Il 1941 era iniziato da poco quando Spinelli, Rossi e Colorni misero mano al manifesto di Ventotene.
Ernesto Rossi era stato allievo di Luigi Einaudi ed era riuscito a ricevere nell’isola del confino un paio di volumi sul “federalismo inglese”. Per il piccolo gruppo essi costituirono una vera e propria rivelazione a conferma del fatto che le idee, a volte, si dimostrano più efficaci delle armi.
Tanto per contestualizzare gli eventi: nello stesso anno la Bulgaria si univa all’Asse e, insieme a Italia, Germania e Ungheria, smembravano la Jugoslavia che si arrese il 17 Aprile di quell’anno. In seguito, Germania e Bulgaria andarono in appoggio alle truppe italiane impegnate a “spezzare le reni” alla Grecia la cui resistenza venne vinta nel giugno 1941. Contemporaneamente i capi del movimento terrorista USTASCIA proclamavano lo stato indipendente di Croazia comprendente la Bosnia-Erzegovina, immediatamente riconosciuto da Germania e Italia; nello stesso giugno, la Croazia si aggiunse all’Asse. La Germania iniziava l’invasione dell’URSS da tre fronti: a nord, travolgendo gli Stati Baltici, cinse d’assedio Leningrado, il più lungo assedio della storia dopo Sarajevo; al centro, dopo aver conquistato Smolensk, avanzarono verso Mosca; a sud, i tedeschi conquistavano Kiev, qui, aiutate dai collaborazionisti locali, le truppe tedesche compirono il massacro di Babij Jan: 33.771 ebrei sterminati nei primi tre giorni, nei giorni seguenti tra 100.000 e 150.000 esecuzioni di ebrei, prigionieri russi, persone appartenenti alle etnie rom e sinti, mentre l’avanzata nazista veniva fermata alla periferia di Mosca. Il 7 dicembre il Giappone bombardava Pearl Harbour, il giorno dopo gli USA dichiaravano guerra al Giappone, a loro volta, i tedeschi dichiaravano guerra agli Stati Uniti.
A quel punto la guerra si poteva dire mondiale.
Tra l’invasione all’URSS e il bombardamento di Pearl Harbour, il Manifesto vedeva la luce. In questo cupo contesto, quel gruppo di visionari, riuscì a concepire un progetto capace di andare oltre l’odio, con l’intento di riappacificare popoli e nazioni, responsabili di due Guerre Mondiali. Un progetto coraggioso, che non si fondasse sull’umiliazione e sulla vendetta ma, sulla integrazione economica e politica: gli Stati Uniti d’Europa. Quando lo pensarono, la sconfitta di Hitler non era neanche prevedibile, al contrario, era il momento in cui appariva invincibile e ciò rende il loro testo perfino profetico.
Noi, vissuti dopo il 1945, non possiamo che rinnovarne la memoria e coltivare immensa gratitudine per questi 75 anni di relativa pace in Europa, allo stesso tempo dobbiamo chiederci cosa abbiamo fatto di questo importante lascito. Oggi dovremmo riprendere quella ispirazione, comprendere le ragioni dei fallimenti che hanno portato alla guerra, analizzarne le cause, prospettare nuove soluzioni.
Questo esercizio, oggi, è molto difficile, quello che si chiede è di schierarsi e di crogiolarsi in questo eterno presente che lascia alla guerra e alla violenza dettare le regole e gli sviluppi di questa situazione, costi quel che costi, mettendo in conto anche l’uso di armi distruttive.
Se il nostro terzetto si fosse limitato a dare torti e ragioni, e ne avevano ben donde visto che il fascismo gli aveva distrutto la vita, e non avesse fatto quel salto di creatività politica che l’umanità, a volte, ha dimostrato di saper fare.
Ad esempio, dire che l’umiliazione inflitta alla Germania dopo la Prima Guerra Mondiale, fu tra le cause del nazionalismo e del nazismo che, con il consenso popolare, preparò la terrificante “rivincita”, vuol dire giustificare Hitler? No, vuol dire ragionare, tant’è che l’uscita dalla seconda Guerra mondiale fu molto diversa dalla prima e dette alla Germania la possibilità di reinserirsi nel contesto europeo.
Oggi, insieme alla condanna per l’invasione dell’Ucraina e per le conseguenze colpevoli della orribile guerra scatenata da Putin possiamo ragionare sul futuro del nostro Continente o dobbiamo rassegnarci alla “guerra perpetua” come alcuni già fanno?
Insieme ai federalisti, abbiamo altri cui ispirarci, a cominciare da Gorbacev, verso cui abbiamo un grande debito di riconoscenza per aver consentito uno dei più grandi sconvolgimenti geo-politici senza alcun spargimento di sangue.
Il suo pensiero è stato archiviato e il trattamento che gli ha riservato Putin non è molto diverso da quello di molti intellettuali e politici europei che lo descrivono come un ingenuo, nel migliore dei casi, o come un imbecille. Egli, nel 1989 nel suo discorso di fronte all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, aveva parlato di una “Casa Comune Europea”. Si trattava di capire come realizzarla e, nello stesso anno, Francois Mitterrand parlò di una Confederazione europea capace di riunire le tre culture continentali: quella Slava, quella Greco-Romana e quella Anglosassone.
Andato via Gorbacev la dissoluzione dell’URSS ha preso un’altra strada e cioè quella della Federazione Russa, da una parte e, dall’altra i Paesi membri dell’ex Patto di Varsavia, guardavano alla NATO e all’Unione Europea come prospettiva. La proposta di Mitterrand, all’epoca, aveva il difetto di proporre a Paesi i quali, loro malgrado, erano stati costretti a una alleanza forzata, di tornare a una relazione, sia pure “confederale” ma pur sempre legata alle stesse relazioni geopolitiche. L’autocritica se mai da farci come europei è il tempo trascorso tra la caduta del Muro e il loro ingresso nell’Unione che è avvenuto molto dopo l’ingresso degli stessi nella Nato.
Allora come oggi la Nato si dimostra un “soggetto” decisivo, ben oltre il ruolo di una alleanza militare difensiva e questo, anche per responsabilità degli europei.
Oggi, questi discorsi andrebbero ripresi anche alla luce della storia recente e a una riflessione critica sul passato. Prendiamo la tragedia della ex Jugoslavia e chiediamoci se al momento della dichiarazione di indipendenza di Croazia e Slovenia l’Europa avesse rassicurato tutti i soggetti in conflitto sulla prospettiva dell’ingresso nell’Unione Europea, non avremmo, forse, potuto evitare quella tragedia?
Un altro piccolo esempio è la Cecoslovacchia che, nella prospettiva dell’integrazione europea, ha potuto accettare la divisione in due Repubbliche. Oggi, Slovenia e Croazia sono nell’Unione, Macedonia del Nord e Serbia sono candidati, insieme ad Albania e Turchia la quale, nonostante tutto, rimane un Paese candidato.
Se c’è un successo che l’Unione Europea può vantare è proprio quello della sua capacità di integrazione e, quindi, di pacificazione, non certo quello della tempestività poiché, essendo prevalentemente una Unione economica e di mercato impiega decenni a integrare le economie dei Paesi candidati.
Tra le tante cose da fare, ci sarebbe da ribaltare questo processo e cominciare dalla Politica, dalle Costituzioni e dalle Istituzioni capaci di garantire solidi progressi verso “lo Stato di diritto” curando particolarmente le riforme necessarie per raggiungere livelli soddisfacenti e irreversibili, solo dopo, con i Paesi già membri politici dell’Unione, si dovrebbero perfezionare gli infiniti dossier del mercato interno.
Ciò consentirebbe di porre maggiore attenzione alle libertà fondamentali, all’autonomia della stampa, all’indipendenza della Magistratura ecc… E, soprattutto, dare alle prime il valore che meritano rispetto alle seconde. In questa ipotesi i Paesi non dovranno aspettare davanti alla porta il completamento del processo di adesione, al contrario, potranno partecipare alle decisioni compatibili con il loro grado di integrazione.
Tutto questo per dire che, soprattutto nei momenti più drammatici, non possiamo rimanere intrappolati in un eterno presente, pensando che le situazioni siano immutabili.
In questo spirito, una proposta verso la Russia potrebbe iniziare da una nuova Conferenza di pace e di sicurezza del tipo Helsinky-2, da molte parti invocata, essa, potrebbe anche ottenere verso il mondo russo un effetto molto più dirompente della continuazione della guerra e, perfino, mettere in crisi il sistema di potere “putiniano” che si nutre e si rafforza con la guerra.
Non è possibile prevedere oggi i dettagli di un futuro assetto del continente europeo, quello che è certo è che, da una parte, l’attuale Unione europea, o parte di essa, deve compiere un salto politico verso una vera federazione e che i confini con la Russia sono un dato geografico e potrebbero divenire perfino più estesi e diretti. Abbiamo imparato – anche dalle recenti fallimentari imprese in Iraq, Afghanistan, Libia, Siria – che non basta la caduta dei despoti e neanche processi elettorali in sé ad assicurare veri processi democratici.
L’evoluzione interna alla federazione Russa, potrà essere promettente solo se nascerà in un clima di riavvicinamento dei nostri popoli e delle diverse culture e da forme istituzionali condivise; non sarà né una sconfitta bellica e neanche la mano di un sicario a favorirla. Prima di ogni cosa, la Russia deve cessare l’occupazione e la comunità internazionale, a cominciare dall’ONU, nell’immediato, deve avere questo come obiettivo principale.
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