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Nuove istituzioni per attività e lavori “remoti” in pandemia. Appunti sulle Officine Municipali come spazi comuni

Un intervento in risposta alla proposta di creazione delle Officine Municipali al tempo del Covid-19, per intenderle come inedite istituzioni locali, urbane, metropolitane, rionali, dove sperimentare incontri virtuosi – in sicurezza sanitaria reciproca – tra i soggetti del “lavoro a distanza” e nuove forme di solidarietà, socialità, convivialità, contro l’acuirsi di esclusione e insicurezza sociale
Pubblicato il 1 Ottobre 2020
Materiali, Studi e ricerche

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Abstract. Con questo intervento si prova a rispondere alla proposta di creazione delle Officine Municipali al tempo del Covid-19, per intenderle come inedite istituzioni locali, urbane, metropolitane, rionali, dove sperimentare incontri virtuosi – in sicurezza sanitaria reciproca – tra i soggetti del “lavoro a distanza”, “da remoto”, e nuove forme di solidarietà, socialità, convivialità. Per esortare ad una progettualità comune, intersezione di teorie, esperienze e pratiche intergenerazionali contro l’acuirsi di esclusione e insicurezza sociale.

Alla memoria di Bernard Stiegler, 1952-2020, pour “étonner la catastrophe”

Perché l’arte della presentazione è l’arte più difficile tra tutte le arti.

Thomas Bernhard, Sull’Ortles. Notizie da Gomagoi, 1971 (2020)

Premessa su sottoccupazione, in-attività e lavori “remoti” al tempo delle pandemie

Nell’evocazione delle Officine Municipali recentemente fatta da Carmelo Caravella, Pietro De Chiara e Giulio De Petra si propone di riflettere e intervenire sull’urgenza di definire – e auspicabilmente realizzare nel concreto – «una terza possibilità tra lavoro in azienda e lavoro a casa», al tempo della pandemia globale, della quarantena e chiusura delle attività, delle conseguenti restrizioni/limitazioni ai luoghi di lavoro “tradizionali” e delle necessarie politiche pubbliche e condivise di cura nelle relazioni e nei comportamenti interpersonali. Avendo contezza del fatto che «l’accelerazione determinata dalla crisi sanitaria non è quindi reversibile perché ha contribuito ad abbattere alcune barriere inerziali di comportamento che avevano fino ad oggi frenato tendenze già evidenti nella riorganizzazione digitale delle imprese» e delle forme del lavoro – autonomo e dipendente – nei tradizionali settori dei servizi del terziario e dei “quartari”2, quindi dei “quintari” (del Quinto Stato indagato da tempo insieme con Roberto Ciccarelli). Quei quintari dei sempre più precari, evanescenti, mal o per nulla retribuiti lavori della conoscenza, della cultura, dell’informazione, della comunicazione, soprattutto del lavoro delle arti e dello spettacolo, che nell’era pandemica sfociano in disoccupazione/sottoccupazione prolungata, da invisibili senza istituzioni e garanzie (da Insubordinati del Quinto Stato, con sempre più self-employed privi di tutele). Con la consapevolezza che negli oltre 70 giorni di lockdown proclamati da un Governo che si è certamente trovato nella condizione del tutto inedita di dover gestire una pandemia con decine di migliaia di morti, soprattutto tra le generazioni più anziane, i soggetti delle fasce più deboli dei molteplici lavori (cassieri/e, logistica, consegne a domicilio, nettezza urbana, assistenza, ovviamente sanità, etc.) sono stati costretti a rimanere sul campo di lavoro in condizioni di scarsa sicurezza sanitaria, economica, sociale, con a fianco una larga fetta di società tra lavoro autonomo, informale, grigio, occasionale, sommerso, più che precario, etc. tuttora pericolosamente sospesa tra invisibilità e marginalità/povertà, spesso anche esclusa da misure sociali pensate come bonus settoriali e una tantum. Si tratta di una situazione rischiosissima per la tenuta mentale, relazionale, affettiva, latamente “psico-sociale” di interi segmenti sociali, familiari, con possibili danni ulteriori per le giovanissime generazioni, soprattutto nelle zone periferiche, isolate, marginali delle città e del Paese. E con al centro l’eterna questione femminile in Italia, a partire dalla storica segregazione occupazionale, ulteriormente acuita dalle conseguenze di genere della pandemia, dall’aggravio del lavoro di cura in una mentalità familista e patriarcale, al rischio di un eterno ritorno al passato proprio in ambito giuslavoristico. Per questo le Officine Municipali dovrebbero essere intese come spazi altri rispetto tanto alla dimensione del luogo di lavoro in azienda (o nell’ufficio della PA), quanto alla retorica dello smart working/home working, del telelavoro e del lavoro casalingo, spesso doppio, o triplo, per le donne. Luogo mediano liberamente scelto, per evitare gli spostamenti verso i luoghi di lavoro tradizionali e al contempo l’auto-confinamento casalingo e per poter svolgere “lavori da remoto” in sicurezza e libertà (di tempi, condizioni e modi). Ma anche e soprattutto spazi di socialità e invenzione di nuove forme di produzione e redistribuzione territoriale di ricchezze, che diano ossigeno economico-relazionale anche a chi non ha condizioni di lavoro salariali stabili e tradizionali, cioè ampi, e insicuri e isolati, settori di società, per i quali il lavoro con una retribuzione continuativa diviene sempre più un evento “remoto”. Perciò, ecco la nostra evocazione di “lavori remoti” nel titolo dell’intervento: perché l’eventualità di un lavoro degnamente e continuamente retribuito diviene sempre più remota, per tutto quel mondo di attività intermittenti, informali, occasionali, etc. di una forza lavoro sia stanziale che migrante, tanto più in una società (post-)pandemica. E perché spesso le condizioni di povertà permangono nonostante il lavoro, perché il lavoro non basta per uscire dalla povertà3. Per questo, a partire dalle città, si dovranno avviare efficaci micro-processi di ritessitura sociale, economica, istituzionale, produttiva, relazionale in favore di quelle ampie parti di società ancora impoverite e immobilizzate, impoverite perché immobilizzate. Fare di tragica necessità un’auspicabile virtù: e non solo.

  1. Tre generazioni oltre la mentalità salariale, finalmente

La pandemia globale pone tre generazioni, ed oltre, sul dirupo cognitivo delle già avvenute molteplici crisi delle società salariali, tra deperimento dei diritti, concentrazione delle ricchezze nell’economia finanziaria, isolamento iper-individualistico, concorrenza al ribasso, trasformazioni delle forme e dei luoghi del lavoro ed esclusione dalla sicurezza sociale di ampie parti della società. Ecco le diverse generazioni chiamate al metaforico capezzale di questa, per così dire, mai troppo maledetta società salariale, probabilmente viziata sin dall’origine, perché, nel passaggio alla modernità (tardo)capitalista, «da principio, fu la privatizzazione dei beni comuni a produrre e incentivare quelle forme disumane di lavoro salariato che conosciamo da tre secoli», per dirla con le note forse troppo cupe dell’economista del CNRS parigino e della Societas Iesu Gaël Giraud, in un suo intervento su La Civiltà Cattolica a proposito della pensabilità di un reddito di base universale, uno Universal Basic Income, anche alla luce di alcune affermazioni di Papa Francesco dinanzi alle trasformazioni epocali degli ultimi decenni, tra conflitti, migrazioni, cambiamenti climatici (Una «retribuzione universale»)4. In ogni caso noi sappiamo, sulle spalle di Karl-Heinz Roth e di molti altri ed altre, che «una cosa deve però essere chiara: la liberazione dell’individualità sociale sta oltre il lavoro salariato, e non in un ritorno pre-capitalistico arcaico alla bottega artigiana, alla comune agricola e così via»5.

Così eccoci tutte e tutti riuniti, purtroppo dentro gli effetti devastanti di una pandemia globale, a pensare la liberazione dell’individualità sociale nella società post-salariale, come a lungo ci esortò, a lungo inascoltato, al futuro anteriore, André Gorz nel corso del secondo Novecento. La generazione degli Autori della proposta di Officine Municipali. Quella mediana – legata alla prima generazione precaria – di chi scrive questi appunti. Quelle dei venti-trentenni, alle prese con la frammentazione massima delle forme del lavoro, sempre più individualizzate, sottopagate, occasionali, informali, temporanee, gratuite, intermediate da piattaforme digitali, etc. Per fare una battutaccia: Boomers, X Generation (1965-79), Y Gen – Millennials (1980-1994) e Z Gen/Zoomers (post 1995) accomunati da una presa di coscienza collettiva, temiamo tardiva, comunque indotta da una pandemia globale, ma non disperiamo! Non è il momento di disperare.

  1. Ottimismo della pratica e invenzione costituente, per cambiare il mondo

È invece il momento di schierarsi dalla parte dell’ottimismo della pratica. «L’ottimismo della pratica, per cambiare il mondo», rileggendo Gramsci, diceva sul finire dei Settanta del Novecento, Franco Basaglia (1924-1980)6. Ricordando oggi – a quarant’anni dalla sua prematura morte – le radicali innovazioni culturali, sociali, mediche, (anti)istituzionali portate avanti, a partire da Gorizia nel 1961, con Franca Ongaro Basaglia (1928-2005) e la loro équipe di esperti e operatori, nella dialettica tra chi è in sofferenza psichica e gli operatori-tecnici, medici, assistenti, infermieri, ricercatori, terapisti, etc. Tutto ciò spesso in contrasto tanto con la tradizionale cultura conservatrice italiana, che con ampie porzioni del partito comunista italiano, ma altrettanto spesso in sintonia con le più sensibili sperimentazioni sociali, culturali, artistiche, teatrali di quei decenni. E probabilmente anche ora si tratta di recuperare quello spirito di movimento collettivo, di ibridazione tra molti e diverse,che andava oltre l’istituzione, per innescare un superamento dell’istituzione esistente e immaginare una comunità di pratiche intesa come laboratorio aperto, officina (del) comune, officina municipale, appunto, dove realizzare innovazioni culturali, sociali, istituzionali nelle forme di vita e di lavoro che ci toccano in sorte. Certo l’esperienza collettiva basagliana ebbe forza e capacità di avviare e realizzare riforme istituzionali e normative lungo due decenni, in un dialogo produttivo con gli eretici della rappresentanza politica parlamentare, per giungere alla legge n. 180 del 1978 e alla successiva n. 833/1978 che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale e recepisce la precedente (riguardante gli Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori). Tenendo insieme la questione della salute – del corpo organico e del corpo sociale – con la ricerca scientifica, la formazione e le pratiche quotidiane di trasformazione istituzionale, normativa, sociale. Per pensare e praticare, già allora, un Welfare più universalistico per una società più giusta, per dirla con il dialogo tra Luca Negrogno e Yuri Kazepov e tornare a riprenderci la società della cura creata da Sistema Sanitario Nazionale, come ricostruisce Silvia Jop, a partire dalle micro aree e dai budget di salute in una prospettiva di Welfare di comunità, nel quale la presenza delle Officine Municipali potrebbe essere un ulteriore tassello di ramificazione territoriale, nell’immaginare un’altra architettura istituzionale, più diffusa e orizzontale rispetto a quella burocratica e verticale tuttora esistente. Perché, per dirla con il Micheal Hardt lettore di Gilles Deleuze, «l’orizzontalità della costituzione materiale della società si fonda sulla pratica come motore della creazione sociale. Una pratica politica di corpi sociali libera le forze immanenti dalle strozzature delle forme predeterminate per scoprire i loro propri fini, inventare la loro proprio costituzione»7.

  1. Officine Municipali e socialità post-capitalistica

Così la mente va alle altre sperimentazioni virtuose, visionarie e dimenticate, che hanno ibridato mondi diversi – cultura, lavoro, impresa, urbanistica – recuperando l’intuizione di Adriano Olivetti (1901-1960) di pensare l’impresa sociale autonoma e cooperativa come spazio di innovazione nel conflitto tra capitale e lavoro, dinanzi ai processi di socializzazione della produzione, tra centralità del lavoro culturale, trasformazioni urbanistiche e società post-industriale in progressivo avvicinamento8. Nel tentativo di condividere la ricchezza prodotta in comune, da quella comunità operosa fatta, come nella pratica basagliana, di “tecnici e intellettuali”, lavoratori manuali e cognitivi, operatori e attivatori, maker e comunicatori, li chiameremmo oggi, soggetti al lavoro nelle diverse modalità (subordinate, indipendenti, frammentate, a chiamata, etc.) che si vorrebbero far incontrare nelle Officine Municipali. Partendo dalla pensabilità di comunità intergenerazionali aperte e plurali nell’autogoverno locale e messe in comune in patti federativi, non per tornare nelle cupe strettoie pre-moderne del lavoro a cottimo, ma per pensare frammenti di società post-capitalistiche in una prospettiva reticolare, che tenga insieme orizzontalità di organizzazione federata e verticalità di azione politica collaborativa. Autonomia e federalismo, indicava un troppo dimenticato Silvio Trentin (1885-1944), nell’urgenza di liberare e federare per dare un senso alla rivoluzione europea – antifascista e democratica – che i nostri partigiani resistenti immaginavano in corso di gestazione negli anni Quaranta del Novecento in cui scriveva questi suoi testi, anche alla ricerca di una struttura anti-capitalistica9. Oggi, per stare dentro l’innovazione con piglio visionario e concreto, per immaginare e rendere praticabile una possibile via mediterranea all’innovazione tecno-digitale, seguendo i tre princìpi “olivettiani” di un agire pratico quotidiano nelle metropoli come nelle aree interne, promuovendo gestione condivisa dei beni comuni, promozione dell’aiuto reciproco e garanzia di alcune funzioni pubbliche di base. Perché, come ricostruito altrove10, anche nella storia minore – sociale e istituzionale – di questo Paese, con Gian Domenico Romagnosi (1761-1835), lo spazio urbano, certo non ancora metropolitano, è inteso come luogo che favorisce la «cooperazione alla scambievole sicurezza e soddisfazione e sopra tutto il soccorso in caso d’impotenza», con l’affermazione di «una protezione solidale della Comunanza a favore dell’associato», il cittadino, che parte dalla «sicurezza» e giunge al «soccorso», in una visione mutualistica, cooperativa, solidale dello spazio cittadino vissuto tra pari che si autogovernano. Impostazione che ci permette di rileggere oggi le esperienze del socialismo municipale (a partire dalle lotte nel secondo Ottocento europeo) in un possibile Social Municipalism che ridisegni le città in funzione di una concreta solidarietà tra diversi. E abbiamo visto quanto possa tornare di conforto il ragionare e praticare mutuo aiuto, pandemic solidaritynei mesi del lockdown, in favore dei soggetti più deboli, vulnerabili e isolati – a partire dagli anziani – e ancor più nella pensabilità delle Officine Municipali come spazi dove far convergere territorialmente tutti i soggetti attivi in quei mesi e pronti a dare permanenza a quella rete di solidarietà attiva che spesso fatica ad incontrarsi, in una nuova visione di politiche pubbliche, comuni e condivise della cura reciproca e dell’economia circolare.

  1. Officine Municipali come consorterie di attività, attivisti, artisti, artigiani e artivisti

Così, risultano perfettamente evocatrici di una nuova immaginazione sociale e istituzionale le parole con cui la scrittrice Antonia Susan Byatt descrive la casa-laboratorio dell’artista, artigiano, scrittore e quindi attivista politico William Morris (1834-1896): «la Red House è un esempio di ciò che in Morris mi ha attratto, l’unione di vita, lavoro e arte, e un esempio del tentativo di realizzare il tipo di comunità che desiderava, una corporazione di artigiani e una consorteria di artisti»11. E Arts & Crafts si chiamava il movimento di artisti e artigiani che lo stesso Morris, seguendo l’insegnamento dell’artista, scrittore e critico di impronta socialista John Ruskin, aveva promosso nella sua gioventù, nella contaminazione tra arti e mestieri, tra Preraffaeliti e anticipatori del futuro design pre e post-industriale, nella lotta contro gli automatismi della macchina e della società industriale e in favore della creatività umana: nella comune ricerca di un uso creativo, ecologico, abilitante delle macchine per gli esseri umani e per l’ecosistema locale e globale. Pensando laboratorio ed officina fuori dall’interpretazione tradizionalista data dai successivi critici e invece intesi come spazi dove sperimentare pratiche comuni, innovare i processi, recuperare tempi e spazi, per rifiutare la fabbrica centralizzata come luogo del comando capitalistico che annienta e fa retrocedere l’umanità a forme impensabili di asservimento.

Dentro il passaggio oltre la prima, lunga rivoluzione industriale, un secolo prima di Adriano Olivetti, il messaggio e le pratiche erano già dalla parte degli esseri umani che inventano artifici per risparmiare fatica, immaginare mondi a venire, redistribuire ricchezza collettivamente prodotta, trasformare le proprie esistenze, assemblare comunità aperte, plurali, irriducibili ai rapporti di potere esistenti. Essere anche artivisti, per dirla con il compianto Giacomo Verde (1956-2020), ricordando la sua esperienza-matrice di artivista cantastorie del digitale, in quella tensione tra uso virtuoso di arte, politica e tecnologia, net art da artivismo tecnologico, che molto deve a due sapienti, sempre presenti, certo diversi, Maestri del futuro che ci mancano sempre di più, come Antonio Caronia e Stefano Rodotà. Per immaginare quelle coalizioni tra diversi di cui si parla da tempo e che ora anche uno sperimentatore musicale come Nicolás Jaar12 intende come progetti dove artisti e finanziatori, attivisti e poeti, possano avviare processi di trasformazione delle istituzioni e delle forme del vivere associato. Obbligando a pensare ecosistemi politici oltre la mentalità statual-nazionalista, profilo che permetterebbe anche di mettere in scacco il rigidamente mortifero momento populista13, altrimenti pericolosamente sospeso tra pulsioni tradizionaliste, suprematiste, sovraniste, identitarie, escludenti.

  1. Officine Municipali come post-coworking, dal 2012

Qualche anno fa, era l’autunno 2012, ma sembrano decenni, all’interno del Teatro Valle Occupato a Roma, tra i palazzi del Senato della Repubblica e Sant’Andrea della Valle, organizzammo una tre giorni sul Co.Co.Work!giocando sulla molteplice valenza di quello che avremmo già potuto definire come un meme. CoCoWork: i rapporti di lavoro dei collaboratori “coordinati e continuativi”, Co.Co. I Co-working come spazi di lavori condivisi, tra libertà e nuova subordinazione. L’essere – noialtri lavoratori e lavoratrici intermittenti, precari-e, flessibili, più o meno autonomi e indipendenti, abbastanza autoironici, non sempre autocritici – tutti delle galline starnazzanti, coccodé, polli in batteria, pronti all’ingrasso, al deperire, all’essere imballati e infilati nel tritacarne sociale e lavorativo del quale eravamo – e siamo – spesso solo passivi oggetti del contendere. In quell’occasione provammo a ragionare su spazi civici, metropolitani, urbani, comunali e comuni (Officine Municipali diciamo oggi? Azzardammo un titolo altisonante in modo imbarazzante: Cowork, il futuro del lavoro vivo?), dove soggetti di attività lavorative e (auto)imprenditoriali, istituzioni locali, associazionismo spontaneo e comunità di riferimento potessero ripensare come vivere insieme14. E varrà nuovamente la pena coinvolgere in questa progettualità comune delle Officine Municipali tutti quei soggetti che da anni provano a dare organizzazione, sostegno, tutele al lavoro intermittente, autonomo, indipendente, a partire da Acta – Associazione italiana dei Freelance e Smart – Società Mutualistica per Artisti, che proprio in quegli anni incontrammo in faticosi cammini comuni. Per scardinare la solitudine individuale ed istituzionale e inventare nuova e solidale sussidiarietà orizzontale, di segno opposto a quella sperimentata nell’ultimo ventennio che ha socializzato costi e perdite e privatizzato profitti e rendite. Quindi come capacità sia diautonomia sociale, produzione di ricchezza dentro la società, sia di costituzionalizzazione dal basso delle sfere civili, rileggendo in modo evolutivo i classici studi di Gunther Teubner, nel senso di inventare nuove istituzioni comuni e di prossimità, che alludano anche a una inedita pratica di contaminazione politica tra istituzioni sociali e pubbliche15, del diritto alla città e della città, per stare dentro i conflitti in modo inventivo e rovesciare la città.

  1. Gli spazi comuni di una amministrazione condivisa per la solidarietà sociale

In questo senso, anche di una sussidiarietà orizzontale come reale promozione di spazi di concreta solidarietà sociale, sarà necessario commentare con attenzione l’assai interessante e innovativa sentenza n. 131, del 20 maggio 2020, della Corte costituzionale (redattore il giudice costituzionale Luca Antonini, di nomina del Parlamento in seduta comune, professore di diritto costituzionale esperto e consulente in tema di federalismo fiscale e demaniale) che, a partire da un ricorso in via principale del Governo per un giudizio di legittimità costituzionale sull’articolo 5 (comma 1, lettera b) della legge della Regione Umbria n. 2, 11/04/2019 (Disciplina sulle cooperative di comunità), che si presupponeva potesse violare il riparto di competenze tra Stato e Regione (in rapporto all’art. 55 del Codice del Terzo Settore, D. Lgs. 3 luglio 2017, n. 117), dichiara in via interpretativa non fondata la questione, spingendosi fino a proporre un ripensamento dell’attività di pubblica amministrazione in relazione condivisa con la società che si autorganizza. Nella motivazione si argomenta infatti in favore di “un canale di amministrazione condivisa, alternativo a quello del profitto e del mercato: la «co-programmazione», la «co-progettazione» e il «partenariato» (che può condurre anche a forme di «accreditamento») si configurano come fasi di un procedimento complesso espressione di un diverso rapporto tra il pubblico ed il privato sociale, non fondato semplicemente su un rapporto sinallagmatico”, in cui gli Enti del Terzo Settore, intesi come “rappresentativi della «società solidale», del resto, spesso costituiscono sul territorio una rete capillare di vicinanza e solidarietà, sensibile in tempo reale alle esigenze che provengono dal tessuto sociale, e sono quindi in grado di mettere a disposizione dell’ente pubblico sia preziosi dati informativi (altrimenti conseguibili in tempi più lunghi e con costi organizzativi a proprio carico), sia un’importante capacità organizzativa e di intervento: ciò che produce spesso effetti positivi, sia in termini di risparmio di risorse che di aumento della qualità dei servizi e delle prestazioni erogate a favore della «società del bisogno»”.

E il giudice costituzionale ricostruisce il retroterra culturale, sociale e istituzionale di questa possibile cooperazione in chiave solidale tra autorganizzazione sociale e poteri pubblici, argomentando come “fin da tempi molto risalenti, del resto, le relazioni di solidarietà sono state all’origine di una fitta rete di libera e autonoma mutualità che, ricollegandosi a diverse anime culturali della nostra tradizione, ha inciso profondamente sullo sviluppo sociale, culturale ed economico del nostro Paese. Prima ancora che venissero alla luce i sistemi pubblici di welfare, la creatività dei singoli si è espressa in una molteplicità di forme associative (società di mutuo soccorso, opere caritatevoli, monti di pietà, ecc.) che hanno quindi saputo garantire assistenza, solidarietà e istruzione a chi, nei momenti più difficili della nostra storia, rimaneva escluso”. È il tema centrale – e lungamente inevaso – di una necessaria lettura evolutiva del rapporto tra le domande e le pratiche di giustizia sociale proveniente dalle cittadinanze e le forme di inclusione, coesione e promozione sociale da parte delle istituzioni pubbliche, oltre un eventuale ruolo suppletivo del Terzo Settore. Ora che si parla anche del quarto settore indagato da tempo da Mario Calderini, il quale ritiene che come«futuro dell’economia post-Covid c’è il quarto settore, popolato da imprese e organizzazioni finanziarie che metteranno il significato, il senso e l’impatto sociale dell’atto imprenditoriale al primo posto del loro agire», nella necessaria e auspicabile «contaminazione virtuosa tra impresa e finanza, terzo settore e Stato. All’esito di questa contaminazione sono affidate le speranze che la transizione post-Covid non venga guidata dalla tracotanza di chi pensa che, prima o poi, la bufera passerà e con una spruzzatina di sostenibilità ciascuno potrà tornare alle proprie piccole o grandi rendite di posizione a spese del bene comune». Una sfida da accettare e rilanciare.

  1. Che fare? Inedite intersezioni e contaminazioni per le Officine Municipali

Oltre che le evocate e tradizionali forze del lavoro, da remoto e sempre in moto, quindi degli enti locali/regionali, del protagonismo sociale e dell’associazionismo – a partire da quello di promozione sociale, come nel caso dell’ultra-sessantennale attività dell’Arci – diviene necessario provocare quella parte di economia – fondazioni, istituzioni più tradizionali, cooperative, imprese e capitali – che ha a cuore lo sviluppo inclusivo e progressivo delle città e dei territori, investendo in impatto sociale, ecologico, ambientale, per sostenere economicamente, progettualmente, finanziariamente, queste Officine Municipali e soprattutto i soggetti che vorranno crearle, abitarle, viverle. Che per sviluppare fino in fondo le loro potenzialità non dovranno essere solamente uno spazio fisicamente ampio e distanziato per il “lavoro da remoto”, ma veri e propri spazi comuni – in sicurezza relazionale, di cura e socializzazione intergenerazionale, anche e soprattutto di attività ludiche, culturali, artistiche e artigianali, di industrioso lavorìo e ozioso convivere – aperti tutto i giorni e le sere, per ospitare le diverse generazioni spesso disperse nel vuoto metropolitano – per tacere di quello provinciale – di spazi inadatti alla socializzazione e alla progettualità comune di un buon vivere individuale e associato, in cui il tempo libero, seppure indotto dalla disoccupazione lavorativa, diviene tempo di invenzione comune di nuovi modi di stare assieme, contro le passioni tristi dettate da insicurezza, incertezza e diffidenza reciproca. Contro il senso di solitudine e abbandono in cui le persone finiscono per sentirsi relegate in vite di scarto (con la crisi dei corpi intermedi tradizionali, dai partiti alle parrocchie, dai sindacati alla scuola), spesso ostaggio della spietata pervasività della malavita e dell’indebitamento quotidiano nella finanziarizzazione delle nostre vite.

Questa sarà la sfida forse più interessante e progressiva: le Officine Municipali come consorterie di lavoratori e lavoratrici, certo, ma anche e soprattutto attivisti del tempo libero e dei tempi persi, della nuova disoccupazione post-pandemica, artigiani dell’immaginazione e Makers dei FabLab, con agenzie e imprese che già praticano questi percorsi di formazione, servizi e ricerche, come molte ce ne sono in giro per le città, quindi artisti intraprendenti delle più impensate forme di socialità, dialogo, confronto, immaginazione, per ripensare tempi, spazi e forme – non tanto e non solo del lavoro – ma del vivere in un legame sociale tra pari, sempre aperto, inclusivo, cooperativo e trasformativo dell’esistente. Ricordando che venticinque anni fa, una parte allora emergente dell’autorganizzazione sociale metropolitana provò ad interrogarsi sullo «spazio sociale metropolitano tra rischio del ghetto e progettista imprenditore»16, aprendo spazi di invenzione e innovazione sociale sapendo «che i conflitti non vanno semplicemente ascoltati, ma vanno attraversati e portati a galla, perché sono proprio loro ad essere produttivi di nuove possibili soluzioni»17. Per questo è necessario provocare e sfidare la speculazione sul patrimonio immobiliare, superando mentalità predatorie e parassitarie di ataviche rendite di posizione, per dare nuova vita a tutti quegli spazi del pubblico (spesso dismessi) e del privato (spesso immersi in bolle speculative) che mortificano e desertificano molti centri cittadini di gran parte delle medie e grandi città, così come la periferia e le aree marginali oramai post-industriali.

E nella prospettiva di auspicabili Officine Municipali, mi viene in mente, per assonanza nominalistica e soprattutto di sperimentazione che conosco personalmente da tempo, che in quel di Torino, nello storico quartiere di Barriera di Milano, da diversi anni operano le Officine Corsare, spazio sociale aperto a contaminazioni con il quartiere, che proprio a partire da pratiche di Cooperazione e Mutualismo in rete (Co.Mu.Net) dà vita ad una «comunità auto-organizzata e mutualistica di persone che vuole rispondere ai bisogni concreti dei suoi componenti a partire dalla condivisione delle capacità professionali, delle disponibilità di tempo e delle risorse economiche dei/lle suoi/e soci/e sostenitori/trici». Un’esperienza dalla quale imparare per promozione culturale, coesione e inclusione sociale, che ha attivato sportelli virtuali nell’emergenza Coronavirus e che da tempo mette in connessione diverse generazioni di attivisti, organizzatori di comunità, operatori, movimenti sociali e attivatori di progetti che recuperano il meglio della tradizione delle “classi operose” nella città simbolo dell’accidentata industrializzazione italiana, nell’epoca della sua prolungata dismissione e altalenante “rigenerazione urbana e cognitiva”, per usare una formula non sempre (pro-)positiva. E sempre a Torino da anni è attiva la Rete della Case di quartiere intese come comunità territoriali di attivazione sociale, per ridisegnare la città e le sue forme e relazioni di vita. In questo senso ripenso anche all’effervescente pratica intergenerazionale del Comitato Villa Giaquinto di Caserta, dove una comunità tra pari, in cui gli anziani diventano i nonni di tutti e i giovani nipoti di tutti, ha prima riaperto e poi preso in gestione una villa comunale abbandonata con circa 10mila metri quadrati di parco al centro di Caserta, per restituirla alla cittadinanza e sperimentare una vera e propria rigenerazione relazionale che oltrepassa qualsiasi retorica mainstream sulla rigenerazione urbana, proprio nel senso di tenere insieme, prima di tutto, gestione comune e condivisa degli spazi, anche verdi, quindi aggregazione sociale, progetti culturali, impresa locale, arte, divertimento, tempo liberato, etc. Perché un altro – decisivo – tema è quello di focalizzare l’azione sociale e politica su quei beni relazionali che permettono di migliorare la qualità della vita in una visione ecosistemica micro e macro, dal cibo, alla mobilità, dall’istruzione, alla salute, in reti e filiere, prossime e corte nella vicinanza ai bisogni dei cittadini, lunghe e diffuse nella capacità capillare di innescare processi multilivello di cooperazione sociale e nuova solidarietà18.

Allora si tratta di intendere l’Officina Municipale come una nuova intrapresa sociale collettiva, territorializzata al livello municipale-circoscrizionale nelle grandi città, raggiungibile a piedi o in bicicletta, quindi disseminata nei vari “rioni o quartieri”, per divenire un piccolo eco-sistema generativo di relazioni, pratiche, economie, etc. che nelle aree interne e nelle provincie, oltre che nelle metropoli, potrà avere anche la funzione di rivitalizzare centri urbani o zone dismesse e abbandonate, per praticare e diffondere mutualismo e sostegno tra i soggetti indeboliti e isolati, in una prospettiva di cura ecologica di territori e relazioni, di un Commonfareche permetta di ripensare i vuoti dell’attuale Welfare, in quella politica dell’interdipendenza di cui parla il Care Manifesto del Care Collective, per passare dalla retorica della creative city alla sperimentazione di una caring city (come proposto in un incontro online promosso durante il lockdown all’interno del Forum Arte Contemporanea). Con due accortezze particolari. Da un lato, una funzione abilitante, “servente”, delle istituzioni locali rispetto a questa nuova progettualità territoriale, in una sorta di possibile amministrazione condivisa, di cui parla anche la già ricordata sentenza n. 131/2020 della Corte costituzionale. Dall’altra, sostenere una nuova idea di impresa – locale e non – e finanza, vincolate ad una funzione sociale di riattivazione di economie e territori, di sostegno e promozione, di potenziamento e liberazione di inventività e progettualità.

  1. Città eco-solidali, come laboratori trasformativi nell’era precaria della pandemia globale

Città eco-solidali, post-capitalismo futuro e reddito di base, si ribadiva tempo fa, rileggendo il fondamentale General Theory of the Precariatdi Alex Foti, che proponeva un nuovo immaginario sociale, ecologico ed economico proprio partendo da una stretta connessione tra movimenti sociali, precariato metropolitano, città e spazi urbani nelle lotte contro l’immiserirsi del lavoro e per garantire una sicurezza sociale universale, all’altezza dei tempi nella regressiva polarizzazione sociale tra una minoranza sempre più ricca di rendite di posizioni e la stragrande maggioranza di intere società esclusa da tutto

Questo è il nocciolo intorno cui ha ragionato per anni, e da tempo sperimentava progetti territoriali, a partire dai 9 Comuni di Plaine Commune a nord di Parigi, il grande filosofo e ricercatore sociale Bernard Stiegler che proprio nelle settimane in cui si scrivono queste note ha deciso di abbandonare questa vita, lasciandoci certo drammaticamente orfani dei suoi sorrisi e della sua amicizia e visione, eppure con un’eredità infinita di intuizioni e prospettive. A partire dalla consapevolezza che «bisogna costruire una nuova economia politica e per questo proponiamo in modo molto concreto di configurarla attraverso dei Territori Laboratorio»19, nei quali sperimentare anche un reddito di contribuzione, dentro contro e oltre la società automatica. Si tratta di un programma di buona vita post-capitalistica sul quale poggiare i nostri progetti futuri, per tenere viva la memoria del caro Bernard Stiegler, nel dialogo tra generazioni sulla questione climatica e non solo, promosso dall’associazione che lui stesso fondò insieme ad altre ed altri, gli Amici della Generazione Thunberg.

Perché la pandemia induce a ripensare le condizioni di vita, le forme dell’abitare e la mobilità, a partire dalle grandi città, come osserva Richard Sennett, in quel tentativo di articolare gli spazi metropolitani, sicché si possa vivere in modo inedito la densità urbana nelle post-pandemic cities intese come reticolari “15-minute cities”, dove sia possibile raggiungere i servizi essenziali (di lavoro, salute, socialità, etc.) con una camminata a piedi o in bicicletta di 15 minuti20. Secondo una visione policentrica o multicentrica – multiverso – di città che riesca a ridurre la solitudine di chi già vive da solo, come accade spesso nelle metropoli anche e soprattutto per le fasce generazionali più anziane, e l’inquinamento causato dalla mobilità privata. È questo l’intento di situare le Officine Municipali dislocandole nella dimensione locale-municipale-comunale, in un necessario ripensamento tra urbanizzazione intensiva e diffusa, tra metropoli e provincia, tra città medio-piccole e il loro reticolato e tessuto sociale, in una dimensione scalare di politiche pubbliche (dalla dimensione locale a quella sovranazionale), avendo consapevolezza che «il punto importante però è che le città stesse, di qualsiasi dimensione, sono decisivi e insostituibili costruttori e attori di quelle politiche multilivello. Se il riferimento alle unità amministrative è ovvio, va rilevato che, nella prospettiva indicata, il riferimento è più in generale alle società locali, insiemi più e meno grandi di persone che su uno spazio insistono e su questo interagiscono, e sistemi più o meno strutturati di economie, culture, organismi politici relativamente congruenti»21. Una riflessione sulle peculiarità urbanistiche tipiche delle città d’Europa la troviamo in un recente saggio di Saskia Sassen (The City and the Virus), che insiste sulla presenza di diffuse zone verdi, rispetto a città e metropoli asiatiche ed americane, da valorizzare come spazi pubblici aperti anche dinanzi a ipotesi di isolamenti/lockdown e di ristrutturazione del vivere cittadino, visto che sempre più soggetti profondamente coinvolti nella vita urbana, a partire da amministrazioni municipali, università e giovani generazioni di studenti si impegnano nella dimensione cittadina per tenere insieme transizione ecologica, benessere quotidiano e giustizia sociale.

E allora, partire da certo parziali, epperò operativi, scalari, replicabili e reticolari, progetti urbani, territoriali e intergenerazionali per affermare il proprio diritto al presente e al futuro, immaginando e praticando mondi a venire a partire dal comune, ospitale, aperto, inclusivo, “cortile di casa”. Perché, come ci è capitato di sostenere altrove (la città contro il potere sovrano), le città possono essere ripensate in funzione di reciproco sostegno tra cittadinanze che scelgono di vivere nella dimensione urbana, non per ignorarsi o danneggiarsi, ma per sostenersi reciprocamente. È l’idea di sodalizio urbano, civico, metropolitano, che parla alle singolarità e ai collettivi che tessono la rete cittadina e quella immateriale, digitale, a partire dalle più giovani e mobili generazioni, in connessioni con altre generazioni e città. E d’altra parte l’idea di sodalizio ci conduce a quello artistico. Un nuovo diritto collettivo alla città può essere pensato e praticato a partire dal dialogo intergenerazionale tra artisti e sperimentatori di inedite connessioni sentimentali, per un buon vivere associato e una incantata apertura al mondo a venire. Per un nuovo modo di intendere le città in rete, tra aree interne e metropoli, certo anche a partire da Roma, da dove arriva questo appello alle Officine Municipali e dove nella primavera 2021, pandemia permettendo, si dovrà eleggere una nuova od un nuovo prima/o cittadina/o. Ma questo è un altro discorso?

[Giuseppe Allegri, socio fondatore e coordinatore del comitato scientifico del Basic Income Network Italia, collabora con università, fondazioni e altri centri di ricerca, si occupa tra l’altro di trasformazioni del lavoro e del fare impresa culturale e artistica, di innovazione sociale e istituzionale. Autore di diversi studi, ricerche e volumi: Il reddito di base nell’era digitale (2018)e, insieme con altri, Questioni costituzionali al tempo del populismo e del sovranismo (2019).]

Note

1 Nello scorso maggio, durante l’isolamento collettivo, ho avuto l’occasione di discutere una piccola, ma per me essenziale, parte di queste tematiche in un Workshop telematico, su invito della Professoressa Annalisa Sacchi e grazie alla responsabilità didattica del Professor Mario Lupano, riguardante Nuove istituzioni culturali. Soggetti (di) pratiche immaginari(e), svolto presso il corso di laurea magistrale in Teatro e Arti performative dello IUAV e tenuto con una ventina di formidabili partecipanti che ringrazio profondamente per la ricchezza – di visione, condivisione e “generosità estesa”, diremmo con David Hume riletto da Gilles Deleuze – che mi hanno restituito. Questi appunti (inevitabilmente troppo lunghi) sono anche frutto del pensare e discutere collettivo che ci ha accompagnato in quelle quattro giornate in rete. Ringrazio molto anche Rocco Albanese per lettura e commenti di una prima versione di questi appunti, a partire dalla loro esperienza di Officine Corsare, quindi Stefano Simoncini e i fratelli dell’intera posse del piccolo e visionario gruppo di ricerca Red Mirror, con il quale nell’ultimo anno avevamo coinvolto Bernard Stiegler in un invito romano e nella partecipazione ad un progetto di ricerca, che rimarrà tristemente orfano della sua fondamentale e ora impossibile partecipazione, nel quale proveremo lo stesso a seguire alcune delle sue fondamentali tracce teoriche e pragmatiche. Ringrazio quindi il CRS per l’ospitalità e la disponibilità ad accogliere questo intervento, divenuto nel tempo sicuramente troppo lungo.

2 Per dirla con il classico Luciano Bianciardi de La vita agra (1962)e prima de Il lavoro culturale (1957) e de L’integrazione (1960).

3 Per riprendere il titolo di un importante lavoro di C. Saraceno, Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi, Feltrinelli, Milano, 2015, con un’analisi sull’aumento delle diseguaglianze economiche negli anni della crisi post-2008, a partire dai sempre maggiori lavori e lavoratori poveri (Working Poor).

4 Una misura di Universal Basic Income (UBI) è ora considerata da molti analisti anche come uno strumento di sicurezza sociale in tempo di pandemie, seguendo l’indagine recentemente proposta da Carrie Arnold su Nature a partire da alcuni casi ed esperimenti. Nella prospettiva di pensare un benessere psichico e sociale all’interno di una società sempre più pericolosamente digitalizzata e automatizzata, sia concesso rinviare a un nostro recente intervento: G. Allegri, R. Foschi, Universal Basic Income as a Promoter of Real Freedom in a Digital Future, in World Futures. The Journal of New Paradigm Research, 4 Aug 2020: https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/02604027.2020.1792600.

5 K.-H. Roth, Non lavoro e proletarizzazione. Una lettera di Roth, in M.G. Meriggi, a cura di, Il caso Karl-Heinz Roth. Discussione sull’«altro» movimento operaio, Edizioni aut aut, Milano, 1978, p. 137.

6 Si veda F. Basaglia, Conferenze brasiliane, a cura di F. Ongaro Basaglia – M.G. Giannichedda, Raffaello Cortina editore, Milano, 2000, corsivi nostri.

7 M. Hardt, Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia, a-change, Milano, 2000 (1993), p. 174.

8 Si è provato a ragionare su questo lascito del pensiero e delle pratiche di Adriano Olivetti in Da Adriano Olivetti al Quinto Stato? Alla ricerca di nuove istituzioni sociali e politiche, in un numero monografico collettivo, curato da Sara Agnoletto, Olivia Sara Carli e Roberto Masiero, della Rivista di Engramma, interamente dedicato alla figura dell’intellettuale umanista di Ivrea, a partire da 11 domande su Olivetti e oltre,formulate da Michele Maguolo e Roberto Masiero, e dalla introduzione di Ilaria Bussoni e Nicolas Martino, Olivetti. Disegno della vita e comunità dell’intelligenza.

9 S. Trentin, Scritti inediti. Testimonianze e studi, Guanda, Milano, 1972, spec. p. 189 e ss., 237 e ss.

10 G. Allegri, Il ritorno al futuro del costituzionalismo. Un progetto di ricerca su spazi politici, soggetti sociali, nuove istituzioni, in Giornale di Storia Costituzionale, n. 32, II semestre 2016, 131-155, consultabile qui.

11 Nel suo formidabile libro A.S. Byatt, Pavone e rampicante. Vita e morte di Mariano Fortuny e William Morris, Einaudi, Torino, 2017.

12 Nicolás Jaar è un oramai celebre, ancorché giovane, sound artist cileno-statunitense, vero e proprio sperimentatore musicale tra elettronica, ambient e jazz (dopo il capolavoro Space Is Only Noise (2011), si veda il recente Cezinas, pensato e scritto in un periodo di volontaria auto-reclusione ed isolamento, quasi anticipando i tempi a venire, e poi il recentissimo, e ancora più sperimentale, Telas, uscito lo scorso 17 luglio), figlio dell’artista cileno Alfredo Jaar, e da tempo impegnato in contaminazioni inter e transdisciplinari, con percorsi di ricerca artistica, educativa, formativa, ambientale e sociale, in particolare con il collettivo di attivisti, ricercatori e artisti Shock Forest Group. In una recente, breve, intervista rilasciata a Maria Egizia Fiaschetti (su La Lettura del 19 luglio 2020) Nicolás Jaar sostiene che «dobbiamo rimodellare la realtà, le sue modalità di distribuzione e diffusione. La cultura da sola non basta per lasciare l’inferno, abbiamo bisogno di coalizioni tra ballerini e banchieri, poeti ed ecologisti», coalizioni che dovrebbero immaginare e definire le proprie istituzioni di autogoverno, nel senso di affermare un potere comune, diffuso e inclusivo di ripensamento solidale, ecologico e conviviale delle forme del vivere associato.

13 In particolare, nella lettura evolutiva proposta da M. Filippini, Decentrare il populismo: quattro critiche a Laclau, in F.M. Cacciatore (a cura di), Il momento populista. Ernesto Laclau in discussione, Mimesis, Milano-Udine, 2019, 74-98, il quale ragiona sulla necessità di una immaginazione istituzionale oltre lo Stato, dinanzi ad una concezione più “articolata” della soggettività politica, che permetterebbe di evitare la cristallizzazione delle teorie populistiche di Laclau, e dei suoi epigoni, che possono essere invece lette come un cantiere aperto e plurale, capace di ribaltare le letture più rigidamente dogmatiche e nefaste del momento populista.

14 Così direbbe il Roland Barthes del corso del 1977 al Collège de France, pubblicato nel 2002 con il titolo, appunto, Comment vivre ensemble. Simulations romanseques de quelques espaces quotidiens, Seuil, Paris, 2002.

15 Negli ultimi decenni il dibattito su trasformazione e invenzione istituzionale – nel ripensamento delle tradizionali categorie e pratiche del diritto privato e pubblico – si è sviluppato anche a partire da un dialogo e confronto tra pensieri filosofici, giuridici e socio-politici capaci di mettere in tensione reciproca i rispettivi paradigmi, come provai parzialmente a ricostruire in G. Allegri, Quali istituzioni per le pratiche costituenti del comune? Primi appunti per un uso creativo e “minore” del nuovo diritto comune, in S. Chignola (a cura di), Il diritto del comune. Crisi della sovranità, proprietà e nuovi poteri costituenti, Ombre Corte, Verona, 2012, 167-194 (cui permetto di rinviare qui), anche recuperando da un lato uno storico dibattito “istituzionalista” della prima parte del Novecento (tra cui il fondamentale testo di M. Hauriou, Teoria dell’istituzione e della fondazione, a cura di W. Cesarini Sforza, con presentazione di A. Baratta, Giuffrè, Milano, 1967, recentemente ripubblicato con la cura di A. Salvatore, per Quodlibet, 2019), dall’altro un più recente confronto italiano riguardo la tensione tra innovazione sociale, politica ed istituzionale, anche a partire da C. Donolo, F. Fichera, Le vie dell’innovazione. Forme e limiti della razionalità politica, Feltrinelli, Milano, 1988 e C. Donolo, L’intelligenza delle istituzioni, Feltrinelli, Milano, 1999.

16 Così recitava il titolo dell’intervento proposto dal Consorzio Aaster e riportato in P. Moroni, D. Farina, P. Tripodi (a cura di), Centri sociali: che impresa! Oltre il ghetto: un dibattito cruciale, Castelvecchi, Roma, 1995, volume tuttora fondamentale per comprendere la capacità di analisi e proposta che circolò in quegli anni nell’autorganizzazione sociale e che purtroppo non riuscì fino in fondo a sedimentare una comune e potente svolta progressiva, capace di intervenire nelle trasformazioni sociali, istituzionali, economiche e politiche che si stavano dando in quel decennio, al livello locale, come a quello globale.

17 Riprendendo un recentissimo, condivisibile intervento di Nicola Grigion su CheFare, Community hub le possibili soluzioni passano dai conflitti, a partire dallo sgombero dello spazio autogestito BiosLab di Padova, avvenuto mentre si scrivono queste note, il 18 agosto 2020.

18 In questo senso, proprio a partire dalla centralità di cooperazione e solidarietà, si muovono le recenti riflessioni di chi da decenni si occupa di qualità del cibo, della cultura gastronomica, della sua portata relazionale e della biodiversità in un’agricoltura equa e sostenibile, con l’oramai ultra-trentennale attività dell’associazione Slow Food, nel recente intervento di C. Petrin, Questo è il tempo della solidarietà e non più della competizione, in La Repubblica, 8 marzo 2020.

19 Come ricostruito nel gran ben dialogo con Stefano Simoncini, Territori laboratorio per una economia politica “ipermaterialistica”, ospitato dalla rivista Rizomatica

20 Centrale il tema di mobilità e reti stradali nelle città, per maggiore sicurezza, socialità, viabilità alternativa, come proposto e sperimentato da tempo nella Urban Street Design Guide, ora anche in italiano, Guida globale di Street Design, Mimesis, 2020.

21 Per dirla con le condivisibili parole e analisi del Documento della Commissione CoViD-19 dell’Accademia dei Lincei,L’Italia di fronte alla crisi Covid-19 (specialmente le pagine 13 e ss.).

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2 commenti a “Nuove istituzioni per attività e lavori “remoti” in pandemia. Appunti sulle Officine Municipali come spazi comuni”

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