Foto di Gerd Altmann da Pixabay
Su «Il Fatto Quotidiano» del 10 aprile 2020 Gianfranco Pasquino ha pubblicato un articolo dal titolo L’ipocrisia di dire che tutto cambierà in cui, a fronte di slogan come “andrà tutto bene”, “ce la faremo”, “torneremo come prima” si chiede se «piuttosto che affermazioni retoricamente ottimistiche, non dovremmo preferire, anzi, pretendere parole di verità: “I have nothing to offer but blood, toil, tears, and sweat”». Perché “prima” le cose non andavano affatto bene per moltissimi, e il ritorno a quel “prima” non è affatto desiderabile né, soprattutto “giusto”. Per cui «no, non dobbiamo affatto augurarci che “tutto tornerà come prima”. Al contrario, dobbiamo fare sì che il nostro sangue, il nostro lavoro, le nostre lacrime e il nostro sudore servano a cambiare profondamente le società nelle quali viviamo e le modalità con le quali ci comportiamo».
Questa giustissima posizione merita, a mio avviso, una precisazione, che riguarda la sinistra.
L’accusa di ipocrisia è infatti rivolta da Pasquino anche allo slogan apparentemente contrario a quelli prima richiamati (che dicono: tutto tornerà come prima), e cioè a quello che dice “tutto cambierà”. Perché è ipocrita anch’esso? Perché, mentre constata che, per forza di cose, tutto cambierà, implicitamente suggerisce che questo cambiamento avverrà verso il meglio: si verificheranno certo enormi cambiamenti nell’economia e nella geopolitica, e saranno cambiamenti politici necessariamente “positivi”, perché faranno tesoro dell’esperienza. Questo slogan, inteso in questo senso, è purtroppo stato assunto anche da forze soi-disant di sinistra: da quelle, avremmo detto un tempo, “positiviste”, che credono solo nello sviluppo “oggettivo” delle cose, delle tecniche di qualunque genere: dall’informatica alla robotica alla logistica all’organizzazione bancaria…
Se slogan come “andrà tutto bene”, “ce la faremo”, “torneremo come prima” sono ambigui perché possono essere intesi come ingenui, adatti a dar forza ai bambini e a infondere la speranza nel ritorno ad una vita, almeno, non schiacciata dalla paura della malattia e della morte (e nascondono il loro lato reazionario, che giustifica le ingiustizie del “prima”) anche lo slogan “tutto cambierà” è superficiale e reazionario. “Cambiamento” non vuol dire niente se non è accompagnato dall’orientamento a una società valutata come giusta.
Mi limito ad usare questo aggettivo ben sapendo che da Platone in poi è quanto mai indeterminato: lo prendo nel senso che ha nell’espressione storica “giustizia sociale”. Occorre quindi, per qualificare l’orizzonte, una potente iniezione di volontarismo, di artificialismo, di coscienza della necessità di imporre un nuovo “dover essere” a un “essere” ingiusto, violento, discriminatorio, ma vivacissimo nel suo ribellarsi. Un “dover essere” politicamente orientato e politicamente “voluto”, in un contesto in cui la disparità di forze è estrema.
Qual è, per noi, il nodo vero che deve cambiare? Se vogliamo instaurare una società molto più giusta, più viva, più ricca di quella di “prima”, non possiamo non affrontare il problema della forza. Per avere influenza politica occorre avere la forza di incutere paura (o, per lo meno, timore). Se no, sono solo chiacchiere. Penso che nessuno di noi (anche se molti oggi lo stanno sostenendo) creda che basti accompagnare il cambiamento oggettivo con buoni consigli dedicati alla qualità dei “mezzi”. Forse mi sbaglio. Ma penso che qualche tendenza del genere ci sia. E allora, posto il problema della forza, bisogna risolvere un dilemma: a fronte dell’attuale oligarchia, che governa servendosi della demagogia, su quale risorsa di forza vogliamo appoggiarci? Riteniamo che sia ancora possibile puntare sulla democrazia organizzata, o no? Io mi troverei molto più a mio agio con Vittorio Amedeo II o con Federico di Prussia che con gli attuali “cercatori di visibilità”. Ma è difficile che ciò possa accadere.
E allora bisogna scegliere. Se vogliamo puntare sulla democrazia organizzata, che in quanto tale sappia essere forte, dobbiamo ammettere che non basta affidarsi ad una generica “democrazia del voto” (orientata dalla “libera stampa”). Dobbiamo invece ammettere che:
a) Il “principio libertà” ha travalicato da tempo il tradizionale terreno del diritto pubblico e non solo sta godendo di un pressoché incontrastato primato in tutte le scienze sociali, ma è certamente egemone (nella sua formulazione più rozza) nell’opinione pubblica.
b) Questa espansione del “principio libertà” rende ormai quasi impossibile distinguere il principio stesso come principio giustificato dalla uguale ricerca, da parte di tutti, della verità, nell’interpretazione assolutamente e tragicamente sincera nell’intenzione di chi la propone, e “mite” di fronte alle altre sue possibili formulazioni, separandolo dall’opposto principio che si concreta nel rifiuto della Legge – di ogni legge – in nome dell’assoluto e inscalfibile primato delle preferenze soggettive così come sono, immediata e indiscutibile espressione della sovranità individuale, e che quindi cerca la rissa e l’annientamento dell’avversario. Qui libito, o tecnicamente possibile, è per ciò stesso licito. Il rifiuto della Legge, è il rifiuto dell’Altro, del Terzo e trasforma la libertà in perversione.
c) È indubbio che la teoria democratica classica ha fatto propria la prima interpretazione della libertà, e quindi ha assunto una visione in cui la libertà dell’essere umano si ferma davanti alla libertà dell’altro. E ha concepito questo essere umano non come un filosofo, o uno scienziato… Ma come l’uomo e la donna comuni, perché ha attribuito a questi esseri comuni il massimo del potere istituzionale.
d) Ma oggi la democrazia sembra negarsi, le sue procedure sembrano solo più canali in cui scorre violenza e volontà di sopraffazione. Il concetto di popolo – presso alcuni, pochi – mantiene un fondo di positività, di bontà, si potrebbe dire di santità, anche se molti comportamenti “popolari” inducono atteggiamenti di sfiducia, anche di paura, che portano inevitabilmente a schiacciare il concetto di popolo su quello di populace. Sembra che la feccia di Romolo abbia fatto dimenticare la repubblica di Platone.
e) Ma questa gente semplice, questo popolo comune, va trasformato in forza politica potente e saggia.
f) L’unica ancora di salvezza mi sembra allora quella di scommettere (un pari pascaliano), ancora una volta, che i “bisogni popolari”, le “idee semplici” sono (come abbiamo creduto nel passato col movimento comunista) la sede della verità filosofica e, contemporaneamente, della forza politica. Scommettere – seguendo Vico – che nel senso comune si può vedere «non l’universalità astratta della ragione presente in tutti gli uomini, ma l’universalità concreta d’una comunità storica tenuta insieme dal consenso e dalla partecipazione degli individui a una stessa vita sociale», e allo stesso tempo «non l’identità d’un sistema di pensiero speculativamente comunicabile, ma l’incarnazione storica e molteplice della vis veri, considerata soprattutto come energia formante; ed efficace assai prima nella “sapienza volgare” … che nella sapienza riflessa e consapevole dei filosofi». Ben sapendo che il senso comune è solo quello che resta come veramente fondamentale dopo che è stato messo radicalmente in questione dalla filosofia. «Abbiamo visto … la miseria del senso comune, il suo semplicismo, la sua bonarietà, la sua assenza di problemi, la sua insulsaggine, la sua presunzione. … Ma non appena sottoposto a quella radicale problematizzazione in cui la filosofia consiste, esso si è inaspettatamente rivelato come il vero e proprio “oggetto” della filosofia … il senso comune senza filosofia degenera, diventando semplice luogo comune, e con la filosofia può rafforzarsi, manifestando la sua genuina e profonda natura … senso comune e pensiero filosofico s’incontrano e cospirano, … l’uno non può stare senza l’altro … il pensiero filosofico più alto riconferma il senso comune più profondo». (Pareyson)
g) Se accettiamo quest’ultima speranza, pur immersi in un mondo che appare senza speranza, allora «in queste condizioni, dovremmo riuscire ad approfittare di un possibile ‘diventare di massa’ della critica anticapitalista e antineoliberale, del bisogno di stato sociale» come dice Ida Dominijanni. Che cosa vuol dire infatti “diventare massa” se non partire dai bisogni profondi e permanenti e dal linguaggio, della massa? Ma allora approfittare (di una cosa che sta succedendo) non vuol dire pensare di poterne essere sospinti in un contesto più ospitale, ma vuol dire contribuire con una azione volontaria e determinata, per quel che possiamo, a far diventare di massa la critica ed il bisogno: partendo dalle domande più vitali e dunque più semplici. Qui, per noi, è il luogo in cui verità e volontà di potenza si convertono l’una nell’altra.
h) Forse è troppo tardi. Forse le sabbie mobili della società italiana si stanno già chiudendo sulle nostre teste. Dopo i primissimi tempi della pandemia, quando sembrava che prevalesse un atteggiamento di responsabilità, adesso si è scatenato un pandemonio di “particulari”. Tutti pretendono che tutti vengano risarciti di tutti i danni subiti e approvvigionati di tutti i capitali per riprendere le attività. Richieste legittime. Ma chi le avanza non sa in che mondo disastrato viveva quando tutte le strutture di solidarietà – in primis il fisco – venivano bombardate o lasciate agonizzare nell’incuria? È facile scandalizzarsi quando si vede che muoiono come mosche gli “ospiti” dei dormitori pubblici comunali, in brandine che distano sì e no venti centimetri l’una dall’altra. Ma che cosa dicevano i benpensanti quando i demagoghi predicavano l’abolizione dell’IMU? La nostra società politica ha voluto illudere sé stessa, fingendo di vivere in un mondo opulento, perché si rifiutava di prendersi carico politicamente dell’enorme mondo degli “scartati”.
La pandemia ha stracciato il velo: il nostro Stato è povero, anzi poverissimo rispetto a ciò che sarebbe necessario per una vita libera e dignitosa di tutti. È debole fino al ridicolo (si pensi alle sciocchezze dei “governatori” del lombardo-veneto e della Campania). Ed è oggetto di disprezzo nel consesso delle nazioni. La debolezza alla radice di tutte, è che il popolo italiano è evaporato nei suoi tratti politici: è un oggetto misterioso. Nella realtà sembra che ci siano resistenze di raziocinio, ma nella rappresentazione giornalistica il paese appare come divorato da un cancro fatto di egoismo sfrontato e di mendicità, propri di quelli che «chiedono con minaccia, accettano con dispregio», come diceva Vittorio Emanuele Orlando nel 1910. Per non parlare degli eletti, che si rifiutano (o non sono capaci) di rivolgere al popolo discorsi di lungo respiro, o fomentano crisi e scontri per ragioni che è impossibile definire politiche.
Trasformare l’attuale senso comune manipolato in una visione chiara e semplice dei bisogni individuali e collettivi appare dunque quanto mai arduo. Anche perché al collasso interno si stanno aggiungendo i primi effetti di uno scontro geopolitico che sta abbattendo sulla società italiana un neo-atlantismo, rozzo come sempre, ma attrezzato a soffocare qualunque tentativo di uscita dal “prima”.
Per tornare alle citazioni churchilliane di Pasquino: mai come ora vale l’ammonimento che, se vogliamo «new structures of national life», queste non potranno essere erette se non «upon blood, sweat, and tears».
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