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C’è una data: il 7 giugno AVS, PD e M5S, hanno convocato una manifestazione nazionale per fermare il genocidio in corso a Gaza.

E c’è una piattaforma: la mozione parlamentare che le stesse forze hanno presentato in Parlamento e che ha impegni ben precisi e netti, a partire dalla sospensione dell’accordo UE-Israele e dal riconoscimento dello Stato di Palestina.

Si tratta di due importanti passi in avanti, utili anche a costruire elementi di cultura politica comuni fra le forze di opposizione che proprio sul terreno della politica estera hanno faticato non poco negli ultimi mesi.

All’obiettivo hanno contribuito certamente in maniera determinante le associazioni, le ONG e (pochi) giornalisti che quotidianamente hanno raccontato il dramma di Gaza, con parole e immagini che hanno squadernato la violenza sistematica del Governo israeliano.

Grazie al coraggio di pochi, lo svolgimento del genocidio a Gaza corre in diretta su Instagram, rimbalza sulle chat di Telegram, nonostante il tentativo di Israele e alleati di silenziare la stampa, sin dal primo giorno della brutale aggressione ai gazawi.

Se le immagini hanno assunto la dimensione della denuncia, le piattaforme su cui vengono mostrate sono oggi il tribunale che interroga la coscienza di chi guarda, soprattutto di chi fa politica.

Ma si badi, non c’è solo Gaza. il progetto genocidario di Israele si applica ogni giorno con forme di ingegneria della violenza nei territori palestinesi occupati (West Bank), dove l’attenzione internazionale non c’è.

Proprio dove non c’è la “guerra ufficiale” si scorgono con più chiarezza i tratti di un disegno più ampio, basato su apartheid e discriminazione e che ha il chiaro intento di eliminare una popolazione.

Una pulizia etnica che bisogna raccontare.

Ed è lì che come AVS abbiamo deciso di andare. La missione l’abbiamo chiamata “Occhi in Palestina”.

Guidati da Luisa Morgantini, con Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, siamo stati nei territori occupati, dal 26 aprile al 1° maggio, sfidando a volte il buon senso e a volte l’esercito israeliano, come durante la visita appena fuori dal campo profughi di Jenin, che il giorno prima era stata sgomberato e dove qualche giorno dopo la nostra ripartenza l’IDF ha aperto il fuoco sulle delegazioni delle ambasciate estere.

Gerusalemme, Hebron, Betlemme, Ramallah, i villaggi nella zona di Masafer Yatta e Jenin, per l’appunto: abbiamo trovato una autentica polveriera, di cui in occidente, nella politica e nell’opinione pubblica non c’è sufficiente consapevolezza, ma lì sì. Ne sono consapevoli innanzitutto i palestinesi che vivono nei territori occupati e da anni si propongono la non violenza come forma di lotta, ma che adesso sono preoccupati per la sempre più possibile esplosione della rabbia, soprattutto da parte delle giovani generazioni, che vedono soccombere la pratica non violenta sotto i bombardamenti indiscriminati, la fame, le torture.

Il messaggio ci è arrivato molto chiaramente nella sede dell’associazione Youth Against Settlment a Hebron. Lì dove da anni giovani palestinesi che vivono sotto l’occupazione militare si aiutano gli uni gli altri e sperimentano il continuare a vivere nelle proprie case come forma di resistenza non violenta. “Resistere per esistere” ripetono sempre, come un mantra che passa di generazione in generazione, dalla Nakba in poi.

Consapevoli che vivere prigionieri in casa propria, circondati da grate di ferro, per proteggersi dagli assalti dei coloni, e con una cisterna enorme su ogni tetto, per potersi garantire l’acqua che gli occupanti tagliano, sia oggi il più grosso ostacolo per la realizzazione degli intenti del governo israeliano.

Ma questa forma di resistenza non violenta che è il semplice sopravvivere in casa propria non sta portando i frutti sperati, alla prova di fatti che hanno il segno inconfondibile del genocidio e dell’apartheid, a Gaza come nei territori occupati.

“A cosa serve la non violenza se continuiamo a morire?” si dicono i più giovani.

La stessa resistenza alla cultura della morte e della violenza la fanno a Jenin, in quel che resta del Freedom Theatre, che è stato sgomberato e distrutto come tutto il campo profughi della cittadina. Ma il direttore del teatro, appena uscito da un carcere in cui era stato rinchiuso senza alcun capo d’accusa dopo il 7 ottobre, ha subito trasferito il teatro in un nuovo luogo, insieme agli altri volontari, dove provare a riproporre le attività di emancipazione, di educazione e di formazione che per anni hanno garantito un futuro diverso ai bambini del luogo.

“Il teatro è fondamentale perché possiamo perdere la battaglia militare”, ci diceva, “ma non quella culturale”.

Ma è sempre più complicato resistere. Perché come scrivevo più su, Israele sta mettendo sul campo una sorta di cinica e spietata ingegneria della violenza, non solo a Gaza: una serie di azioni coordinate e ben stabilite con cui rubare sempre più spazio nei territori palestinesi, costringendo i palestinesi a spostarsi, a lasciare la propria terra.

Se mai ci fosse stato qualche dubbio, i coloni non agiscono in forma autonoma. E i governi occidentali che elevano sanzioni ai coloni (quei pochi governi che lo fanno) usano la massima forma di ipocrisia, perché per questa via stigmatizzano l’occupazione ma non ne riconoscono il carattere strutturale e organizzato dallo Stato di Israele. Quindi sostanzialmente ne sono complici. Le sanzioni vanno fatte allo Stato di Israele.

Perché i coloni sono diventati a tutti gli effetti una sorta di organizzazione paramilitare, l’avanguardia dell’IDF, che si muove nei territori occupati in forma piratesca, occupando e consentendo così all’esercito di intervenire nei territori con maggiore facilità.

Questa sta accadendo oggi e si è intensificato dopo il 7 ottobre. Basti pensare che oggi i coloni sono quasi 1 milione e che si sono decuplicati in circa 20 anni.

In sostanza, ci sono i palestinesi, ma la Palestina quasi non c’è più. Ed è con tutto questo che tocca fare i conti, sin da subito e senza infingimenti.
E la piazza del 7 giugno è certamente un’occasione importante per dire parole chiare.

*Sinistra Italiana, Resp. Comunicazione e Politiche per il Mezzogiorno.

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