Per ridurre i costi della politica i senatori non verrebbero più eletti dal popolo ma nominati dai consiglieri regionali e scelti tra gli stessi consiglieri. La proposta esalta il ruolo di questa parte della classe politica che è la più lontana dal controllo sia dell’opinione pubblica nazionale sia della partecipazione municipale. Si ottiene così un risultato paradossale: per combattere la Casta si affida esclusivamente al ceto politico la nomina dei membri del Senato. Con un messaggio chiaro. Vale tanto poco la Camera alta da diventare una sorta di “dopolavoro” di politici che dovrebbero essere già molto impegnati nella cura dei rispettivi territori. Poi è inutile lamentarsi dei tanti incarichi dei Mastrapasqua di turno. Altro che riforma, questo è un “plebeismo costituzionale” che arriva a degradare il modello istituzionale per offrire una finta risposta alla seria questione della Casta. Oltretutto è una soluzione inutile, poiché sono disponibili strumenti più diretti e più semplici per ridurre i costi della politica. Basta diminuire il numero dei parlamentari. E si possono dimezzare gli emolumenti – come proposi alla prima assemblea dei Gruppi all’inizio della legislatura – eliminando le risorse che i parlamentari devolvono al finanziamento dei partiti e ai servizi di gestione del mandato sul territorio. Rimuovere questa impropria partita di giro consente di uscire dall’attuale anomalia di emolumenti più alti e costi dei servizi più bassi rispetto ai parlamenti europei.
Si intende inoltre soddisfare una domanda di maggiore rappresentanza territoriale del Senato. Eppure questa non sembra affatto carente, se si pensa a quante leggi vengono approvate con ripieno di provvedimenti localistici, dalla chiesa di Padre Pio, ai treni valdostani, alla torre anticorsara di Palo Alto contenuti, ad esempio, nel così detto decreto salva Roma. Certo non sarebbero i consiglieri regionali nominati senatori a ridurre questa frammentazione. Si annuncia che è giunto il tempo di dare voce in Parlamento alle autonomie locali. Ciò significa attribuire ai nuovi senatori il vincolo di mandato di rappresentare prima di tutto la Regione o il Comune di appartenenza in contrasto con l’articolo 67 della Costituzione. Così gli interessi territoriali si esprimono direttamente, rompendo i pur flebili legami che oggi ancora vengono assicurati dalla mediazione dei partiti nazionali. Nell’aula del nuovo Senato la dialettica governo e opposizione non si esprime più sui programmi politici ma sulle rappresentanze territoriali. Nessuno può impedire, quindi, che si formi una maggioranza del Nord per mettere in minoranza il Sud. Sarebbe la miccia capace di accendere la dissoluzione della fragile nazione italiana. Si porta a sproposito l’esempio del Bundestrat dimenticando che la Germania coniuga la molteplicità territoriale con una forte unità nazionale. In venti anni i tedeschi sono riusciti a riunificare l’Ovest con l’Est che veniva dal crollo del regime comunista. Nello stesso periodo la storica frattura del nostro Mezzogiorno si è accentuata fino al punto che oggi nessuno ha neppure un’idea su come risolverla. Metterla ai voti in Parlamento potrebbe essere pericoloso. L’Italia è l’unico paese europeo che non può permettersi di poggiare la rappresentanza parlamentare sul cleavage territoriale.
Si invoca la fine del bicameralismo perfetto con l’esigenza di velocizzare l’approvazione delle leggi. Sembra un argomento vero solo perché viene ripetuto ossessivamente da trent’anni. Ma in realtà il Paese è soffocato dall’eccesso di produzione di leggi. Ogni settimana le Camere approvano testi legislativi di centinaia di pagine, contenenti migliaia di commi che spesso modificano quelli promulgati nei mesi precedenti. Da tanti anni in Parlamento non si approva più una legge organica e astratta. La legislazione è travolta dall’amministrazione corrente e prende la forma di decreti omnibus che assemblano norme frammentate, disorganiche e improvvisate. In tutti i campi della vita nazionale – la scuola, il fisco, la giustizia, il lavoro, le autonomie locali – è diventato ormai impossibile capire come funzionano le regole senza l’ausilio di esperti che sembrano oracoli iniziati ai misteri della dea Burocrazia. Davvero bisogna velocizzare? È proprio l’eccesso di legislazione che blocca qualsiasi iniziativa innovativa di imprese, cittadini, organizzazioni sociali e istituzioni. È una peste normativa che si diffonde nella società fiaccandone le energie vitali: “I regni destinati a perire producono molte leggi” (Nietzsche). Diverse sono le cause dell’epidemia. I burocrati ministeriali invece di amministrare gli uffici preferiscono coprirsi dietro norme esecutive che li esentano dalle scelte e dalle responsabilità della gestione. Di fronte a qualsiasi inefficienza alzano le mani e danno la colpa alle leggi che loro stessi hanno scritto ma altri hanno approvato. I ministri a loro volta cercano soluzioni facili e di immediato impatto mediatico senza avventurarsi su complessi e lunghi processi riformatori. La mancanza di progettualità viene surrogata dai fantasiosi titoli dei decreti – il Fare, il Salva Italia, la Scuola Riparte, il Valore Cultura ecc. – che nei fatti contengono solo provvedimenti occasionali e di corto respiro. La legislazione diventa un proseguimento della comunicazione con altri mezzi. Infine, l’assenza di organiche proposte sollecita i parlamentari a produrre centinaia di emendamenti particolaristici che sbrindellano ulteriormente i testi normativi. Solo in Italia viene definita riforma la mera approvazione di una legge, con un ribaltamento semantico tra l’obiettivo e lo strumento. Ma il linguaggio rivela sempre una realtà. È infatti proprio il riduzionismo normativo che impedisce di progettare politiche pubbliche intese come programmi complessi volti a cogliere determinati obiettivi con innovazioni organizzative, cognitive, economiche e solo in parte giuridiche. La mancanza di policies strutturate – ad esempio per la scuola, la casa, i trasporti, il lavoro ecc. – è la vera causa di ingovernabilità del Paese e la più grave arretratezza rispetto all’Europa, come ha osservato autorevolmente Sabino Cassese (La qualità delle politiche pubbliche, ovvero del metodo nel governare, Lectio alla Camera dei Deputati, 11-2-2013). Ma il discorso politico-mediatico si occupa solo dell’ingegneria istituzionale, sempre alla ricerca di modelli che aumentino la velocità di approvazione delle leggi. È un “futurismo legislativo” che promette efficienza e ottiene solo burocrazia. È un decisionismo senza alcuna vera decisione. Aveva ragione Luigi Einaudi nell’apprezzare la lentezza parlamentare come la virtù capace di limitare gli eccessi normativi.
La vera esigenza nazionale non è la velocità ma la qualità della legislazione. Basterebbero poche leggi l’anno purché scritte in forma semplice e con chiarezza di principi, delegando altresì le funzioni gestionali al Governo e aumentando i poteri di controllo e di indirizzo del Parlamento. Nessuno impedirebbe di farlo con l’attuale ordinamento, ma se proprio dobbiamo mettere mano alla Carta si può introdurre uno strumento nuovo per curare la peste normativa. Occorre rafforzare la gerarchia delle fonti introducendo un terzo livello: oltre le attuali leggi costituzionali e leggi ordinarie si dovrebbero introdurre le leggi in forma di Codici, intesi come testi unitari che regolano organicamente i principi, i criteri e gli obiettivi nei diversi campi della vita pubblica. Essi dovrebbero riguardare almeno cinque modalità: a) attuazione dei principi e della prima parte della Carta, con particolare riferimento ai casi previsti di riserva di legge; b) tutela dei diritti fondamentali e procedure della giurisdizione; c) ordinamento delle istituzioni riconosciute nella loro autonomia dalla Costituzione (ad esempio, i Comuni e le Regioni, la famiglia, le istituzioni dell’istruzione e della cultura, i partiti); d) armonizzazione con il diritto europeo; e) deleghe legislative al governo e ampie delegificazioni previste nei singoli Codici. Per evitare che rimangano semplici perorazioni a questi testi si dovrebbe conferire una “riserva di codice” che consente di modificarli solo con la legislazione dello stesso rango, cioè con riforme dei codici medesimi, escludendo qualsiasi incursione della legislazione ordinaria e tanto meno della decretazione d’urgenza. La definizione dei Codici è argomento molto complesso e trova valutazioni di fattibilità più o meno positive tra i nostri costituzionalisti. Se si decidesse di introdurre questa fonte legislativa, si dovrebbero chiamare le migliori competenze giuridiche a elaborare soluzioni originali e realistiche. I Codici sarebbero l’anello di congiunzione tra i principi costituzionali e la legislazione ordinaria. Questa è andata fuori dal seminato proprio perché non ha avuto alcuna forma di contenimento, essendo molto deboli i controlli di costituzionalità sia preventivi sia successivi all’approvazione. La codificazione metterebbe ordine nella produzione normativa creando i grandi bastioni sui quali innalzare la qualità dell’architettura legislativa, ciò che per Mario Dogliani è “un obiettivo che immette nella forma di governo un elemento ’aristocratico’, ma di derivazione pienamente democratica”. I Codici dovrebbero tutelare le garanzie fondamentali indicando al legislatore sia ciò che non può decidere sia ciò che non può non decidere. Cioè le garanzie negative dei limiti posti alla legge allo scopo di tutelare i diritti di libertà e le garanzie positive dei “compiti della Repubblica” al fine di rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza (L. Ferrajoli, Dei diritti e delle garanzie, Il Mulino). L’attuazione della Costituzione diventerebbe così la priorità delle riforme istituzionali. L’aggiornamento della seconda parte andrebbe a esaltare il valore della prima parte, sgombrando il campo dalle ipocrisie di chi ha sempre cercato di stravolgere la seconda per intaccare i principi della prima, come accadde nella revisione del 2005.
La riforma del bicameralismo perfetto assume un senso logico e un’utilità nazionale solo se realizza una netta separazione di funzioni: il Senato tutela i diritti e le garanzie, la Camera si occupa del governo del Paese. Questa distinzione potrebbe fondarsi proprio sul nuovo strumento dei Codici che insieme alle leggi costituzionali sarebbero di competenza del Senato ancora in regime di bicameralismo, mentre alla Camera sarebbe affidata in esclusiva la legislazione ordinaria e l’iniziativa di attuazione del programma politico che è risultato vincente alle elezioni. In tal modo la distinzione di funzioni sarebbe ottenuta sul piano esclusivamente formale e astratto entro i limiti dei Codici e dei principi costituzionali. Si eviterebbero così le incongruenze che nascono quando in Costituzione si opera per riparto di materie e di contenuti, come dimostra la dottrina e anche la pratica (le aporie della legge del 2005 e, in altro contesto, quelle del Titolo V che ora si intende correggere). Dalla netta separazione discendono alcuni corollari importanti. Il voto di fiducia è di competenza solo della Camera e ciò stimola il Governo ad attuare il suo programma, ma senza poter intervenire con la decretazione sulle garanzie protette dai Codici. Il Senato, non avendo l’onere della governabilità, potrebbe essere composto con legge elettorale proporzionale, non essendoci motivo nel distorcere la rappresentanza con premi di maggioranza che anzi sarebbero in contrasto con le funzioni di garanzia. Ciò risolve alla radice il problema oggi tanto sentito della differenza politica tra i due rami, senza dover ricorrere a particolari accorgimenti della legge elettorale, ma solo perché i nuovi compiti del Senato non hanno bisogno di una maggioranza omogenea a quella della Camera. Le funzioni di controllo sarebbero affidate al Senato che potrebbe svolgerle più liberamente proprio perché svincolato dal voto di fiducia. E con l’occasione esse potrebbero essere rafforzate e precisate in diversi punti: valutazione della costituzionalità delle proposte di legge anche con accesso diretto alla Corte; valutazione delle politiche pubbliche al fine di fornire alla Camera indicazioni sui difetti e sui miglioramenti della legislazione vigente; poteri di indagine sull’amministrazione e di audizione dei manager di Stato, con strumenti severi di controllo come accade nel Senato americano quando vengono ascoltati i capi della Cia o della Nasa o di altre agenzie pubbliche. Il nuovo Senato sarebbe l’istituzione preposta all’innalzamento della qualità della legislazione. Avrebbe tutto l’interesse a sviluppare i Codici che rafforzano le sue competenze e aiuterebbe anche la Camera a occuparsi di alta legislazione sottraendosi all’attuale monopolio governativo della decretazione. Il bicameralismo non sarebbe più perfetto, guadagnerebbe una dialettica tra garanzie e governo che andrebbe a beneficio dell’autorevolezza del Parlamento. In tal modo la riforma del bicameralismo risponderebbe ad una reale esigenza del Paese liberandosi dalle tre domande sbagliate che hanno finora fuorviato il dibattito. Contro il plebeismo costituzionale il Senato diventerebbe a tutti gli effetti la Camera alta, come luogo della sovranità dei diritti e delle garanzie, come istituzione ispirata all’attuazione della Carta. Contro la peste normativa che sfianca lo Stato e la società promuoverebbe una produzione legislativa di alta qualità, regolando con maggiore efficacia e semplicità la vita nazionale. Contro il pericolo della frattura territoriale sarebbe un presidio dell’unità nazionale. La cura dei Codici delle istituzioni locali offrirebbe una garanzia nel riconoscimento delle autonomie ai sensi dell’articolo 5 della Costituzione. Alla Camera invece spetterebbe il compito di integrare le politiche pubbliche avvalendosi del contributo di una rinnovata Conferenza Stato-Regioni. La logica conseguenza è che il Senato delle garanzie non può essere legittimato con le nomine di secondo grado, ma soltanto con la fonte primaria del suffragio popolare.
Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *
Nome *
Email *
Sito web
Do il mio consenso affinché un cookie salvi i miei dati (nome, email, sito web) per il prossimo commento.