Il tema è di quelli che chiamano alla riflessione. La radicalità cristiana interroga la sinistra? Possiamo intanto dire tranquillamente questo: la sinistra non risponde. Cerchiamo di capire perché. E’ impreparata, non ha avuto tempo per studiare, ha avuto altro a cui pensare? Probabilmente, tutte queste cose, e qualche altra ancora. Partiamo dal principio. Che cosa si intende con l’espressione “radicalità cristiana”? Che cosa si intende in politica: perché di questo dobbiamo parlare. Bene, io non credo che la questione vada spostata subito sul sociale: gli ultimi, gli esclusi, gli umiliati e offesi. Questa è una dimensione del problema che la sinistra possiede già. Diciamo meglio: che la sinistra dovrebbe possedere già. Non sarebbe, comunque, questa, una domanda difficile. Un minimo di preparazione, una sinistra di qualunque tipo, sul tema ce l’ha. La domanda invece è difficile. Di nuovo, perché?
Conviene allontanarsi per un momento dalla immediata contingenza e guardare il tema più da lontano. Di questa mossa di pensiero si sente ormai acuta necessità. E’ quanto ho intenzione di fare. La radicalità cristiana ha un nome preciso. E quel nome è il Vangelo: il messaggio, l’Annuncio, la buona novella del Dio incarnato, del Dio che si fa uomo, il miracolo del cielo che scende sulla terra, non per dimorarvi ma per attraversarla, nel proposito di tornare ad essere cielo. Il tutto è in quella frase, è nella Parola: stare nel mondo, senza essere del mondo. Io non so più bene oggi che cosa sia sinistra, che cosa esattamente si voglia significare con questo titolo. Cerco di usare la parola il meno possibile. Conosco poco il dopo che si vuole dare; e di quel poco, diffido. Conosco bene il prima, che almeno è sicuro che si è dato. Parlo del movimento operaio, della sua lunga travagliata grandissima storia. Un bel tema, di studio, di pensiero, sarebbe ricostruire il rapporto tra radicalità cristiana e movimento operaio. Dalla figurina ottocentesca del Gesù primo socialista alla folle persecuzione dei cristiani nel socialismo realizzato, dalle scomuniche in punto di dottrina alle pratiche dei preti operai, ce ne sarebbero di vicende da raccontare. Il socialismo moderno nacque ateo e materialista e il comunismo, che veniva da molto più lontano, non seppe deviare il corso del fiume. Rimane un mistero perché cristianesimo e comunismo non si siano incontrati e, peggio, perché si siano così aspramente combattuti: una ferita della storia, che il grande Novecento, invece che sanare, ha tragicamente lasciato che addirittura sanguinasse. Il danno che ne è venuto per il futuro dell’umanità è tuttora incalcolabile.
Il movimento operaio si inscriveva in una forma sociale che non accettava. E tuttavia era un prodotto di quella società. La forza-lavoro era una parte di capitale, la parte variabile. E proprio per questo essere variabile poteva entrare in conflitto con la parte costante. Ne derivava quella che si diceva lotta di classe. Così correttamente si parlava in lingua marxista. Oggi, quando ci ha finalmente raggiunto una indispensabile dimensione antropologica della politica, per via della crisi di civiltà che viviamo e che come sinistra non riconosciamo, oggi la possiamo mettere così, nei termini più chiari possibili: io vivo in questa società capitalistica, ma non sono un borghese. Sto dentro questa forma sociale, perché non posso fare altrimenti. Io capisco come qualche decennio fa, che adesso sembra qualche secolo fa, singole persone, scienziati di chiara fama, sensibili artisti, ma anche uomini semplici, abbandonavano l’Occidente per andare a vivere in quell’altra parte di mondo, dove, sappiamo ben illusoriamente, vedevano che si stava costruendo una nuova società, e un uomo nuovo. Capisco. Attualmente non ci è data certo questa scelta. Devo vivere allora in questo unico mondo possibile, ma, diciamo, come i cristiani nell’esilio di Babilonia. Sto nel capitalismo, ma non sono, non voglio essere, homo oeconomicus. Partecipo alla vita dello Stato costituzionale, ma non semplicemente come homo democraticus. Modi di stare nella società e nella politica con esercizio di vera libertà. Lo so che così detta la cosa non è chiara. In altra sede, questi concetti verranno di molto approfonditi.
Ma allora, qui e ora, libertà vuol dire anche diversità. Nelle recenti celebrazioni, per il trentesimo della morte, su due affermazioni dell’ultimo Berlinguer, non ci si è soffermati abbastanza. E si capisce perché. La prima è quella che dice: noi, rivoluzionari e conservatori. Affermazione profondissima, carica di risvolti, tutti da riprendere e da sviluppare. L’altra è appunto quella categoria, più che rimossa, addirittura esorcizzata e demonizzata, della diversità comunista. Sue parole, nell’intervista a “Critica marxista”, del 1981, ripubblicata con il titolo La nostra diversità: “La verità è che ciò che si rimprovera oggi, come sempre, è che un partito del movimento operaio qual è il Pci non ha rinunciato a perseguire l’obiettivo e a lottare per un mutamento radicale della società. Si vorrebbero partiti di sinistra che di fatto si accontentano di limitare la loro azione a introdurre qualche correzione marginale all’assetto sociale esistente, senza porre mai in discussione e prospettare una sistemazione profondamente diversa dei rapporti che stanno alla base della struttura economica e sociale attuale. La principale diversità del nostro partito….. sta proprio in ciò: che noi comunisti non rinunciamo a lavorare e a combattere per un cambiamento della classe dirigente e per una radicale trasformazione degli attuali rapporti tra le classi e tra gli uomini, nella direzione indicata da due antiche e sempre vere espressioni di Marx: non rinunciamo a costruire una ‘società di liberi e uguali’, non rinunciamo a guidare la lotta degli uomini e delle donne per la ‘produzione delle condizioni della loro vita’ “. Obiettivi, che stanno al di là di questo mondo. Trascendenti rispetto allo stato presente delle cose. Ebbene, c’è stata continuità in questa etica della convinzione, accompagnata da una corrispondente etica della responsabilità: nel dopo Pci, si è a poco a poco consumata, fino a del tutto interrompersi.
Togliatti, 1947, intervento alla Conferenza nazionale giovanile del partito comunista: “Tutti dicono oggi che noi siamo i migliori politici, i politici “puri” e così cercano di spiegare i nostri successi. Orbene, se siamo buoni politici, non lo so; so però che, se lo siamo, è perché abbiamo tenuto e teniamo fede in ogni istante a principii che trascendono la politica, perché siamo in ogni istante fedeli a quella vocazione, che spinse e spinge milioni di uomini a vivere e lottare per trasformare e fondare su basi nuove, di giustizia sociale e di libertà. La nostra società nazionale e tutta la società umana”. Trascendere, fede, vocazione, termini che vengono da altra dimensione: i comunisti rispondevano alle domande della radicalità cristiana. Per stare in questo mondo, senza appartenervi, bisogna credere che c’è un al di là, da preparare e da costruire. Il problema non è genericamente trascendenza e politica, ma trascendenza e qualcosa che va oltre la stessa politica, affinché questa serva a trasformare in grande le cose, non a migliorare l’attuale forma di rapporto sociale, ma a rovesciarla. Il rapporto è allora fra trascendenza e rivoluzione, anche se su quest’ultimo concetto c’è da fare un lavoro di revisione, sì, e di aggiornamento. Ma il lavoro era cominciato, ed è stato improvvidamente interrotto. E’ quella che Bloch chiamava la corrente calda del marxismo che si è perduta. Si era già perduta nella tradizione del socialismo, in versione socialista democratica. E’ rimasta sepolta poi sotto le macerie del crollo che ha subito il tentativo comunista di costruzione del socialismo. Ma oltre queste due esperienze, e come superamento di esse, era emerso un altro comunismo possibile, in Occidente, e più precisamente in Europa, in quello che si dice capitalismo avanzato. La sinistra di oggi, che trova pesante definirsi con questa parola, già di per sé leggera, la sinistra centro-sinistra, la sinistra Charlie, che cosa volete che risponda alla radicalità cristiana che la interroga. E’ ormai così laicamente, secolarmente, immanente a questo mondo che vede ogni idea dell’al di là come un salto nel buio.
Non si trattava di rifondare qualcosa. Anche quella era una via sbagliata. Si tratta piuttosto di tenere il filo della continuità, nel necessario cambiamento. Questo è il vero, realistico, processo rivoluzionario. Difficile da fare. Mutare la forma, mantenendo la sostanza. Ci vuole pensiero per portare in alto la prassi, pur dando rappresentazione di tutto ciò che sta in basso. La radicalità cristiana pone il problema dell’oltre. Spetta alle forze soggettive, nel loro progetto di grande trasformazione, cercare la soluzione politica.
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