Se è vero che la storia di un partito è solo la ricostruzione da un punto di vista monografico della più generale storia di una nazione, allora la parabola del PD è la rappresentazione di un declino triste che chiama in causa anche una crisi complessiva delle culture, dei soggetti, delle istituzioni dell’Italia contemporanea.
Se la Bolognina ha decostruito una lunga tradizione popolare e di classe disperdendo in un attimo simboli, miti, organizzazioni collettive sino a favorire l’ascesa del nuovismo berlusconiano, il Lingotto ha reciso le poche tracce di rosso rimaste creando un deserto di valori e un vuoto di radicamento sociale che hanno scatenato il populismo capace di attecchire ovunque con il linguaggio dell’antipolitica.
Questi due fallimenti dei nuovi inizi, che hanno scandito la infelice storia conclusiva dei comunisti italiani, hanno alimentato i gravi processi degenerativi culminati nell’attuale stagione che vede al potere gli esponenti impresentabili di un fascismo formalmente democratico. Il nuovismo, accarezzato dalla sinistra americanizzata perché rimasta senza un pensiero autonomo sulle cose del mondo, ha portato al potere il vecchissimo, che trionfa con i simboli di Salò accesi a Palazzo Chigi e a Palazzo Madama.
Marx riteneva salutare il sentimento di vergogna in politica per recuperare energie e lanciare la sfida con nuove energie. Ecco, un costruttivo sentimento di vergogna, nell’aver consegnato il potere a Donzelli e camerati affini, dovrebbe coinvolgere le classi dirigenti della sinistra, per riprendere dall’umiliazione una qualche funzione politica.
Tutte le sigle, non solo il PD, hanno perso. Il tonfo riguarda anche le esperienze che hanno fallito nella impresa, pur possibile, di ricostruire una forte soggettività di sinistra “radicale”. E non fanno eccezione coloro che, confluendo nella coalizione di Donatella Bianchi, credono, una volta consegnata la Pisana ai fasci, di recuperare le forze antagoniste perdute e tornare a guidare il processo storico del cambiamento. L’euforia delle piccole classi dirigenti, che gestiscono le operazioni dei veti incrociati che maturano nel segno della estetica della bella sconfitta, rivela quanto arduo sia il cammino della ricostruzione del soggetto.
Il congresso del PD dovrebbe anzitutto parlare alla società italiana della funzione storica della sinistra nella crisi dell’ordinamento repubblicano che è caduto sotto scacco per una carenza profonda di pensiero politico. Fa piacere il recupero di una ottica critica del neoliberismo, ma accapigliarsi per una questione che andava gestita almeno vent’anni fa è surreale. Quando sull’Unità nel 2002 uscì un articolo al vetriolo contro il “riformismo” dell’economista Nicola Rossi (oggi cantore di Giorgia Meloni e allora uomo forte del PDS a Palazzo Chigi), il direttore Antonio Padellaro non fece più scrivere l’autore per oltre un anno. E comunque, come avviso ai naviganti, oggi la borghesia adotta un paradigma più protezionista che liberista in senso stretto, torna a un capitalismo politico.
Un partito degno del nome non dovrebbe mai affidare l’elezione del suo leader ai passanti per caso o al militante ignoto che dal divano di casa clicca la preferenza per un nome. Se la politica è “voce”, il PD esclude per definizione la presenza, la parola, il confronto, la polemica. La follia delle primarie lo induce a eleggere direttamente un capo che dopo pochi mesi è già trafitto per la mancata vittoria alle urne. Si avvicinano a 10 i segretari già espressi da un partito che ha compiuto solo 15 anni. Non si contano i segretari usciti dal partito e già dimenticati o che sono al comando di altre sigle elettorali.
Questa volta, a cimentarsi nel talent politico chiamato impropriamente congresso, sono l’ex segretaria DC di Piacenza, una liberale molto di sinistra, e due ex comunisti. Stefano Bonaccini incarna l’anima moderata e riformista del buon governo rosso emiliano. Di buono, nella sua campagna congressuale, c’è che non ha imitato le stucchevoli amnesie di Walter Veltroni (o il rivelatore rifiuto di Elly Schlein di pronunciare qualche sillaba sul valore culturale della tradizione dei comunisti). Ha rivendicato con fierezza il romanzo famigliare con la sua militanza nel PCI rimarcandone la grande funzione storico-costituzionale-emancipatrice.
L’accusa di essere solo il cavallo di Troia del renzismo è priva di consistenza politica. Che forse l’ideologo Goffredo Bettini non è stato un disciplinato seguace del fiorentino? E Nicola Zingaretti? E Andrea Orlando, il fresco nemico dell’ordoliberismo, non è stato zitto e buono sotto il comando assoluto del rottamatore? Per non parlare dei giornalisti alla Damilano, che esigono prove di immunizzazione antirenziana, ma sono stati gli acritici laudatori del nuovismo leaderistico del rottamatore. Sono altri i limiti di Bonaccini (su tutti la prevalenza del profilo del grande amministratore su quello della leadership politico-organizzativa) e tra quelli in lizza solo Gianni Cuperlo potrebbe emendarli.
L’ultimo segretario dei giovani comunisti ha infatti conservato una finezza intellettuale, e anche un tratto di purezza ideologica per così dire, che lo rende felicemente inattuale nel decadimento della politica italiana, che affoga nella volgare chiacchiera della comunicazione. L’elegante e riflessivo Cuperlo, che ha frequentato i luoghi del potere senza perdersi nelle scorciatoie delle manovre che conducono diritti al cinismo, che ha lavorato con i leader post-berlingueriani senza assorbirne le fobie e lo sviamento nell’arroganza che sconfina nel caporalismo (come lo chiamava Gramsci), è la più forte personalità di cui il PD dispone.
Segno dei tempi della perdizione politica che avanza senza argini è che proprio una parte del suo mondo, da Livia Turco al gestore degli eroici cimeli rossi Ugo Sposetti, da Orlando ai bersaniani, hanno accantonato questa ultima bandiera preferendo avviarsi lungo sentieri già interrotti e cavalcare l’ennesima versione del nuovismo. Un po’ Matteo Renzi (carriera celere sulla scia di Pippo Civati, che nasce per gemmazione dalla Leopolda, e costruita sui miti antipolitici della rottamazione-occupazione del proprio quartier generale) e un po’ Veltroni (maschere della sinistra dei valori in salsa americana, con il culto dei diritti civili e delle libertà soggettive), Schlein, con formule e simbologie più radical, conduce a compimento il mito distruttivo del partito leggerissimo, senza ideologia, tradizione, visione storica, scalabile nella leadership senza neppure avere la tessera.
La mancanza di un modello di partito, la debolezza del confronto delle idee e la suggestione di segno nuovista, scambiata per un recupero di radicalità, rischiano di fare del cosiddetto congresso del PD un’altra occasione mancata. Senza un’ideologia, senza una classe, un partito è solo una macchina che ha nel mondo un oggetto scolorito da amministrare per gestire piccole carriere. Persino l’estetica della sconfitta può servire per intrufolarsi nelle agognate rappresentanze.
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