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Il piccolo aereo decolla dalla base militare islandese di Keflavik puntando verso ovest. Dopo un’ora di volo la Groenlandia non è ancora avvistabile, ma si fa preannunciare da schiere di iceberg in viaggio verso il loro cimitero atlantico. Quando finalmente appare la costa – una imponente serie di alture rocciose e di ghiacciai aperti sul mare – ci chiediamo con apprensione dove mai potremo atterrare. Solo il bravo pilota danese sa scovare il lembo di terra che consente un atterraggio non letale. Su quella specie di pista ci dà il benvenuto il sindaco di Angmassalik, villaggio di 3.000 inuit di cui nessun europeo conosceva l’esistenza fino al 1884. Ora si chiama Tasiilaq. Arrivati al villaggio, si presentano i due simpatici eschimesi (guai a chiamarli così) con cui navigheremo per tre settimane verso nord cacciando e pescando assieme a loro. La loro barca è modesta, ma robusta e capiente abbastanza da ospitare foche, salmoni o anche orsi polari. La Danimarca sostenta chi vive di sola cacciagione acquistando ogni pelle d’orso per 500 dollari.

Quanto sopra non accadeva ieri, bensì a fine luglio del 1970. Poche settimane prima si era tenuto all’EUR il Consiglio Atlantico della NATO, la cui organizzazione era stata affidata all’ambasciatore Giorgio Giacomelli coadiuvato dal sottoscritto. Si prevedevano violente manifestazioni contro un evento che avrebbe portato a Roma anche i ministri della Difesa di Grecia e Portogallo, non proprio democratici. Che fare? Fingendoci desolati, li costringemmo – per motivi di sicurezza – a restare chiusi nelle rispettive ambasciate (a parte le sessioni di lavoro all’EUR), mentre le altre delegazioni si godevano una “vacanza romana” extra. Tutto ciò aveva suscitato l’apprezzamento di un alto funzionario danese reduce dalla Groenlandia. Notando la nostra viva curiosità, si offrì di organizzare per Giorgio e me un’esperienza rara: seguire una battuta di caccia e pesca con gli inuit lungo l’impervia costa orientale.

Fu così che avemmo la fortuna di capire qualcosa di più della loro cultura. A cominciare dalla questione alcolica. In effetti, la vigilia della partenza avevamo imbarcato viveri in abbondanza e due casse di birra. Ma durante la notte i nostri due cacciatori si erano scolati un’intera cassa di birra e dovemmo aspettare un giorno prima che smaltissero la sbornia. Finalmente partimmo e per il resto del viaggio non toccarono più una goccia d’alcol, anche perché – oltre a cacciare e pescare – dovevano stare ben attenti a schivare gli iceberg, piccoli o grandi che fossero, alcuni colossali come il Duomo di Milano (a cui assomigliavano pure, con l’unica differenza che il Duomo di Milano non può capovolgersi all’improvviso).

Dal 1953 la Groenlandia non era più una colonia: faceva parte integrante del Regno di Danimarca e nel 1979 acquisì una vera autonomia, con un mini-parlamento di 31 membri votati dai 56.000 cittadini groenlandesi. Al tempo del nostro viaggio nessun inuit avrebbe scelto la secessione: l’economia locale dipendeva troppo dai sussidi danesi. Durante la guerra gli Stati Uniti avevano occupato i punti strategici dell’isola per impedire che lo facesse il nemico; e dopo la guerra si offrirono di acquistarla, ricevendo da Copenaghen un netto rifiuto. Però le basi americane non vennero smantellate, tutt’altro: a noi fu permesso di visitarne una, annidata tra gli anfratti della costa orientale. L’isola più vasta del mondo gode di una posizione invidiabile per controllare le rotte artiche, sempre più frequentate, e fungere eventualmente da antemurale contro Russia e Cina.

Tuttavia, il fatto che la Groenlandia stia nella NATO non basta a tranquillizzare Donald Trump, se a dicembre – prima ancora di rientrare alla Casa Bianca – si è sentito in dovere di scrivere: “Ai fini della sicurezza nazionale e della libertà nel mondo, gli Stati Uniti ritengono che la proprietà e il controllo della Groenlandia siano un’assoluta necessità”. Una frase del genere non ricorda qualche precedente? A me vengono in mente le giustificazioni di Hitler per impadronirsi dei Sudeti e della Polonia.

Pare che Trump ignorasse la proiezione di Mercatore, che “ingrassa” la Groenlandia oltremisura per far entrare l’intero globo su una mappa. Ma se ne è fatto una ragione: l’isola è comunque vasta abbastanza da contenere quantità sterminate di idrocarburi, ferro, rame, nickel, cobalto e terre rare. Un bendidio mai sfruttato. La grande maggioranza degli inuit si dichiara favorevole all’indipendenza e contraria allo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali. Eppure, ciò non ha impedito a Donald Junior, il 7 gennaio, di fare una strana capatina a Nuuk, la capitale: unico turista in tutto il mese, probabilmente. Suo padre ha lodato l’iniziativa postando a lettere cubitali “MAKE GREENLAND GREAT AGAIN”. Tanto entusiasmo da parte del presidente non significa che intenda invaderla, come accadde a Panama, Haiti o Grenada; glielo impedirebbe il Congresso. Basterà, invece, che presenti un’offerta irresistibile: distribuire un milione di dollari a ciascuno dei 56.000 groenlandesi. Provvederà Elon Musk di tasca sua.

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