Interventi

I risultati delle prime tre elezioni regionali sembrano avere accontentato tutti i partiti. Ognuno rivendica le proprie vittorie e tutti insieme elaborano analisi a partire dalle piccole variazioni percentuali del loro elettorato. Analisi ingannevoli, se nessuno guarda alle quantità assolute dei voti ricevuti, che diminuiscono quasi per tutti considerando la crescita dell’astensionismo che è ormai stabilmente sopra il 50%. Astensionismo che viene deprecato a parole da tutte le forze politiche il giorno dopo le elezioni. Salvo poi dimenticarsene e riprendere a fare politica proprio con quelle modalità che gli studiosi del fenomeno considerano la causa principale della sua crescita.

Solo due partiti non possono proprio cantare vittoria, la Lega e il Movimento Cinque Stelle, al cui interno emergono significative contestazioni delle scelte fatte dai due leader attuali, Salvini e Conte.

È la discussione intorno al Movimento Cinque Stelle che ci sembra importante analizzare, non tanto per quello che viene detto sulle dinamiche interne e le alleanze con le forze esterne, ma per quello che non viene detto, per come cioè viene rimossa l’intera parabola del Movimento Cinque Stelle, in particolare le motivazioni che portarono alla sua nascita e alla sua storia peculiare.

Il modo in cui oggi i commentatori politici, ma anche gli alleati e gli avversari, ragionano del Movimento Cinque Stelle è del tutto analogo a quello che viene utilizzato per parlare di un partito tradizionale. Tale è infatti oggi il M5S, con i suoi leader, i suoi parlamentari, i suoi militanti. Un corpo politico che ha una competenza e una esperienza ormai paragonabile, e talvolta anche di maggiore qualità, di quella di partiti di più antica tradizione. Un corpo politico che alla militanza politica accompagna quasi sempre anche una esperienza di lavoro, una competenza professionale o di impegno sociale, una preziosa internità al tessuto sociale di provenienza. Un partito che oggi ha il problema di differenziare la sua offerta politica da quella dei suoi alleati più prossimi (PD e AVS) per riuscire a mantenere il suo elettorato attuale e magari estenderlo recuperando consensi dai delusi degli altri partiti e – ma con poche speranze fondate – dal bacino dell’astensione.

La definizione di “progressisti”, scelta da Conte, è la più generica possibile (ulteriore esempio della ambiguità congenita di questo aggettivo così vuoto di significato) e serve ad avere le mani libere nel provare a rispondere alle più diverse domande politiche, dal rifiuto della guerra e del riarmo al controllo dei flussi migratori, dal contrasto della emergenza climatica all’adesione acritica al “progresso” digitale. Nel quadro della ricerca di una differenziazione che ha portato, ad esempio, a intersecare il percorso del partito BSW di Sara Wagenknecht, unica leader politica invitata a parlare alla ultima assemblea nazionale del M5S, ma anche ad avere un ruolo molto attivo nel gruppo della sinistra al Parlamento europeo.

E come un partito tradizionale il M5S viene trattato da analisti e opinionisti, attenti a cogliere le differenze emergenti tra i suoi leader attuali, a raccogliere e a interpretare le parole usate del suo presidente, a dare conto delle scaramucce parlamentari con il Governo, a enfatizzare la più piccola dinamica del rapporto con il PD, o, meglio, con le attuali correnti del PD.

Ma se questo è il “detto” intorno al M5S, qual è il non detto? E perché ci interessa?

Il non detto è il frutto di una grande rimozione che accumuna tutte le forze politiche. A essere rimosse sono le ragioni del sommovimento politico più significativo nella storia della Repubblica italiana, e anche nella storia politica più recente dei principali paesi europei. Quelle ragioni che hanno portato un movimento politico costituito formalmente nel 2009 a diventare 4 anni dopo, nel 2013, il secondo partito del Parlamento italiano, con 163 parlamentari, e, nelle successive elezioni del 2018, il primo partito con più del 32% dei voti e 333 parlamentari.

A una analisi approfondita di questo fenomeno così straordinario si è quasi subito sostituito il tentativo, da parte di tutte le forze tradizionali, di circoscrivere e isolare il nuovo arrivato. Ed ecco l’anatema di “populismo”, usato incautamente in senso dispregiativo, ecco le facili ironie sugli “scappati di casa”, volte a svalorizzare l’ingenua generosità di chi per la prima volta si confrontava con le complesse procedure dell’attività parlamentare, ecco ancora le lezioni sulle qualità della democrazia rappresentativa, impartite da chi peraltro non ne aveva alcun titolo, a chi provava a esercitare democrazia diretta con i dispositivi digitali. Una cintura di sicurezza travolta dall’impetuoso successo del movimento alle elezioni del 2018.

Che l’esperimento sia poi fallito, che il movimento alla prova precoce del governo abbia perso gran parte delle ragioni della sua spinta iniziale, che con rapidità inaspettata e tormentose evoluzioni interne si sia trasformato in un partito con le stesse caratteristiche e fragilità degli altri partiti, tutto questo non diminuisce l’importanza dell’esperimento tentato, e del sapere che dalla conoscenza e dall’esperienza del suo concepimento, sviluppo, trionfo e sconfitta può derivare.

La novità e la qualità di questo esperimento non stavano tanto negli obiettivi politici, le cinque stelle (acqua pubblica, ambiente, mobilità sostenibile, connettività. sviluppo sostenibile) che riprendevano temi tradizionalmente condivisi con la sinistra. Stavano piuttosto nel metodo, o, con più concretezza, nei processi organizzativi con cui il Movimento provava a rispondere alla domanda politica che aveva portato alla sua nascita. Una domanda che emergeva in larghissimi strati della società italiana dall’abbandono del e dalla ostilità per la politica tradizionale, ma nello stesso tempo chiedeva nuove forme della politica capaci di garantire non solo partecipazione, ma effettiva possibilità per ognuno/a di decidere e incidere sulle istituzioni. Una domanda che portò molte e molti ad avvicinarsi all’impegno politico attivo per la prima volta nella loro vita.

L’intuizione dei fondatori, e in particolare di Casaleggio, fu quella di innervare quella domanda di nuova politica con la potenza della comunicazione in rete, e di gettare la forza così accumulata dentro i meccanismi della democrazia rappresentativa. Di fatto il tentativo di rilegittimarla attraverso un corpo a corpo con esperimenti di democrazia diretta. Entrare in Parlamento e provare ad aprirlo “come una scatoletta di tonno” è stato in realtà un atto di rispetto per quella istituzione riconosciuta come luogo di formazione della decisione politica.

Ma parte significativa di quell’esperimento fu anche il tentativo di dare al movimento una forma organizzativa adeguata alle sue caratteristiche. Il “non statuto”, per il “non partito” non fu solo espediente linguistico, ma il tentativo di connettere livelli organizzativi diversi, sia territoriali che tematici, e ruoli diversi, i militanti e gli eletti, mediante le nuove opportunità offerte dalle tecnologie digitali.

Fu così che si passò dalla semplice tecnologia della piattaforma “meet up”, funzionale alla iniziale esplosione orizzontale del movimento nei territori, al “sistema operativo del movimento” e poi alla più sofisticata piattaforma Rousseau, la cui inaugurazione coincise con la morte improvvisa di Casaleggio.

Facile, col senno di poi, denunciare l’irrealismo del tentativo di sostituire le funzioni di una piattaforma digitale ai complessi processi di intermediazione che caratterizzano ogni organizzazione politica, ma resta tutto il sapere che deriva dal fallimento di quell’esperimento, molto superiore per numero di soggetti coinvolti ai precedenti esperimenti dei “Partiti pirata” in alcuni paesi europei.

Questa storia, se non fosse rimossa, avrebbe molto da dirci rispetto all’oggi.

La domanda di nuove forme della politica non solo è rimasta senza risposta, ma riemerge come questione politica anche nelle piazze piene dell’ottobre italiano. L’astensionismo crescente ne è l’indizio più evidente e la crisi della democrazia rappresentativa il tema su cui continuano a interrogarsi i politologi. L’esperimento del M5S ha dimostrato che le tecnologie digitali da sole non bastano a costruire nuove forme dell’organizzazione politica. Ma recuperare il sapere accumulato dal fallimento di quell’esperienza e indagare le caratteristiche della domanda di politica che portò alla nascita del Movimento, potrebbe offrire materiali e strumenti utili per riaprire un cantiere sulle forme possibili dell’azione politica nel tempo presente.

Sulle storia organizzativa del M5S, in particolare rispetto all’utilizzo delle tecnologie digitali, segnaliamo:

  1. Sæbø, Ø., Federici, T., Braccini, A.M. (2020) Combining social media affordances for organising collective action. Information Systems Journal (ISJ), Vol. 30(4), Wiley & Sons Ltd., ISSN 1365-2575, p. 699-732, doi: 10.1111/isj.12280.
  2. Braccini, A.M., Sæbø, Ø. & Federici, T. (2019) From the blogosphere into the parliament: The role of digital technologies in organizing social movements. Information and Organization (I&O), Vol. 29(3), Elsevier Ltd., ISSN 1471-7727, doi: 10.1016/j.infoandorg.2019.04.002.
  3. Federici, T., Sæbø, Ø. & Braccini, A.M. (2015) ‘Gentlemen, all aboard!ICT and Party Politics: Reflections from a Mass-eParticipation Experience. Government Information Quarterly (GIQ), Vol. 32(3), Elsevier Ltd., ISSN 0740-624X, p. 287-298, doi: 10.1016/j.giq.2015.04.009.

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