Il primo cambiamento dovrebbe riguardare proprio il linguaggio che usiamo. Per prima cosa abbiamo un disperato bisogno di smettere di usare formule tipo “capitalismo decente”, “capitalismo responsabile” o qualsiasi altra formula che coinvolge la parola “capitalismo”. La trappola ideologica di accettare la TINA (There Is No Alternative), rischia infatti di imprigionare la socialdemocrazia in un discorso di difesa sterile. Le parole sono importanti. Troppo spesso usiamo termini e criteri che si impongono ai nostri stessi processi di pensiero razionali critici, spingendoci a credere che abbiamo capito qualcosa che, in realtà, nell’essenziale ci sfugge. Così reagiamo emotivamente a parole come “capitalismo”, “socialismo”, “democrazia”, “terrorismo”, “fascismo” o “diritti umani”, molto prima che il nostro cervello abbia analizzato il contenuto storico e ideologico incorporato dietro a queste etichette, che facciamo valere solo sul piano linguistico-retorico. Così “capitalismo” non va usato come un termine neutro o positivo, per i socialdemocratici deve tornare a significare né più né meno che “territorio nemico”. Se i socialdemocratici cercano di qualificarsi (e oggi, a differenza del passato, avviene) come “quelli che migliorano il capitalismo”, è molto probabile che falliscano. Perché non cercare invece di riqualificare i socialdemocratici come “quelli che si impegnano a costruire e difendere una società democratica”? Ciò avrebbe il vantaggio di focalizzare nuovamente l’attenzione sul fatto che viviamo in società, non in economie, che la democrazia significa partecipazione o almeno diritto alla partecipazione, da parte di tutti, alla discussione e al processo di formazione della società in cui viviamo. Uno dei primi problemi da affrontare è quello per cui sia la globalizzazione, sia l’europeizzazione hanno, in effetti, indebolito il controllo politico sui mercati, privilegiando l’economia rispetto ai fattori sociali e politici. Questo non è un caso, un che di inevitabile o uno scherzo della storia, ma è il risultato di un insieme di scelte intenzionali, effettuate dagli attori politici (tra cui gli stessi socialdemocratici); vero questo però esso, come tutti i processi politici, può essere invertito o almeno riconsiderato. Un’alternativa al disastro attuale in Europa deve poi implicare anche una radicale riconsiderazione delle istituzioni che reggono l’UE.Il futuro della socialdemocrazia europea dipende infatti in larga misura dalla capacità di riaccendere l’entusiasmo pubblico per l’Europa, cosa questa che richiederà la coltivazione di un sapiente, appassionato ‘racconto’ in grado di riattivare l’attenzione del pubblico su tematiche spesso percepite come “noiose “o” irrilevanti “. Parlare di “capitalismo decente” può determinare una tale entusiasmo? A parte il fatto che parlare di “capitalismo decente” è intrinsecamente problematico, troppo limitante e infelice, è comunque evidente che, senza la base istituzionale per l’attuazione del quadro normativo, anche l’idea di “capitalismo decente”, per quanto moderato e “ragionevole”, risulta poco più di una chimera. Resta in ogni caso la domanda: che cosa è questo “capitalismo”? Il termine viene usato costantemente e da tutte le parti. Sia a destra che a sinistra ci si è limitati a dire che “il capitalismo è tutto quel che c’è”. Insomma il capitalismo, in una forma o nell’altra, è accettato come l’unico sistema economico vitale che ci sia. Ma se questa fosse una sciocchezza? Ad esempio Fred Block, professore di sociologia presso l’Università di Davis, ritiene giustamente che sia del tutto inutile parlare di capitalismo.Il capitalismo, un po’ come il suo rivale del 20° secolo, il comunismo, è un’utopia (o una distopia secondo molti di noi), che immagina una società basata su un mercato autoregolato. Il fatto che questo sistema sia causa di crisi e fallimenti, quando e dove i suoi ideologi hanno tentato di imporlo, ha finora impedito che si annunciasse il suo trionfo definitivo; la verità è che, come il suo rivale tanto screditato, il comunismo, il capitalismo non funziona in nessuna versione della realtà. Parte del problema deriva dal retaggio della mentalità della guerra fredda, per cui se allora c’erano solo due alternative e ora che il comunismo è crollato, ne viene che non abbiamo altra scelta che quella di tollerare il capitalismo, coltivando al più la speranza di una sua versione più umanizzata.La storia ci ha però insegnato che il sistema era sbagliato fin dall’inizio. Siamo nella trappola generata dai racconti opposti ma complementari di Karl Marx e Friedrich Hayeck; prigionieri della visione del mondo economicista presupposta da entrambi. La verità però è sempre stata più complessa di quanto la guerra tra queste due diametralmente opposte ideologie utopistiche suggerirebbe. Storicamente, lo spazio complesso che si colloca tra questi due estremi, nessuno dei quali è mai stato realizzato davvero, ha costituito l’habitat naturale della socialdemocrazia. I comunisti si sono sempre lamentati del fatto che gli sforzi riformisti dei socialdemocratici si risolvevano nel prolungamento della vita del capitalismo, ritardando il trionfo finale del socialismo; dal canto loro i liberali hanno sostenuto che le riforme socialdemocratiche distorcono le forze di mercato e in ultima analisi porterebbero al totalitarismo. Eppure nonostante tutte le denunce provenienti dalla visione del mondo economicistica, di sinistra come di destra, la socialdemocrazia ha comunque dimostrato di essere uno degli esperimenti politici di maggior successo della storia.
La domanda però è: la socialdemocrazia, invece che “capitalismo dal volto umano”, non dovrebbe consistere in una diversa ed autonoma organizzazione dell’economia? Che cosa succede se, anziché secondo Marx e Hayek, leggiamo il Novecento attraverso la lente di Karl Polanyi? Secondo Polanyi infatti, il capitalismo potrebbe essere inteso come il tentativo di imporre alla società un mercato autoregolato (tentativo, per inciso, destinato al fallimento secondo lo stesso Polanyi). La distruzione provocata da un simile tentativo, però, avrebbe comunque suscitato un contro-movimento difensivo, a mezzo del quale i vari gruppi sociali avrebbero cercato di proteggere i loro valori, le tradizioni e gli stili di vita, dagli effetti della mercificazione. Come socialista, Polanyi riteneva che la forma più alta che questa resistenza potrebbe assumere, era il socialismo, definito come “la tendenza insita in una civiltà industriale di trascendere il mercato auto-regolato, coscientemente subordinandolo ad una società democratica”. Abbiamo in questo modo un paradigma teorico su cui impostare una politica (in particolare democratica) alternativa all’ideologia economico-centrica del capitalismo. Il capitalismo, se scegliamo di usare ancora questo termine, può quindi essere visto come un tentativo antidemocratico di imporre la sovranità del capitale, attraverso una insidiosa subordinazione del processo di decisione politica alle forze di mercato. Invece il socialismo (anche qui se vogliamo ancora usare questo termine) può essere inteso come il tentativo di subordinare l’economia alla volontà democratica della società.Un presupposto questo che, secondo Polany, ha implicazioni radicali e potenzialmente permette ai socialdemocratici di riorganizzare il terreno su cui si fonda il discorso politico. Invece di rimanere intrappolati nel ruolo di coloro che cercano di addolcire la pillola ovvero il frutto amaro dell’austerità imposta dal mercato, i socialdemocratici dovrebbero sapersi riposizionare come la forza politica capace di favorire davvero il progresso e la diffusione della democrazia, non solo formale, in senso rappresentativo, ma come modalità di vita, capace di permeare la società a tutti i livelli. Per questo però la socialdemocrazia deve essere capace di rinnovare il proprio pensiero e il proprio vocabolario, trovare argomentazioni che gli permettano di riprendere l’iniziativa, tornando a mettere i suoi rivali neo-liberali sulla difensiva. Qualcosa del genere sembra di nuovo alle viste. Martin Schulz, per esempio, che si spera sarà il prossimo Presidente della UE, in larga misura incarna la visione della socialdemocrazia qui tratteggiata; basti vedere le sue osservazioni e i suoi discorsi, da cui emerge il profilo di un appassionato e tenace combattente per la giustizia sociale. I socialdemocratici devono essere coerenti con il loro nome ed impegnarsi per una vera socializzazione della democrazia. Questo significa nuove istituzioni e significa essere pronti a lottare, con passione e convinzione, per un nuovo tipo di società. Senza necessariamente scadere in utopie ideologiche, ma piuttosto preferendo quella che alcuni socialdemocratici hanno cominciato a chiamare “buona società”. Questi alcuni dei termini con cui provare a riassumere gli obiettivi di una aggiornata socialdemocrazia. I socialdemocratici sono sempre stati riformisti. Per la socialdemocrazia non si tratta di rovesciare le strutture esistenti con un atto violento di rivoluzione. Ma questo non significa che i socialdemocratici non siano radicali. Al suo interno infatti la socialdemocrazia ha sempre coltivato un profondo potenziale trasformativo, non in senso utopistico, ma in vista appunto di una “buona società”, dove cioè gli individui siano liberi, sostenuti da ben sviluppate strutture sociali, politiche ed economiche, democratiche e trasparenti. Una società atta a sviluppare il pieno potenziale di ogni persona, in cui ognuno gode di parità di diritti, opportunità e standard di vita e nessuno è soggetto a sfruttamento, discriminazione o intolleranza, per qualsiasi motivo economico, sociale o politico. Un tale ideale è davvero così utopico? Considerato quanto in passato il movimento socialista è stato capace di grandi conquiste e successi, non c’è davvero di che essere pessimisti; certo i tempi in cui viviamo mettono al bando ogni audacia, privilegiano la visione “business-as-usual” o una appena migliore di essa; ma proprio per questo occorre cambiare il nostro modo di pensare e riflettere, ma anche il modo di parlare. Smettiamola di difendere il “capitalismo” e riprendiamo a parlare di più di democrazia. Anzi andiamo oltre e smettiamo anche di parlare di “economia di mercato”.Se è vero infatti che i socialdemocratici quasi dappertutto hanno riconosciuto l’utilità dei mercati, però i mercati vanno tenuti entro precisi limiti. C’è una differenza sottile, ma importante, tra una “economia di mercato” e “un’economia che utilizza i mercati”. All’interno del nostro movimento ci deve essere una discussione più incisiva sui diritti di quanti devono essere protetti dalle forze di mercato in nome dei valori di equità, uguaglianza e partecipazione. Dopo aver riconosciuto l’importanza della politica e la necessità di promuovere e rafforzare la democrazia, i socialdemocratici dovranno inoltre impegnarsi in un programma forte, strategico di riforma delle istituzioni europee, al fine di creare strutture capaci di favorire i cambiamenti in senso socialdemocratico della politica economia continentale. In fatto di programmazione, all’interno del nostro movimento stanno venendo fuori idee innovative, insieme ad eccellenti misure concrete per costruire una diversa politica economica. C’è motivo di ottimismo, anche se sempre senza sottovalutare le sfide. Quando persino il Papa si mostra capace di denunciare i mali del capitalismo, è imbarazzante che il movimento socialista si mostri timoroso di farlo. I mercati liberi portano a persone meno libere e alla rovina della natura. E noi invece di preoccuparci di una crisi ambientale incombente, troppo spesso perdiamo tempo con questioni di lana caprina sul destino dell’Euro; sembriamo i due sciocchi che si litigano la poltrona più comoda sul ponte del Titanic. Cominciamo a rivedere i nostri obiettivi e le ipotesi economiche e a riconoscere che l’ideologia capitalista della crescita infinita, va contro la logica della natura e la sua imposizione di limiti allo sviluppo. La sostenibilità deve essere più di uno slogan; i socialdemocratici devono mostrarsi pronti ad esplorare coraggiosamente nuove strade e nuove realizzazioni. Per fare questo ci vorrà ben altro che soluzioni improvvisate e palliativi. Dobbiamo inoltre respingere con forza l’idea assurda e di “senso comune” secondo la quale il capitalismo sarebbe “libertà”, mentre il socialismo (o la socialdemocrazia) “inibisce la libertà a favore dell’uguaglianza”. Basta un minimo di riflessione per rendersi conto che la vera libertà è totalmente dipendente da un significativo grado di uguaglianza, proprio come l’uguaglianza è alla base della libertà.Su questo punto basti dire che la libertà senza uguaglianza si risolve in una menzogna grottesca, equivalente alla sottile osservazione di Émile Zola secondo la quale la legge vieta indifferentemente ai ricchi e ai poveri di dormire sotto i ponti. Solo che poi sotto i ponti ci vanno i poveri. Senza uguaglianza, non vi è alcuna possibilità di esercitare realmente le libertà formali. Allo stesso modo, l’uguaglianza senza libertà può sempre e solo assomigliare alla parità dei detenuti, che si somigliano l’un l’altro nella miseria della loro condizione. Eppure, in una prigione (o in uno stato di tipo sovietico), questa “uguaglianza” deve essere messa in pratica a mezzo di tutori o commissari che hanno autorizzati a farlo; sicché non ci può mai essere vera uguaglianza per tutti. La vera uguaglianza può emergere solo in condizioni di libertà, così come la libertà può essere significativamente goduta dal singolo solo quando è disponibile per tutti.La socialdemocrazia è forse l’unica tradizione politica che può vantare una storia di conquiste insieme di libertà e di uguaglianza, parti indissolubili dei suoi valori fondamentali. Il qualsiasi possibile futuro successo della socialdemocrazia dipenderà quindi dal modo in cui si impareremo a parlare al cuore e all’immaginazione umana. Una volta i socialisti erano famosi come sognatori e cantastorie, piuttosto che come politici secchioni e spin-doctors. È arrivato il momento di riapprendere l’arte di ispirare fiducia attraverso una narrazione politica capace di catturare l’immaginazione del pubblico; se non altro perché quella storia era basata sui migliori, sui più bei valori dell’umanità. Questi possono ancora adesso essere riassunti nel vecchio slogan rivoluzionario francese: “libertà, uguaglianza e fraternità”. (Schayn McCallum, australiano, insegna presso l’Università di Istanbul.)
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