropologica nei riguardi delle plebi dominate dal consumismo, sulle quali l’egemonia non ce l’hanno più i sermoni dei chierici, ma la seduzione pianificata dei piazzisti.” Il nucleo forte del saggio sta proprio nella re-interpretazione della figura del Grande Inquisitore di Fedor Dostojevskji. Lui, che condannò a morte Gesù Cristo obbligandolo al silenzio per non peggiorare la sua condizione. Lui, che vendette per buona la sua verità, elevandola a verità imposta, a giustizia dall’alto, a volontà popolare. E’ così che il male penetra il potere, l’uno si intreccia e si accoppia con l’altro. La superiorità del male è nella concretezza. A differenza del bene, il male non ha incertezze né remore. Di qui, la sua “umiltà”. Non scansa le maggioranze, le ammorbidisce, infine le piega ai propri voleri. Secondo Cassano, deve affermarsi, in chi vuole impegnarsi per l’emancipazione dei più, la volontà di contaminarsi con la medietà del mondo. La superiorità del male sul bene sta, infatti, nel sapersi confrontare con la debolezza congenita della natura umana, col suo bisogno di protezione e di cura. Al contrario, proprio chi vuol evitare che molti cadano nel baratro, spesso finisce per bearsi della propria diversità, rifugiandosi in una sorta di narcisismo etico e nella retorica delle minoranze pure e incontaminate. “Il pensiero dell’emancipazione –scrive ancora Cassano- non deve abbandonare la sua radicale contrapposizione al pensiero conservatore, ma deve saper rinunziare a quel malinteso senso di superiorità che gli impedisce di apprendere dal rapporto più lucido che spesso il suo avversario intrattiene con la realtà.” Non sono giuste le risposte che il pensiero conservatore offre. Non sono condivisibili. Anzi, bisogna essere pronti a smascherare la rendita di potere che esse nascondono. Ma va riconosciuto anche che il rapporto tra culture conservatrici e masse spesso si basa sulla capacità di interpretare le corde profonde della società, le sue ansie, le sue paure. Scendere dall’Olimpo degli eletti, dal Gotha dei “dodicimila santi”, troppo lontani dalla prosaicità della maggioranza, rimanda alla necessità di fare i conti con ogni debolezza terrena: la povertà, certo, ma ancor di più “l’insuperabile fanciullezza degli uomini”, quella naturale tendenza a voler dormire sonni tranquilli, non per cattiva fede, ma per una biologica carenza di tempra morale. Tuttavia, si rivela ancora un compito arduo quello di dover tarare la propria condotta sull’equilibrio sottile tra un’etica dell’intenzione (che non accetta compromessi perché si vuole incontaminata e assoluta) e un’etica della responsabilità (che bada più agli effetti dell’azione etica e umilmente scende a patti col mondo). Non si tratta di abdicare alla volontà di dare un senso concreto alla prospettiva del bene e della libertà, quanto piuttosto di riconoscere che “il vantaggio dell’Inquisitore … sta tutto nella sua visione più realistica dell’uomo, nella scelta di attenderlo non alle grandi imprese, ma al momento della debolezza e del bisogno”. A noi sorge spontaneo il dubbio che l’errore del Cristo risieda proprio nel generoso credito riservato alle possibilità umane, in definitiva alla nostra coscienza morale e alla fede di chi crede. E vorremmo non farci trascinare in uno dei tanti slittamenti semantici che, lavorando nel profondo del linguaggio e della coscienza, da alcuni anni stanno erodendo alcuni pilastri della nostra cultura: per esempio, evitiamo di assimilare l’uomo morale al “moralista”. L’uomo morale persegue la propria virtù, mentre il moralista la pretende negli altri. Il primo, incarna spontaneamente il bene con la testimonianza e con l’esempio, il secondo si mette in cattedra esortando gli altri a comportamenti virtuosi, indifferente alla vulnerabilità della loro natura. L’uomo morale si sente spesso inadeguato, ma è spietato con le proprie debolezze e semmai cerca di dimostrare con la prassi che un altro mondo è possibile. Lavora sulle sue fragilità e per questo non fa prediche. Non le sue parole, ma il suo comportamento rappresenta un’indicazione per chiunque voglia liberamente seguirlo, o semplicemente apprezzarne l’azione. La lettura del saggio di Cassano pone sicuramente su nuove basi alcuni fondamenti teorici destinati ad orientare la prassi politica ed apre la strada ad una riconsiderazione e ad un aggiornamento del concetto gramsciano di “rivoluzione passiva”. Per restare a Gramsci, il saggio rappresenta un potente, brusco richiamo al “pessimismo della ragione”, un pessimismo derivato da una visione antropologica che sottrae illusioni a chi ancora si ostini a coltivare l’utopia dell’ “Uomo nuovo”. Gennaro Lopez
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