Come riconoscere le forze di una possibile governance urbana
Il CRS potrebbe dare un contributo in occasione della imminente campagna elettorale per il rinnovo dell’amministrazione della capitale. Contributo finalizzato alla maggiore comprensione di problemi cruciali, per rafforzare il discorso di quanti chiedono e spingono per un futuro diverso della città, e per preparare il terreno di un governo della città capace di “politiche generative”, ben al di là delle piatte idee di amministrazione dell’esistente. Traguardando la scadenza elettorale, l’ambizione potrebbe essere concorrere a promuovere una cultura di governo orientata al futuro.
Per una riflessione come questa occorre certo tener conto delle tante ricerche esistenti (studi storico-politici, sociologici, urbanistici, culturali e ideologici, economici e statistici, giuridico-istituzionali ecc.). Ma soprattutto occorre basarsi sul fatto che in campo, da molti anni ormai, ci sono gruppi, iniziative, movimenti civici che mostrano interesse e potenzialità di forze sociali diffuse per una diversa governance urbana: ci sono insomma esperienze e culture che mostrano una ricchezza, che sarebbe peccato lasciare ai giochi divisivi di forze politiche di corto respiro. Spinte di questo tipo, poi, hanno certo rilievo per riflettere criticamente sugli assetti di potere e sul disegno istituzionale delle città metropolitane. E già tanti sono i monitoraggi e le proposte tematiche, che suggeriscono linee alternative tanto per la ricerca che per le politiche.
Il CRS negli anni Ottanta aveva articolato una strategia di democratizzazione basata sul disegno costituzionale (centralità del parlamento, rete delle assemblee elettive locali e regionali, partecipazione dei cittadini), sapendo di dover promuovere in ogni direzione sviluppi e compimenti di quel disegno. Di questo era nutrito il suo “riformismo”: oggi la deriva politico-istituzionale di decenni e i tanti effetti perversi della crisi obbligano a fare i conti con processi di disgregazione sociale, impoverimento populistico della politica, svuotamento e delegittimazione delle istituzioni di governo. La pandemia ha messo poi particolarmente a nudo e esasperato tutte le contraddizioni e debolezze, ma allo stesso tempo impone di far conto sulla responsabilità diffusa di ciascuna persona, ciascun cittadino. Il ripensamento collettivo della sfera pubblica, che è in corso, può orientare anche la specifica riflessione su questa città.
Questa semplice constatazione fa emergere con particolare chiarezza l’utilità di fare riferimento a certe indicazioni e riflessioni recenti sulla vicenda politico-culturale di Roma, che schematicamente qui sono riassunte: 1) Walter Tocci, in un libro appena uscito per Donzelli, ha offerto una serrata analisi su quel che ha portato negli ultimi due decenni all’esaurimento delle tre rendite (statale, immobiliare, simbolica) su cui la capitale ha costruito storicamente il proprio sviluppo fin dall’Ottocento: occorre dunque ora proiettarsi, dice Tocci, a delineare ipotesi di futuro diversamente basato; 2) Carlo Cellamare lo scorso anno, per lo stesso editore, ha illustrato l’enorme ricchezza romana di storie di autorganizzazione civica che negli ultimi anni hanno fatto emergere, anche a livello internazionale, il tema della partecipazione dei cittadini al governo urbano: la sua suggestiva formula, “città-fai-da-te”, resuscita un tema democratico per eccellenza, assai contrastato e comunque problematico, quello dell’autogoverno sociale, ma allo stesso tempo obbliga a tener conto dello spirito “antagonista” che in esse si manifesta, rendendo difficile pensare politicamente in modo semplificato azioni di indirizzo politico, se non si condivide una idea fondante circa la rilevanza della “autonomia sociale”; 3) infine Giovanni Moro, Emma Amiconi e Matilde Crisi, con uno studio su quanto emerso nel 2019 nella rubrica di “Repubblica” sulla “città che resiste”, hanno mostrato quanto realismo c’è nell’intento di molte iniziative civiche tese a far rinascere legame sociale, laddove la crisi e la decadenza della metropoli hanno indebolito o fatto cessare quelli precedenti: insomma quel che amministrazioni politiche tradizionali hanno trascurato e perduto, semplici cittadini si provano a far rinascere.
Fissando queste tre piste di pensiero (orientamento al futuro, tensione democratica all’autogoverno combinata con spiriti antagonisti, realismo costruttivo di legami sociali localmente rilevanti) possiamo intercettare voci e esperienze utili per condurre insieme riflessioni più avanzate. In certi casi, anche soltanto la ricostruzione di particolari percorsi (nelle scuole, nei quartieri, nella conduzione di municipi) potrà aiutare a mettere a fuoco i temi che più interessano: cosa intendere per beni comuni (tutti quelli che corrispondono a bisogni diffusi, o solo quelli trascurati da proprietà pubbliche o private)? Che senso ha accedere a una idea di “amministrazione condivisa”(condivisa tra chi e chi, e a qual titolo)? Come legare istruzione e educazione civica, al fine non solo di promuovere monitoraggi collettivi e progettazione sociale, ma anche per dare una prospettiva di riforma delle istituzioni?
Non è di una istanza di regolamentazione che dobbiamo farci carico in questa sede, ma del trovare preliminare risposta alla questione radicale, relativa a come identificare soggetti e interessi sostanziali: sono in gioco interessi generali o la tutela di interessi limitati da un perimetro associativo o dalla convivenza in una medesima realtà di quartiere? È qui la linea di scostamento tra il liberalismo tradizionale (che dà legittimazione agli interessi di categorie e gruppi associati) e il pensiero di un nuovo umanesimo, che assume l’emergenza planetaria e l’allarme per il pianeta Terra per accedere a una consapevolezza dell’unità profonda degli umani. Corre una profonda linea di faglia tra chi opera per beni comuni inclusivi, e quanti promuovono e difendono soltanto interessi determinati di gruppi o categorie economiche. Legittime e consentite anche queste attività in democrazia, ma altra cosa è l’agire per interessi generali: nel secondo caso si ha a che fare con la giustificazione profonda e la responsabilità del potere democratico di governo. Questa differenza aiuta a riconoscere le attività più rilevanti per un indirizzo democratico di governo: non si tratta solo dell’interrogativo su “cosa può fare la capitale per i suoi cittadini”, ma (e qui si coglie un’eco kennediana) della capacità di porsi anche l’opposta domanda “che possono fare i cittadini per la loro città capitale”?
Non tutti sembrano porsi così l’interrogativo che la competizione elettorale promuove: ma riconoscere coloro che hanno consapevolezza del nesso inscindibile tra rivendicazione politica e assunzione di responsabilità civica è il primo passo per dare senso e concretezza a una proposta di governance sussidiaria. Perché è il fare e la creatività di soggetti di questo tipo che daranno realtà a una possibile diversa governance urbana. Quando si pone, come fa Tocci alla fine del suo libro, la necessità di pensare il ruolo di questa città nel contesto di globalizzazione che caratterizza questa fase della storia del mondo, si vede tutta la discrepanza tra chi dice “prima gli italiani”, o simili indicazioni di un noi “corporativo” (e talvolta razzista), e chi si pone il problema della vicinanza, dell’interscambio, dell’eguaglianza e della dignità, della integrazioni sociale, dei diritti umani universali.
Una trama di linee di lavoro
È il perimetro delle forze cui fare appello che favorisce l’emergere di “un disegno”, un’idea di città alla cui concretizzazione tanti possono concorrere. Di forze positive e progettuali, in tal senso, si ha bisogno.
Coesione, inclusione, diritti sociali eguali: ogni istituzione, e quindi anche una città metropolitana, debbono essere misurate su questi banchi di prova. Una capitale ha, sotto questo profilo, particolari contraddizioni derivanti dalla sua storia: non si tratta solo del conflitto centro/periferia e neppure città/campagna. È il ruolo di capitale che mette in moto altre tensioni e linee di conflitto rispetto al resto del paese e ora, nella globalizzazione, ci sono ulteriori possibilità e contraddizioni, nazionali e sovranazionali, di cui tener conto.
Sarà bene ragionare di scuola e sviluppo democratico, di ricerca scientifica e futuro del pianeta. Di comunità e società: a questo proposito torna con una sua virulenza la contrapposizione comunità/società, che la sociologia mise storicamente in luce tra antica comunità contadina e nuovi sistemi di relazioni sociali dei contesti industrializzati e urbani. È stato di recente osservato (Emanuele Felice) che la pandemia a livello mondiale ha messo in luce uno scollamento tra sviluppo di aree metropolitane e aree meno urbanizzate. Queste sono lasciate indietro e nutrono rancori, assumono ripiegamenti difensivi e clausure rispetto a tutto quello cui le metropoli sono aperte: immigrazione, inurbamento, pluralismo etnico e culturale. L’America “profonda” e la sua polarizzazione politica ne sono solo l’espressione più evidente, ma ovunque il sovranismo populista sta manifestando irriducibilità sociale crescente a scelte di apertura e integrazione. Il governo nelle forme tradizionali della democrazia è reso difficile, certe spinte di rottura sono assai preoccupanti. In tutto ciò si manifestano fratture sociali ancora non pienamente comprese.
Le parole basiche dunque debbono essere rimesse in discussione. Il senso del richiamo a un’idea di società, o invece di comunità deve essere problematizzato: alcune spinte hanno un intento progressivo e di apertura, altre di regresso, ripiegamento, chiusura. Nella scoperta della nuova tensione in talune esperienze urbane a realizzare “legami sociali” dobbiamo dunque discernere quelle di ripiegamento a controllo di un territorio limitato, per instaurare discutibili autodifese di “tribù locali”, e quelle trasformative dell’ambiente a vantaggio di tutti, fino a delineare tratti di “una nuova città”.
Da queste prime riflessioni emergono alcune indicazioni, che possono essere così schematizzate:
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