Interventi

Foto di Wolfgang Moroder da Wikimedia Commons

Un’analogia

Rino Formica, con la lucidità e la punta di malizia che hanno caratterizzato la sua lunga carriera di dirigente politico e uomo di governo, è intervenuto il 30 settembre su “Domani” per sottolineare che un recente discorso di Mattarella ha alcuni significati impliciti rispetto alla situazione attuale, segnata dal referendum per il taglio del numero dei parlamentari.

In occasione della commemorazione di Cossiga in una università della Sardegna, a dieci anni dalla morte, Mattarella infatti ha fatto un importante riferimento al messaggio inviato da Cossiga alle Camere nel ’91 per stimolare e orientare le forze politiche, poste allora come ora di fronte alla necessità di intervenire con modifiche della Costituzione a seguito di un referendum. Allora una modifica del sistema elettorale era stata decisa “a furor di popolo” attraverso un referendum abrogativo cui aveva partecipato il 62,5% degli italiani e vinto da uno strabiliante 95% di SÌ. La sovranità popolare per la prima volta era stata portata a decidere sul sistema elettorale, e precisamente per la riduzione delle preferenze a una sola. In ipotesi, la preferenza unica per la scelta delle persone da eleggere avrebbe dovuto consentire agli elettori di rompere il gioco di “nomine” da parte dei capi-partito e, soprattutto, impedire la vittoria di “cordate” di eletti nelle varie assemblee rappresentative: le cordate infatti mettevano decisioni di governo saldamente nelle mani di gruppi capaci di controllare pacchetti di voti col sistema delle preferenze multiple (lobbies, potentati economici, e anche mafia). Lo schiacciante pronunciamento per il SÌ andava inteso come forte volontà dei cittadini di liberarsi da tutto questo.

Formica, più che su questi aspetti, appare interessato al ruolo che in quella occasione rivendicò il Presidente – “né notaio né imperatore” – e ne trae la convinzione che questo accenno dell’attuale Presidente della Repubblica vada inteso come avvertimento alle forze politiche, in vista dei prossimi “travagli” parlamentari, cui l’ultimo referendum costringe.

Come è evidente c’è qui una questione immediatamente politica: staremo a vedere come potere presidenziale e poteri parlamentari si confronteranno. Ma è implicato anche l’aspetto specificamente istituzionale, sulla problematicità di assicurare comunque rispetto della Costituzione in un percorso che non è di mera limitata revisione, ma implica una più complessa e meditata riforma. Il messaggio presidenziale del ’91 era tutto centrato su questo problema. E ha ancora qualcosa da dirci.

In quella occasione Cossiga aveva dismesso l’atteggiamento, per cui sui media – tra entusiasmi o crescenti allarmi – era detto “picconatore della Prima Repubblica”, e s’era concentrato sulla difficoltà di trovare un percorso a seguito di un referendum vincolante, nella strettoia tra limitata revisione (prevista all’art.138) e più complessa riforma che sembrava implicata dal voto. Come vedremo, la preoccupazione che manifestava riguardava il come rimanere all’interno del quadro di garanzie che la Costituzione ha predisposto.

Sovranità popolare e suoi nemici

L’analogia con quel passaggio sta nel ripetersi oggi di un referendum popolare, questa volta espressamente confermativo di una riforma decisa in Parlamento, che col 70% di SÌ obbliga a modificare punti sostanziali nella struttura delle forme rappresentative, mentre ambiguità e resistenze latenti persistono tra le forze politiche sul da fare. Oggi come allora la questione sta nel trovare il modo di procedere al cambiamento senza violentare e stravolgere l’impianto di garanzie costituzionali. Cossiga provò a sviscerare la questione. Ma in Parlamento non trovò alcuna sostanziale accoglienza. Anzi da allora le forze politiche hanno consumato una sorta di vendetta contro il pronunciamento popolare. A seguito dell’affermazione di una vocazione maggioritaria tra i partiti, sull’onda di altro referendum nel ’93 sulle leggi elettorali, la questione della preferenza è stata dapprima limitata alla residua “quota proporzionale” (legge cui proprio Mattarella lavorò, traducendo come possibile il mandato referendario), ma poi è stata lasciata cadere del tutto: in particolare il sistema cosiddetto “porcellum”, voluto dalla Lega di Bossi, e poi il “rosatellum” che ha presieduto alle più recenti elezioni hanno riportato saldamente nelle mani dei capi-partito la scelta (o piuttosto la nomina) degli eletti.

La discussione parlamentare nel ’91 mise in scena uno svogliato dibattito di tipo accademico, senza alcuna conclusione politicamente impegnativa. Il fatto era che in quegli anni, in quei mesi, andavano a stringersi enormi conflitti nazionali e internazionali. Il clima politico era arroventato, e direi avvelenato.

Dal ’79, dopo l’uccisione di Aldo Moro e la ripresa della conventio ad excludendum dei comunisti dal governo, Craxi aveva lanciato la sfida per una “Grande Riforma” della Costituzione. La fermissima opposizione del Pci e della Sinistra Indipendente, per 10 anni, mirò soprattutto a bloccare ogni tentativo diretto a ridurre la forma di governo parlamentare e introdurre un sistema presidenziale o semi-presidenziale (nessuno spazio politico ebbe la diversa strada indicata con ricerche e confronti dal CRS sotto la presidenza di Ingrao, per uno sviluppo dei poteri popolari e una riforma monocamerale del Parlamento). Ma intanto di fatto da allora la forma parlamentare è stata svuotata, a colpi di decreti governativi (spesso reiterati più volte dopo la bocciatura in Parlamento) e ricorso continuo alla richiesta di fiducia per imporre provvedimenti che deputati di maggioranza o di opposizione chiedevano di modificare. Questa duplice prassi da allora è ripetuta come “normale” da tutti i successivi governi.

Ma era il quadro internazionale che soprattutto premeva per cambiamenti. Nell’89 la caduta del Muro di Berlino, la successiva “implosione” dell’Unione Sovietica, la fine della Guerra Fredda con la vittoria americana avevano aperto una diversa fase storica: tutte le forze erano in fibrillazione per adeguarsi ai nuovi scenari e alle nuove, impensate, possibilità di espansione sui mercati. Tra l’89 e il ’91 sei movimenti autonomisti, operanti nell’Italia settentrionale, si federarono col nome di Lega Nord e, agitando il tema della secessione delle regioni più ricche, introdussero nella politica italiana due linee di frattura che ancora ipotecano pesantemente la vita del Paese: quella Nord/Sud e quella tra elementi popolari e élite politica (“Roma ladrona”).

La politica del resto era tornata a durezze che si pensava non dovessero più ripetersi. Dall’agosto del ’90 al febbraio del ’91 la prima Guerra del Golfo aveva riportato tutti i paesi a scelte di ricorso alla forza armata e alla guerra: la globalizzazione si presentava con questo terribile volto, insieme con le opportunità che gli “spiriti animali” del capitalismo speravano di cogliere.

In Italia rilevanti forze economiche volevano liberarsi dal pesante pedaggio al sistema di partiti, che esigevano una tassa “occulta” nella forma di tangenti su ogni attività economica (complici tutte le forze governative, anche qualche esponente locale del Pci risultò alla fine implicato…), e al contempo grandi e piccole imprese rivendicavano immediata mano libera per la delocalizzazione della produzione in paesi ex socialisti e per affari con Russia e Cina, da sottrarre al controllo dei consueti gestori statal-nazionali (si vedrà negli anni successivi quanto la nebbia in cui si è voluto mantenere questi problemi abbia consentito anche a maneggi illeciti, guadagni privati di uomini delle istituzioni, e da ultimo trame politiche oscure con finanziamenti nascosti a nostri partiti…).

La magistratura e i grandi media intanto in quella crisi generale avevano scatenato una straordinaria campagna di moralizzazione della politica in Italia (“Mani pulite”): esplosa nel ’92, culminò nel ’95 (episodio delle monetine gettate contro Craxi dinanzi all’Hotel Raphael di Roma. Il leader socialista scelse quell’anno “l’esilio”…).

Insomma un più che decennale susseguirsi di “terremoti”, dal terrorismo delle Brigate Rosse ai conflitti di globalizzazione, alle corruzioni e agli scandali, non cessava di tenere in una morsa il Paese. Lo scarto tra diffusi e contrastanti sentimenti popolari rispetto alle capacità e agli intenti dei partiti in Italia, per molte ragioni, in quei primi anni Novanta era prossimo alla lacerazione, sarebbe culminato negli anni ’92-93. Con una rottura. Nel messaggio alle Camere, appena un anno prima, le parole di Cossiga su questa imminente lacerazione non erano affatto fuori luogo, oggi appaiono profetiche: avevano giusta percezione delle possibili implicazioni devastanti della situazione, indicava con durezza un obbligo politico a intervenire, cui a nessuno più fosse dato di sottrarsi. E invece.

Il fatto è che la contrapposizione cittadini/istituzioni in quegli anni si presentava come il nuovo più difficile cleavage della politica, mentre il confronto tra i partiti italiani procedeva in termini soltanto autoreferenziali.

I tre punti cruciali per un percorso di riforma costituzionale

Credo che la discussione su quel messaggio si sia risolta in una occasione mancata. Il filo del ragionamento di Cossiga in quella occasione e in quelle pagine (un vero e proprio saggio costituzionale, di oltre 50 fogli di atti parlamentari!) implicava uno sviluppo della sovranità popolare.

Tre furono i passaggi fondamentali. Per le riforme costituzionali, cui si riteneva di dover procedere dopo il referendum, fermo e ripetuto fu il suo avvertimento: riforme di questo tipo non possono essere fatte senza trovare il modo di fare intervenire sempre – e non solo in mancanza di un accordo dei due/terzi del Parlamento (come previsto dall’art. 138) – un referendum confermativo. Era la prima revisione che si sarebbe dovuta fare: e invece la questione è stata sempre elusa in ciascuno dei successivi tentativi di riforma costituzionale, che non hanno mai messo “a sistema” il referendum confermativo ma ne hanno fatto ogni volta abuso a fini plebiscitari.

Notevoli e stringenti le altre due indicazioni: a) la vera riforma doveva riguardare il bicameralismo, almeno giungere a una differenziazione tra le camere; e b) in ogni caso per un cambiamento di questa natura (sostanzialmente una nuova “fase costituente”) non si poteva abbandonare il fondamento proporzionale della rappresentanza, che appunto costituisce la base di legittimazione di cambiamenti di questa natura. Per questo appunto la necessità di una pronuncia diretta del popolo tutto.

La strada fu un’altra. Presto dimenticati messaggio e dibattito parlamentare, le spinte di rottura prevalsero. L’iniziativa referendaria riprese e fece ricorso a un espediente, nocivo ma efficace. Un referendum “manipolativo” del sistema proporzionale nel ’93 (ammesso solo dopo ben due sofferte pronunce della Corte costituzionale, spaccata esattamente a metà), capeggiato da Segni e Occhetto e sostenuto da tutti i grandi quotidiani italiani riuscì a travolgere tutto il sistema dei partiti. Ma fu pagato un prezzo troppo grande: si diffuse infatti un senso comune che oscurava le ragioni per cui andava salvaguardata la manifestazione più larga e piena delle opinioni popolari. Inutili furono i tanti richiami alla necessità di sottrarre al nuovo potere maggioritario almeno le garanzie costituzionali delle minoranze (quorum per l’elezione del Presidente, della Corte costituzionale, del Consiglio superiore della magistratura, della maggioranza necessaria per la stessa revisione costituzionale).

La “vocazione maggioritaria”, cui da allora si sono convertiti tutti i partiti, ha proiettato negli anni successivi l’incubo che “colpi di mano” di maggioranze occasionali potessero fare strame della Repubblica. Ed è appena il caso di ricordare che un tentativo in tal senso è stato consumato nel 2006 dal centro-destra, da cui ci ha salvato solo un forte referendum oppositivo.

Quanto al centro-sinistra suo era stato, a maggioranza relativa, il pasticcio della riforma del Titolo V del 2001, che ha aperto la strada alla distorcente idea di autonomie regionali “differenziate” che ora sta lacerando il paese. E con Renzi nel 2016 del centro-sinistra è stata una decisione di riduzione del bicameralismo (pasticciata anche questa) essa pure decisamente osteggiata dal voto, perché risolutivo per una opposizione larghissima è stato l’accoppiamento con una riforma elettorale che avrebbe dato, in ipotesi, tutto il potere di governo a una forza di maggioranza anche molto risicata.

I due nodi insomma, riforma monocamerale del Parlamento (o almeno eliminazione del bicameralismo paritario) e liquidazione delle distorsioni in senso maggioritario del sistema di rappresentanza, hanno attraversato per decenni tutte le traversie che ho provato a riassumere, e ora ritornano con una forza e urgenza che non possono più essere nascoste: sono intrecciati e non possono non trovare una coerenza. Non è il taglio dei parlamentari la questione, la vera riforma riguarda proprio la riduzione del parlamento a procedure trasparenti e controllabili, sottratte al gioco di un bicameralismo paritario che offre enormi spazi a oscure trattative e maneggi fuori da sedi istituzionali. E questo, tanto più se si riduce il numero degli eletti, impone un ritorno a un impianto territoriale equo, sostanzialmente proporzionale (o almeno basato su un attento disegno di piccoli collegi uninominali, tale da non stravolgere troppo i rapporti sostanziali di forze).

Rispetto a questi nodi, il referendum fortemente voluto dal Movimento 5stelle nulla dice e nulla di buono lascia intravvedere: dilaga invece uno sprovveduto e ideologico antiparlamentarismo, che Grillo non esita ora a rilanciare. Ma per chi ha a cuore lo sviluppo di qualità dei sistemi politici democratici, la questione di innestare forme partecipative e di democrazia diretta su sistemi di rappresentanza riformati è la grande sfida.

Non è solo un problema italiano. La pandemia in tutto il mondo ha mostrato che senza uno sviluppo delle democrazie non è possibile un governo della umanità.

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