Articolo pubblicato su “il manifesto” del 25.06.2024.
Nel 1972 Einaudi pubblicava la traduzione italiana de “L’economia politica della schiavitù” di Eugene Genovese e nel 1973 nella collana “Materiali marxisti” di Feltrinelli usciva “Lo schiavo americano dal tramonto all’alba” di George Rawick. Ho l’impressione che anche tra di noi un corso di ri-alfabetizzazione sullo schiavismo sarebbe necessario. Perché, malgrado la costante attenzione sull’accoglienza, i salvataggi in mare, le ong, gli accordi con l’Albania e la Tunisia, sulla questione immigrazione insomma, rimane del tutto in ombra il problema di sapere, una volta che sono stati salvati, questi esseri che fine fanno in un paese come l’Italia, che dovrebbe essere un paese civile. La percezione che alcune filiere fondamentali dell’economia italiana poggiano sullo schiavismo non è affatto chiara, credo anche tra di noi. Cioè non ci si rende conto che lo schiavismo ha determinato la struttura dei costi di alcune filiere e come tale è materialmente impossibile eliminarlo. È diventato legge del mercato, tacitamente riconosciuta e accettata da tutti. Proviamo a immaginare se tra un mese tutti i lavoratori del settore agricolo fossero pagati con un salario minimo di 9 euro l’ora. Salterebbero migliaia di aziende, di negozi, di ristoranti, d’intermediari – uno tsunami incomma. Quando in un determinato settore si consolida una certa struttura dei costi, e principalmente un determinato costo del lavoro, per cambiarla ci vuole qualcosa che assomiglia a una rivoluzione. Infatti nella storia recente dell’Italia è avvenuto una sola volta: negli anni ’70. E abbiamo visto come è finita.
Ho l’impressione che la schiavitù, invece di essere percepita come elemento strutturale della nostra esistenza come cittadini-consumatori, sia ancora intesa come eccezione, come serie di casi singoli, di casi estremi. E anche quando viene riconosciuta come schiavitù, viene data per legittima. Mi viene in mente il caso di Grafica Veneta, la più importante stamperia italiana di libri, quando, nel luglio 2021, venne fuori che impiegava lavoratori pakistani in condizioni disumane. Ci furono anche una decina di arresti. Sarebbe stato logico che Confindustria del Veneto mettesse alla porta un socio che praticava lo schiavismo. Sarebbe stato logico che le banche rifiutassero i crediti a un’azienda che non rispettava i famosi tre parametri ESG (environmental, social, governmental). Figuriamoci, anzi, il titolare poteva continuare a dare interviste alla grande stampa come opinion maker e affermare che lui s’era stufato di pakistani che non si lavavano. Alla stessa maniera il titolare dell’azienda che ha trattato in quel modo barbaro Sitman Singh può dichiarare in tv che è stata colpa dell’indiano e che a causa sua la comunità di Latina ha avuto un danno d’immagine.
Quanto ormai la percezione della schiavitù e della sua dimensione strutturale sia debole lo si vede anche dal modo in cui si confonde caporalato e schiavismo. Sebbene intrecciati, sono due fenomeni distinti. Di caporalato si occupava già Di Vittorio, lo schiavismo di cui stiamo parlando è roba recente e il fatto che dentro ci siano anche italiani non cambia le cose.
Come se ne esce? Non se ne esce, dobbiamo dircelo e smettere l’insopportabile ipocrisia con cui si parla d’inasprimento delle pene, di rafforzamento dei controlli, di formazione. Tutti miserabili palliativi. Ora che la struttura dei costi si è consolidata in quel modo nella filiera agro-alimentare, nella logistica e in altre ancora, dopo decenni che ben poco si è fatto o si è stati capaci di fare per impedirlo, solo un movimento di massa di carattere rivoluzionario, ossia un movimento che implica una serie complessa di azioni, non solo sindacali, e soprattutto un cambio di mentalità del senso comune, può cambiare le cose.
Fino a quel momento l’Italia resta un paese con un grado d’inciviltà veramente umiliante, che ha riportato in Europa – non la sola, ma in misura superiore ad altre nazioni – lo schiavismo. E poiché l’Europa ha avuto un ruolo fondamentale non solo sulla questione dei diritti umani ma soprattutto dei diritti di chi lavora, è un bel triste primato.
Esiste nel nostro Codice Penale il reato di “riduzione in schiavitù”, è l’art. 600 C.P.. Ricordo solo un caso dove è stato applicato – ma ce ne saranno stati molti altri. Era nei confronti di un’azienda di trasporto. Erano autisti, camionisti long haul. Un ambiente che seguo da qualche decennio, dunque non mi ha meravigliato.
Grazie Satman Singh, grazie di averci resi un po’ più consapevoli di quello che siamo. La tua effigie dovrebbe stare su un cartello infisso su ogni campo dove si coglie la frutta e la verdura, e in moltissime altre situazioni di lavoro ancora, dalle Prealpi alle grandi isole.
Un ultimo pensiero. Di recente un grave infortunio mi ha costretto a una lunga degenza ospedaliera in una struttura della sanità pubblica. Ho trovato dei giovani medici bravissimi in tutto, dal rapporto col paziente all’uso delle più moderne tecnologie. In questo paese dove l’onda nera dell’inciviltà sale inesorabilmente è la gente come loro, nella scuola, nella vita quotidiana di ogni giorno, a tenere in piedi la baracca. Siano questo tipo di persone, di professionisti, di gente comune, di esempio alle nuove generazioni. Qualche segnale che i ventenni l’abbiano capito c’è già.
* Questo tema è stato sviluppato in Sergio Fontegher Bologna, Alcune note sulla questione dei ceti medi e dell’estremismo di destra in Italia dal dopoguerra a oggi, Acro-Polis, 2024.
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