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Finalmente una piazza grande per Gaza il 7 giugno. E un’altra contro il genocidio, la guerra e il riarmo europeo il 21. Non c’è che da esserne felici. La convocazione del centrosinistra per la piazza del 7 è stata tardiva? Sì, ma tardi è meglio che mai e recriminare non serve a niente. È deprimente che i cosiddetti moderati alla Renzi, Calenda & Co manifestino a parte la propria equidistanza dal Governo israeliano e da Hamas? Sì, ma è confortante che AVS, PD e M5S abbiano tenuto ferma la propria piattaforma e che le loro componenti più attive e più allarmate per la sciagurata ed efferata politica di Benjamin Netanyahu, AVS in primo luogo, abbiano prevalso su quelle più pigre o più scettiche. C’è il rischio che la manifestazione di sabato depotenzi quella del 21, convocata in precedenza da Stop Rearm Europe? Al contrario, bisogna fare di tutto perché i due appuntamenti si potenzino a vicenda e perché fra le due piazze – e le due piattaforme, giacché manifestare contro il riarmo europeo è altrettanto urgente che manifestare per Gaza – ci sia il massimo scorrimento possibile.

Un diffuso e inaccettabile cinismo predica ogni giorno in televisione e nei giornali mainstream che niente e nessuno, salvo Donald Trump che non ne ha alcuna intenzione, può fermare Netanyahu, e che dunque manifestare non serve a niente. È falso, ed è un modo per non fare quello che invece andrebbe fatto.

La politica dello sterminio del Governo israeliano è la quintessenza del razzismo e del sadismo che anima e alimenta le destre in tutto l’Occidente. Non è in continuità con la causa ebraica novecentesca, ma ne è il rovesciamento autolesionista. Ed è il laboratorio di un futuro possibile da scongiurare con tutti i mezzi e per ogni dove, fatto di ossessione identitaria, pulizia etnica, deportazioni, remigration, controllo e sorveglianza “intelligenti” sulla popolazione, annichilimento dell’informazione. Un laboratorio che si avvale non solo dell’indifferenza, ma, peggio, del godimento dell’orrore di quanti da mesi e mesi ne guardano gli scorci che filtrano sui social e in tv senza alzare un sopracciglio, se non compiacendosene.

Questa fabbrica dell’orrore va fatta saltare, e questo godimento dell’orrore va spezzato. Ne va dei palestinesi, della loro sopravvivenza, della loro resistenza. Ma ne va anche di noi, e non solo perché la storia ci chiederà prima o poi dov’eravamo, ma perché da troppo tempo Gaza si è installata come l’ombra incombente di un lutto permanente sulle nostre coscienze, sul nostro inconscio, sulla nostra gioia di vivere, sulla nostra possibilità di essere felici. Da troppo tempo stiamo male, per Gaza. E per troppo tempo questo malessere è stato censurato, tacitato, reso incomunicabile, affinché il lutto non lo si potesse nemmeno elaborare collettivamente e non potesse sfociare in pratiche di condivisione, protesta e ribellione.

A poco a poco, e mentre già gli studenti delle università americane ed europee pagavano il prezzo di una repressione violenta per la loro sollevazione, abbiamo inventato i modi per uscire da una insostenibile sopportazione privata e dolente. Di città in città, di passaparola in passaparola, sono spuntati sudari bianchi esposti alle finestre, processioni di donne con in braccio le controfigure dei bambini massacrati, cortei rossi come il sangue versato a Gaza, fiaccolate notturne, scalinate dipinte con i colori della bandiera palestinese, concerti lacrimosi in piazza, striscioni negli stadi, performance artistiche, vignette di denuncia, monologhi teatrali.

Qualcuno, fra gli intellettuali e gli attivisti palestinesi, ci ha messo in guardia sul senso di queste pratiche, sostenendo che si tratta di forme occidentali di estetizzazione del lutto, che, pur animate dalle migliori intenzioni, rischiano di riprodurre il discorso coloniale e di spoliticizzare la questione palestinese, rappresentando il dolore in forma astratta e decontestualizzata, rimuovendo le cause strutturali della violenza e evocando lacrime e pietà laddove si tratterebbe di costruire un’alleanza politica. “Le nostre morti diventano metafore, i nostri corpi segni estetici. Ma noi non siamo simboli, siamo persone, e ci stanno ammazzando. Voi organizzate veglie, noi lottiamo per la nostra liberazione”, ha scritto il poeta palestinese Mohammed el-Kurd, lamentando che la ritualizzazione del dolore finisca anch’essa col tacitare le voci e l’esperienza reale dei palestinesi.

Mi sembrano sospetti comprensibili ma infondati. Di fronte al panorama di morte e macerie in cui siamo immersi sia pure da spettatori e non da protagonisti diretti, le pratiche di condivisione del dolore e di elaborazione collettiva del lutto sono un passaggio cruciale e ineludibile della presa di coscienza e della mobilitazione politica. Infatti hanno smosso acque che erano molto stagnanti. Se adesso le piazze si affollano e se l’opposizione è in grado di pretendere dal Governo italiano atti concreti e ufficiali di sanzionamento del Governo israeliano, lo si deve anche e prima di tutto a quelle pratiche, nate come fiori nel deserto all’incrocio fra l’impotenza della ragione, la forza del desiderio e la necessità della rivolta.

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Un commento a “Per Gaza e per noi”

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