Articolo pubblicato sul blog di Ida Dominijanni.
Dev’essere un segno dei tempi se uno slogan pubblicitario riesce più di molti editoriali politici a evocare il gusto di qualche domanda di fondo sul presente, le sue evidenti nefandezze e le sue eventuali possibilità. Prendiamolo così, come un segno dei nostri tempi in cui sono i segni a dominare: come una possibilità di comunicazione. Così dev’essere suonato a Gianni Vattimo quel «Vent’anni dalla parte del torto» con cui il manifesto si riprende, festeggiando il ventesimo compleanno, la sua parte di ragione. Sì che ne ha scritto su Tuttolibri della Stampa due settimane fa, concedendosi «un impudico esame di coscienza» su come mai questo slogan, così sfacciatamente rivendicativo di una posizione da «critici radicali, profetici, apocalittici», eserciti su di lui un fascino profondo «in un momento in cui le ideologie globali sono morte e sepolte». Tentazione sentimentale per una posizione di radicale opposizione, pure razionalmente giudicata sterile e abbandonata in favore di una partecipazione meno roboante e più amichevole dell’intellettuale critico al destino comune? Rivincita dell’estremismo apocalittico sul senso delle sfumature? Oppure: segno che sta cambiando il vento, e la barbarie che avanza chiama «la malattia correlativa e simmetrica della pura e semplice cultura del rifiuto»?
Più un elenco di domande che un impietoso esame di coscienza, come si vede. Ma tali da lasciare intravedere un’inquietudine, garbatamente posta «a partire da sé» ma indicata come sintomatica di uno stato d’animo non isolato fra gli intellettuali. E siccome di questi tempi l’inquietudine fa comunicare più delle certezze, e nel manifesto non ne siamo davvero esenti, abbiamo chiesto a Vattimo di continuare in un dialogo l’esame di coscienza: forse l’attrazione per lo slogan tradisce qualche crepa nel suo paradigma, noto come «pensiero debole». Quanto a noi de il manifesto, non è che ci piaccia essere tanto poco «amichevoli», ma come si fa a esserlo se c’è da dire di no alle nuove condizioni della barbarie? Nemmeno però ci piace essere visti solo come l’altra faccia – tollerata – della barbarie stessa, e tantomeno pagare il gusto e il lusso di «essere contro» con la rinuncia alle sfumature: sono domande che circolano anche fra di noi.
Nel suo studio all’università di Torino, Vattimo accetta il dialogo con una amichevole battuta: «Sarà una specie di psicodramma, nei vostri confronti mi sono sempre sentito un amico rifiutato». Esame di coscienza per esame di coscienza, diciamoci la verità: il pensiero debole a il manifesto non gode di troppa simpatia, ma siccome le sfumature, appunto, non ci mancano, cerchiamo di essere più precisi. I marxisti più convinti fra noi l’hanno sempre visto come una destituzione di fondamento delle ragioni dell’emancipazione sociale. I più sessantottini, come una critica in senso radicale del marxismo nelle intenzioni, ma come un pensiero moderato negli esiti: una analisi convincente dei fenomeni della tarda modernità, di cui è finita però col prevalere una versione apologetica in mancanza di una versione antagonista. Quando nell’83 Feltrinelli pubblicò la famosa antologia intitolata, appunto, II pensiero debole curata da Vattimo e Pier Aldo Rovatti, titolammo «Debole, anzi fortissimo», a sottolineare le trappole contenute in quella proposta culturale; ma ancora pochi mesi fa una nostra pagina si interrogava sulla possibilità di un «buon uso» – un uso antagonista – del postmoderno, che del pensiero debole è parente stretto. Il tutto mentre il nascente Pds ne faceva invece un uso non dichiarato e tutt’altro che radicale, riducendolo a sociologia di nuovi ed equivalenti soggetti privi di qualunque punto di vista di parte. Siccome comunque il pensiero debole è un pezzo della storia culturale dell’ultimo decennio, e siccome le inquietudini di Vattimo parlano con le nostre all’inizio del decennio che si apre, tentarne un bilancio ci riguarda.
Cominciamo pure da questo giornale dalla parte del torto, professor Vattimo, ma vediamo di arrivare anche ai torti e alle ragioni del suo fortunato paradigma teorico. E cominciamo dal suo articolo su Tuttolibri: perché proprio adesso?
Perché effettivamente mi aveva colpito quello slogan, quasi mi dispiaceva non far parte del gruppo che lo rivendica, e ha ritirato fuori tutte le mie antiche ragioni di vicinanza e lontananza dal vostro giornale. Stare dalla parte del torto è una posizione affascinante e che mi è appartenuta, finché mi sono chiesto quanto questo atteggiamento utopistico corrisponda a un ruolo previsto, tollerato ma ininfluente, nel gioco del potere. In fondo, è stato così almeno per i tre quarti del quarantennio democristiano, con le case editrici come Einaudi e Feltrinelli in mano agli intellettuali marxisti e il potere in mano alla Dc.
Tutta qui l’ambivalenza? Non ci sono anche ragioni e tappe più personali?
Certo, una in particolare. Ricordo perfettamente che quando, nel ’74, pubblicai Il soggetto e la maschera, pensavo che quella sarebbe ovviamente diventata la vostra filosofia. Invece no. E subito dopo, quando morì Lukacs, lessi con stupore una sua celebrazione da parte di Rossana Rossanda che mi parve troppo ortodossa rispetto alle novità teoriche che il ’68 aveva indicato secondo me – che nel ’68 ero ancora maoista – mettendo assieme Marx e Nietsche. Dicendo che nella critica marxiana della società e dell’individuo capitalistici c’erano potenzialità che andavano oltre Marx. Che bisognava portare la critica all’interno dell’individuo e delle sue gerarchie; sintetizzare la critica marxiana e quella delle avanguardie borghesi.
Marxismo più avanguardia: è una vecchia storia, e forse i tempi sono giusti per chiedersi se non si sia ripetuto, negli ultimi decenni, uno scacco di questo tentativo di sintesi. Com’è andata secondo lei?
Quel tentativo fu sconfitto negli anni Settanta. La cultura delle avanguardie conteneva elementi esplosivi difficili da tradurre in “attività politica”. E la soggettività rivoluzionaria si è spaccata in due. Il terrorismo ha riproposto la vecchia figura del rivoluzionario di professione, Autonomia restava in un ghetto o ritrovava anch’essa una vocazione leninista. Non per questo ho rinunciato a cercare quella sintesi: l’ultima formulazione è stata un certo approccio al postmoderno, il tentativo di sgretolare la cultura del potere a partire dalla sua stessa configurazione multipla che Foucault ci ha mostrato. Continuo a essere di quest’idea, ma di recente – da qui l’articolo sul vostro slogan – ho cominciato a pensare che in altri tempi funzionasse meglio. Oggi una certa ricomposizione nevrotica del sistema – il suo riassestarsi attorno a certe parentele, confermando le solite esclusioni – ci rimette di fronte agli aspetti più tradizionali del potere.
Prendiamo il Pds, sul quale io ho scommesso con convinzione: per quanto si sforzi di addomesticarsi, al potere non ce lo vogliono, chiamano solo i parenti stretti e ritirano fuori il fattore K. E il Pds rischia di non produrre una cultura di opposizione, nel vano tentativo di farsene una di governo. Mentre bisognerebbe costruire una forza di opposizione, che sia tale malgrado la fine delle ideologie e dopo la cadutadel Muro. E bisognerebbe reinventare forme di contestazione sociale, anche se nessuno sa da dove cominciare. Non ho le idee chiarissime, ma come in tutti i momenti di crisi sento che qualcosa si muove, che è importante non isolarsi, che forse riusciremo a inventare qualcosa di nuovo.
Però Gianni Vattimo non è solo un ex sessantottino, né solo un lettore di Nietzsche approdato al postmoderno. È l’autore di un paradigma di interpretazione della tarda modernità̀ e della funzione intellettuale che ha influenzato molto il clima culturale dell’ultimo decennio. È stato un protagonista del nichilismo italiano, e poi un intellettuale non marginale sulla scena degli anni ’80, uno dei primi a praticare la grande svolta della società̀ dei media. Questi cenni di crisi di oggi interrogano o no questo percorso, e in quali punti? Proviamo a metterla così. L’intenzione originaria del pensiero debole era chiara: spingere in avanti la critica al sistema, attaccando i residui metafisici del marxismo. Quell’ipotesi ha ispirato e raccolto molti umori dei movimenti della seconda metà degli anni 70. Negli ’80, si può dire che sia diventata egemone o almeno non secondaria nel panorama intellettuale a noi prossimo: gli esiti si ritrovano anche nella svolta del Pci. Ma non le viene il dubbio che sia andata oltre e contro le intenzioni originarie? Che sia diventata senso comune nella versione di una serena e opportunistica accettazione delle chances dell’esistente; e che abbia paradossalmente agevolato, o almeno accompagnato, quella ricomposizione nevrotica del potere che diceva lei stesso? Che cosa salva di quell’ipotesi, e c’è qualcosa da ripensare?
Beh, il mio problema di oggi sta precisamente qui. Ma, ecco il punto: quell’ipotesi culturale non può, per sua natura costitutiva, darsi una fisionomia politica netta, una strategia d’efficacia. Corrisponde piuttosto a una situazione sociale: ci sono, nel panorama della tarda modernità, una quantità di motivi di liberazione che non trovano e forse non hanno bisogno di trovare un’espressione politico-istituzionale. Posso chiedere anche a lei un esame di coscienza? Prendiamo il manifesto. La sua parte migliore, a mio avviso, è quella che punta molto sull’immaginario radical americano. È «al potere» quella parte lì, nel suo giornale»?
Non proprio, professore: touchée.
Bene. Ma l’immagine de il manifesto sta più negli editoriali politici o in quelle pagine? Molti studenti delle università di New York lo leggono per quelle pagine. Vale come esempio: in generale, in Italia, c’è una zona vastissima di vita culturale critica tuttora nelle mani degli ex sessantottini, che sono stati cooptati all’unico livello possibile dall’establishment… Questa zona vive e veicola stili di vita antagonisti, anche se il potere istituzionale resta nelle mani di sempre.
Nel mio ottimismo, io arrivo a pensare che perfino la tanto deprecata separatezza e tecnicizzazione della politica abbia un aspetto positivo di autolimitazione. Come se aprisse spazi alla riscoperta dell’anima, a una vita sociale meno politocentrica, a pratiche di libertà: per libertà intendendo soprattutto la consapevolezza di non essere più̀ riassumibili in una società integrata, anche se «buona» e anche se postrivoluzionaria… è il vecchio monito di Adorno: l’idea della rivoluzione come reintegrazione non ha senso, e del resto l’abbiamo imparato dalle sue caricature, che però non si possono attribuire solo al destino cinico e baro. Come non ha senso, nella società dei massmedia che configura la possibilità di un totalitarismo del consenso, l’idea di un consenso totale.
Ma rivoluzione e reintegrazione sono proprio inscindibili? È proprio l’unica idea possibile di rivoluzione questa? E comunque, giacché in Italia di rivoluzioni non ce n’è: qual è allora il senso di questa apertura di spazi di libertà, al di là dell’ottimismo?
È l’indebolimento. La filosofia dell’indebolimento che c’era e c’è dietro il pensiero debole, il suo nucleo più duro da far digerire e da accettare ciascuno per sé. L’idea che il cristianesimo si realizzi attraverso una continua crocifissione, non attraverso una resurrezione sempre più trionfale. L’idea che l’emancipazione sia una sorta di spoliazione ascetica. Che magari si realizza attraverso l’inflazione: ci si libera del potere della tv avendo cinque televisori in casa e vedendo cinque programmi contemporaneamente… una sorta dì riscoperta del nocciolo dell’anima attraverso la sdrammatizzazione dell’esteriore. E questo, ha ragione lei, effettivamente diventa sempre più senso comune.
Per esempio?
Per esempio: io vedo attorno a me sempre meno grandi ambizioni economiche. È vero, c’è il mito yuppie dell’intraprendenza e del merito, ma di contro e forse più diffuso – eterogenesi dell’econonomia assistita democristiana? – c’è il dipendente statale che è tutto il contrario dell’homo oeconomicus, è slegato dalla sequenza produttivistica guadagno-investimento profitto, e forse non è una figura sociale tutta da buttare, anche se gli ospedali in Italia fanno paura e le università anche… E poi: questa idea di emancipazione attraverso la sdrammatizzazione e l’indebolimento non corrisponde all’ideale del marxismo di smitizzazione del dominio dell’economico? E non si può fare questa ipotesi: che la divergenza fra l’attualità sociale di questo ordine del discorso – pensiero debole, liberazione per inflazione e spoliazione – e la loro inattualità politica significhi essa stessa qualche cosa: la possibilità di praticare un’interpretazione distorcente dell’esistente; un significato spiritualizzante della tarda modernità, una riduzione di realismo…
A proposito di spiritualismo e realismo, e di materiale e immateriale: come la mettiamo con la guerra del Golfo? Questa guerra – il fatto stesso che sia accaduta, contro tutte le ipotesi, per dirla con Baudrillard, di dominio del virtuale sul reale – non la mette in crisi? Non la si può leggere anche come una smentita sul campo, o almeno una inquietante lesione, del suo paradigma e più in generale del paradigma postmoderno?
Certo, c’è un problema. Non parlerei però di smentita. Questa guerra mi sembra più un soprassalto che una rivincita del realismo. Le stesse ragioni per cui si poteva pensare, e io ho pensato fino all’ultimo, che la guerra non sarebbe scoppiata, l’hanno almeno resa breve. E i risultati sono così sfilacciati e complicati che gli Stati Uniti non possono nascondersi dietro un effetto di risoluzione.
Torniamo all’impasse sulla politica, o meglio sul progetto. Sbaglio o c’era fin dall’inizio nella sua ipotesi teorica? Nell’82 lei stesso scriveva: «Parlare di debolezza del pensiero significa anche teorizzarne una diminuita forza progettuale? Non nascondiamoci che il problema esiste». E oggi?
Oggi il problema resta, per le stesse ragioni di partenza: non conosco forza progettuale che non abbia riprodotto degli schemi di dominio. Io registro l’impasse, ma in giro non vedo molte soluzioni: salvo aderire all’ottimismo razionale alla Veca e mettere la filosofia al servizio dei comitati etici. Preferisco accettare una condizione di marginalità rispetto alla politica, e lavorare a livello di preparazione remota, il compito vero della filosofia.
Però anche qui qualcosa torna, qualcosa no. Va bene la critica del politico-istituzionale, va bene la sua sdrammatizzazione. Ma possiamo ridurre a questo tutta la dimensione della politica? In una intervista recente, su Democrazia e diritto, lei vede tutt’e due in crisi, il politico in senso stretto e la dimensione politica in senso più lato. Ma io non ne sarei così certa. Il femminismo, ad esempio, suggerisce che alla riduzione del politico-istituzionale fa riscontro un allargamento dell’agire politico.
Sì, può esser vero visto dal movimento delle donne. Però il femminismo porta anche acqua al mio mulino: anche lì c’è una difficoltà intrinseca a dare traduzione efficace ai problemi che si mettono in evidenza, a darsi obiettivi identificabili, e anche lì il nemico si mostra più sotto forma di nevrosi sociali che di figure tradizionali. O no?
Sì, ma nel caso del femminismo c’è anche la pratica di una permanente dimensione del conflitto. Le donne non smettono di contestare, e mi sembrano meno tentate degli uomini da un’etica opportunistica della debolezza e della complessità.
Forse perché per la condizione sessuale passa oggi quella condizione di secondarietà che prima era del proletariato. E che comunque non può avere l’ideale emancipativo della ricomposizione. “Non siamo più materiale per una società”, diceva Nietzsche e aveva ragione. Le soggettività premono ed esplodono, e questo il femminismo lo dimostra.
Ruotiamo ancora attorno allo stesso punto. L’ideale di emancipazione deve cambiare anzi è cambiato nei fatti, la rivoluzione non c’è stata ma soprattutto non deve mai compiersi del tutto, il presente della tarda modernità è pieno di possibilità liberatorie, eppure lei legge «vent’anni dalla parte del torto» e le viene nostalgia. Non sarà che l’esser contro ha ancora qualche chance e magari ridiventa più attuale e più affascinante dell’essere amichevoli nei confronti di questa realtà?
Guardi che nello stare contro, nel permanere contro, si rischia di non riuscire a tallonare abbastanza l’esistente, a forzarlo nella nostra direzione e ai nostri fini: come se stare fuori fosse perfino più rassicurante, così che il potere resta indisturbato e chi sta contro pure. Questo resta il mio punto di critica a il manifesto, per tornare al nostro punto di partenza. Poi c’è il mio punto di crisi: l’imbarbarimento della situazione politica e dei rapporti, che mi fa provare simpatia per il gruppo che si può permettere quello slogan. Ho sbagliato io a pensare fino a ieri che fosse diventato improponibile? O la colpa è della realtà e di questa sorta di nuova barbarie? Come vede non ho in risposta altro che domande, i problemi su cui sto riflettendo. Lo dicevo prima, mi domando se oggi non sia da costruire più duramente un pensiero di opposizione, pur senza rinunciare a tutta la fase di critica del dogmatismo e a una certa dose di amichevolezza verso la tarda modernità. A meno che non sia tutto un problema italiano: se la crisi di governo fuoriesce da ogni logica grazie all’irrazionalità, chiamiamola così, di Cossiga, beh, mica per questo devo rivedere il paradigma del pensiero debole…
Per questo no, certo. Ma forse per un problema di ricollocazione sì. Facciamo ancora un’ipotesi: che quel paradigma avesse un senso vero, e radicale, finché c’era ancora un progetto di emancipazione con qualche vizio metafisico. Ma se quel progetto non c’è più, non cambiano anche le altre parti in commedia? Non ricade sui critici delle «grandi narrazioni» una responsabilità costruttiva, proprio ora che esse sembrano sconfitte dalla storia?
Sì, questo sì. Infatti l’esigenza a cui vorrei lavorare adesso è la costruzione di una razionalità positiva dell’ermeneutica, prendendo distanza dalla prospettiva di pura decostruzione alla Derrida. Insomma il pensiero debole non tanto come decostruzione ma come costruzione di una diversa razionalità. Questo sul piano teorico. Sul piano politico, mi sono chiesto di recente se il riferimento di una razionalità debolista costruttiva non potrebbe essere l’ecologia, e tutto un modo di reimpadronirsi di quei problemi di controllo del territorio che oggi sono in mano alle Leghe.
E perché non le scrive qualche volta su il manifesto queste domande?
Perché? Perché è un po’ come non avere sposato la ragazza di cui si era innamorati da piccoli.
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