Foto di Mika Aarensberg da Pixabay
Il Mugello ha una storia particolare: da una parte avrebbe le caratteristiche delle cosiddette “zone interne” (ossia zone di montagna isolate); dall’altra è al centro della dorsale appenninica unendo geograficamente Firenze e Bologna. Il neoliberismo “estrattivo” ha provato, con la diffusione degli Outlet a partire dalla metà dei novanta, a “mettere a valore” le zone limitrofe alle autostrade. Fra questa, lungo quella del Sole, sorge il Barberino Designer Outlet.
Un gruppo variegato di persone impegnate in politica a sinistra denominatesi Ora! ha condotto un’inchiesta sui lavoratori dell’Outlet. Abbiamo posto alcune domande a Simona Baldanzi, scrittrice, una delle promotrici di Ora!
Come e quando nasce l’outlet di Barberino?
L’Outlet nasce all’alba della crisi industriale del tessile con la chiusura della produzione dei famosi jeans Rifle, ditta che a Barberino ha impiegato fino a circa 500 operaie. Nell’accordo ministeriale che riguardava circa 300 lavoratrici, oltre agli ammortizzatori e alla buona uscita si prevedeva di reintegrare 60 donne nel futuro outlet, poiché quota parte della McArthur (il centro direzionale dell’outlet) era della famiglia Fratini, datori di lavoro Rifle. L’outlet ha poi aperto nel 2006 e nel frattempo le ex operaie Rifle reintegrate sono state solo una dozzina e per lo più come addette alla pulizia del centro commerciale. Una volta la Rifle era l’azienda più grande del Mugello. Adesso è l’outlet il luogo di lavoro più popoloso con quasi un migliaio di lavoratori.
La vostra analisi è stata condotta a gennaio e febbraio. Come il COVID ha cambiato il volto dell’outlet?
Pur constatando un notevole calo delle presenze, i negozi sono rimasti aperti fino all’obbligo di legge del lockdown. Alla riapertura non tutti i negozi sono stati in grado subito di riaprire i battenti: un po’ per le difficoltà dovute ai mesi di chiusura, un po’ per ricontrattare le condizioni degli affitti con la direzione. Ogni negozio è un mondo a parte e anche le misure di prevenzione e protezione sono state affidate più ai singoli. Manca da sempre un lavoro congiunto sul sito e quindi è mancato anche un protocollo anti-contagio condiviso. Gli assembramenti si sono verificati anche poco dopo le riaperture e si registra ormai un calo dell’attenzione generale. Il controllo rischia di cadere sulle spalle di lavoratori e lavoratrici, che oltre allo stress e alle condizioni di lavoro, devono diventare i cani da guardia di mascherine, gel igienizzanti e non mantenimento delle distanze. In termini occupazionali sarà tutto da verificare. Purtroppo, però bisognerebbe avere i dati per confrontarli e capire come agire: da anni era previsto un osservatorio sul lavoro. Anche con questa ricerca ci siamo resi conto che, nonostante il centro sia aperto da 13 anni, il comune non ha nessun dato.
C’è sempre un’inerzia a raccontarsi. Come avete “vinto” la ritrosia a esprimersi?
Non potevamo fare una ricerca con questionari da consegnare a mano. L’outlet non ha cancelli come le fabbriche dove proporre all’ingresso un lavoro di questo tipo. Non si possono fare volantinaggi nei vialetti o nei negozi e neppure nei parcheggi. Così ci siamo inventati una campagna social “Coming outlet” provocando con slogan commerciali ribaltati sulle condizioni di lavoro e cercando di sollecitare la forza a lavoro a rispondere in forma completamente anonima ad un questionario online che però poteva essere compilato soltanto una volta. Abbiamo inviato il link sui vari gruppi presenti in rete e su chat di lavoratori, aiutati dal fatto che nel paese chiunque conosce qualcuno che lavora in Outlet e il tam tam ha fatto il resto. Ci siamo stupiti che siano stati in molti a dare risposte alle domande aperte, questo significa che raccontare è ancora necessario.
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