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Se per qualche miracolo le elezioni presidenziali iraniane e quelle statunitensi potessero scambiare i rispettivi elettorati, saremmo certi che il 5 novembre Trump ne uscirebbe sonoramente sconfitto. Nessun iraniano, infatti, dimentica quel giorno nefasto del 2018 in cui il presidente Trump si arrogò la facoltà di ritirare gli Stati Uniti dall’Accordo multilaterale sul nucleare iraniano, stipulato nel 2015 dopo anni di defatiganti trattative. L’accordo non era un chiffon de papier: era stato negoziato assieme all’AIEA (l’Agenzia dell’ONU per l’Energia Atomica) e offriva alla comunità internazionale garanzie affidabili, tanto è vero che già nel 2016 Teheran era presa d’assalto da imprenditori e investitori di mezzo mondo. Non c’era una stanza d’albergo libera in tutta la capitale e io stesso dovetti accettare l’ospitalità di parenti acquisiti. In quell’anno l’economia iraniana crebbe del 13%.

Dopo l’insensata decisione di Trump (con lo zampino di Netanyahu) e l’inevitabile ripresa dell’arricchimento di uranio nelle centrali iraniane, l’Occidente ha riesumato le già durissime sanzioni economiche contro l’Iran. Con un duplice effetto: spingere Teheran a formare un “Asse della Resistenza” (con Russia, Siria, Yemen e movimenti quali Hezbollah) e portarlo a un passo dalla realizzazione di un ordigno nucleare. Tagliata fuori dal libero commercio, l’economia iraniana è diventata un’economia di guerra: nel 2000 occorrevano 8.000 rial per un dollaro, oggi ne occorrono 40.000 al cambio ufficiale e 60.000 per la strada. L’inflazione ha colpito una popolazione di 90 milioni di abitanti, di cui quasi due terzi sotto i 30 anni e un terzo sceso nel frattempo sotto la soglia di povertà.

Chi torna da Teheran si fa portatore di una domanda che è sulla bocca di tutti gli iraniani: “Come mai il nostro Paese è soggetto a pesanti sanzioni, pur avendo rispettato i termini dell’accordo finché non è stato rescisso dagli Stati Uniti tra l’indignazione generale? Perché siamo stati puniti noi invece degli statunitensi?”. A questa domanda Biden ha lasciato che rispondesse Bibi Netanyahu, invitato il 24 luglio a Washington a parlare a Camere riunite: onore non da poco per chi è stato accusato da una Corte dell’ONU di crimini contro l’umanità, ma dalla sua ha la protezione USA e un centinaio di atomiche. Ovviamente, a Netanyahu (che fa il tifo per Trump) non è sfuggita l’occasione di descrivere l’efferatezza dell’attacco di Hamas, dimenticando le 40.000 vittime palestinesi che ne sono seguite. Poi ha usato quei toni biblici così graditi a molti americani per attaccare l’Iran: “Questo è un scontro tra la civiltà e la barbarie… L’Iran finanzia le proteste di piazza (sic) perché vuole provocare il caos negli USA… I manifestanti si sono schierati con il male”.

Chi ha lo sguardo lungo si chiede quanto potrà durare un Paese, Israele, sempre più nelle mani di brigate armate ultraortodosse che stanno minando le basi stesse della società israeliana. Chi ha lo sguardo lungo si chiede anche quanto potrà sopravvivere un regime, quello iraniano, contestato sempre più apertamente dal suo popolo. Alle recenti elezioni presidenziali, dopo la morte di Raisi, l’astensione ha superato il 50% degli aventi diritto, nonostante le pressioni per invitare la gente a votare. A ogni modo, la teocrazia non ha impedito a un moderato come Masud Pezeshkian di vincere, portando con sé al governo un diplomatico di alto profilo come Mohammed Zarif. Zarif ha studiato negli Stati Uniti, è fluente in inglese come in farsi, e anche disposto nel 2015 a farsi fotografare in passeggiata a Ginevra con John Kerry, l’altro pilastro diplomatico dell’accordo sul nucleare iraniano. Se Biden volesse passare alla storia, e non solo per il suo rilancio dell’economia, dovrebbe in questo scorcio di legislatura aprire un canale – al momento riservato – con l’Iran attraverso Zarif.

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