Tra i molti interessanti interventi che hanno animato il nostro incontro sulle riforme costituzionali del 25 giugno scorso, segnaliamo il contributo con il quale Carlo Galli ha voluto sviluppare un’analisi critica sull’adozione di un assetto istituzionale ispirato al modello della Quinta Repubblica francese.

Premesse

1. Cambiare la Costituzione è diverso da modificarla; questo è un fatto di prudenza politica contingente, riferibile al potere costituito, limitato a punti specifici della Costituzione e normato da un articolo preciso, il 138; mentre quello è l’opera politica del potere costituente, dell’immane potenza e della tremenda maestà del popolo sovrano, che decide il modo e la forma della propria esistenza politica in generale.
2. Il modo e la forma di un’esistenza politica sono definiti non solo dalla costituzione formale (l’ordinamento come sistema di norme e di poteri, di diritti e di doveri – modificabile con procedure stabilite dalla costituzione, o instaurabile ex novo con un atto politico del potere costituente) ma dalla costituzione materiale, economica e politica, cioè dal reale assetto dei poteri, dal predominio degli interessi, dal rapporto tra le forze sociali.
3. Questo Parlamento è nella pienezza dei suoi poteri, nonostante sia nato da una legge elettorale a dir poco controversa. Le critiche che qui si muovono al progetto di cambiamento della Costituzione non si fondano sull’argomento della presunta illegittimità, formale o sostanziale, delle due Camere.
4. Le Costituzioni possono essere cambiate o modificate (dunque, benché i pregi grandissimi della nostra Carta siano ben chiari per chi scrive, non si utilizza qui l’argomento che vuole che la nostra sia “la più bella del mondo”, e quindi intoccabile). Ma cambiare, o anche solo modificare, la Costituzione, è operazione seria a cui un Paese serio si accinge per risolvere problemi reali che siano stati correttamente analizzati e individuati, a partire dalla distinzione fra sistema elettorale (importante ma non costituzionalizzabile), sistema istituzionale (distinto fra principi fondamentali che lo informano, forma di Stato e forma di governo) e sistema politico (i partiti e la loro azione dentro la società e dentro le istituzioni).
5. Non si sostiene qui che il parlamentarismo sia costituzionalmente protetto, né che il semipresidenzialismo sia in sé antidemocratico; ma si afferma che adottarlo è cambiare la costituzione, e che, inoltre, è inadatto a risolvere i problemi della politica italiana. Questi hanno origine dalla crisi dei partiti e richiedono, per essere risolti, che le forze politiche si irrobustiscano – e di conseguenza il parlamentarismo, forma di governo in cui i partiti manifestano la propria vitalità – non può essere abbandonato.

Storia

1. Il presidenzialismo (nelle sue diverse modalità), come ogni altra forma di governo, è questione politica, e dunque da porsi qui e ora, e al tempo stesso è questione storica. In questo quadro il semipresidenzialismo di stile francese nasce nel 1958, con la modifica dell’elezione popolare del Capo dello Stato nel 1962, e ha come obiettivo di superare la crisi della Quarta repubblica, che è soprattutto politica (l’Algeria, dopo l’Indocina), sia sistemica (l’impotenza del parlamento aveva generato una forma di populismo detta poujadismo). Contro il parlamentarismo, contro il populismo, e per avere una forte capacità di azione interna e di proiezione esterna dello Stato, la Francia si inventa il semipresidenzialismo, che vede un Capo dello Stato plebiscitato (un re elettivo) esercitare il potere esecutivo attraverso il ‘suo’ primo ministro che deve avere la fiducia del parlamento: il baricentro della vita politica, il centro propulsore, l’energia dispiegata, risiede quindi in una sorta di re costituzionale, titolare di un fortissimo potere d’indirizzo del governo. Il parlamento, l’Assemblea, è certamente meno centrale; i partiti sono il problema, da cui il vero centro del potere, l’esecutivo a due teste, e soprattutto il Capo dello Stato (il primo ministro è ‘sacrificabile’, in caso di coabitazione), deve essere il più possibile immunizzato. Il semipresidenzialismo è in realta’ un superpresidenzialismo dichiaratamente debitore del principio d’autorità.
2. Al di là dell’unicità dell’esperienza costituzionale francese, resta il fatto che l’intera storia costituzionale italiana è nel segno, opposto, del parlamentarismo. Perfino nella vigenza dello Statuto albertino – che, nel suo costituzionalismo puro, formalmente non prevedeva neppure un governo di gabinetto, né tanto meno la fiducia della Camera – la costante pratica politica si sostanziò nell’individuazione di un presidente del consiglio incaricato dal re e fiduciato dal parlamento (tanto che appunto di “ritorno allo Statuto” parlava la destra, con Sonnino, alla fine del XIX secolo, a significare il progetto di un governo forte, extraparlamentare e antisocialista). Perfino il fascismo conservò le forme esteriori del parlamentarismo, benché svuotate e stravolte dalla mancanza delle libertà civili e politiche.
La costante della nostra storia è quindi la centralità costituzionale del parlamento – che funge da principio d’ordine del sistema nella misura in cui i partiti, nella loro pluralità, sono efficienti e vitali -; la loro forza fu nulla, al tempo dell’Italia liberale, che nel parlamento rappresentò solo un’élite di notabili; nulla, ancora, nell’Italia fascista, schiacciata dal partito unico e dal regime tirannico; mentre fu alta, invece, nella fase centrale della prima repubblica, quando il parlamentarismo funzionò appunto perché funzionavano i partiti – non solo correnti e clientele, organizzazioni e carriere, non solo ideologie contrapposte, ma anche centri di raccordo fra società e sistema politico, e spazi di elaborazione intellettuale e progettuale –. Era il sistema politico a trasmettere vita ed energia al sistema istituzionale.

Politica

1. La crisi dei partiti è esplosa insieme alla crisi delle istituzioni, ed è dovuta soprattutto alle trasformazioni della costituzione materiale del Paese, ossia del rapporto fra economia e politica – la svolta neoliberista degli anni Ottanta, perfezionata nella deregulation e nella globalizzazione degli anni Novanta –, che come in tutto l’Occidente ha modificato gli equilibri democratici fra politica ed economia (il cosiddetto Stato sociale) e ha spostato il baricentro del potere reale là dove la politica tradizionale (appunto, la politica dei partiti e delle istituzioni) non lo può raggiungere: nella fabbrica toyotista, nelle Borse e nelle banche d’affari.
Il neoliberismo si è presentato in Italia come discorso pubblico vincente, ma in realtà non è andato al di là di un attacco allo Stato sociale e alla spesa pubblica, che ha dato vita a una sorta di neocorporativismo diseguale e anarchico. Di fatto, né lo Stato né i partiti sono in grado di governare, dirigere, dare forma ai processi economici – tanto nelle fasi espansive quanto nelle fasi di crisi – e alle conseguenti trasformazioni sociali (che, in Occidente, sono state in larghissima misura negative). La debolezza politica dei partiti non ha loro tolto la capacità di occupare spazi pubblici: ma è la dimensione pubblica in generale che si è fatta flebile e ininfluente, oppure che è rimasta inerte, priva di vita, come un ostacolo incomprensibile e delegittimato alla vita reale della società. Debolezza che ha prodotto ingovernabilità anche in presenza di maggioranze immense, e che è stata curata con leggi elettorali.
L’impotenza della politica assume oggi le forme, paradossali e contrapposte, ma compresenti, della consociazione e della divisione profonda, a cui si reagisce con la protesta populistica antipolitica (ma in realtà iperpolitica) e con l’apatia astensionistica. La politica – Stato e partiti – è oggi delegittimata e percepita come inutile.
E quando se ne coglie l’importanza e la necessità – per guidare e correggere i trend economici e sociali fuori controllo, che stanno minacciando la stessa democrazia – si punta a darle più efficienza e più efficacia attraverso la verticalizzazione e la personalizzazione del potere, e il suo spostamento verso l’esecutivo. E a rilegittimarla attraverso il ricorso a strategie plebiscitarie di elezione di un vertice politico capace di semplificare e di decidere. Da qui il modello semipresidenziale (non entriamo neppure per un attimo nell’ipotesi che questo sia stato proposto perché è l’unico modo per avere in cambio dalle destre ciò a cui il centrosinistra veramente tiene, cioè il sistema elettorale a doppio turno di collegio), che rispetto a quello parlamentare rappresenta indubbiamente un cambiamento profondo della Costituzione, nella misura in cui fa perno sull’esecutivo rispetto al legislativo, sull’autorità rispetto ai partiti.
La giustificazione di queste scelte è che lo svuotamento del parlamento e la presidenzializzazione della politica sono di fatto già avvenute, e che tanto vale prenderne atto e dare a questi processi una forma compiuta, e istituire nell’ordinamento un principio d’ordine post-parlamentare e post-partitico: il leader plebiscitato. In più, si afferma che al modello semipresidenziale si possono apportare correttivi che riequilibrino il peso e il ruolo del parlamento rispetto all’esecutivo.
2. Le obiezioni giuridiche a questo progetto sono che è dubbio che con l’art. 138 si possa modificare (sia pure senza stravolgerlo) l’art. 138 stesso, per procedere poi, con la sua nuova configurazione, a una più spedita trasformazione della Costituzione. E soprattutto che la delega troppo ampia sulle parti della Carta da modificare (compresa la forma di governo) può dar luogo a un vero e illegittimo cambio di Costituzione, per di più sancito da un unico referendum finale trasformato in un plebiscito, che non consentirebbe un’articolata presa di posizione su ciascun singolo aspetto della trasformazione costituzionale.
Ma le obiezioni politiche sono ancora più forti. Si possono sintetizzare con la formula che il semipresidenzialismo non vuole vedere i veri problemi politici dell’Italia, e che così li asseconda invece che eliminarli.
Si adattano al tentativi di riforma/cambiamento della costituzione tutte le categorie elaborate da Hirschman (Retoriche dell’intransigenza) per analizzare le modalita’ di critica verso una determinata proposta. Infatti, si può dire che il semipresidenzialismo è affetto da “futilità”, ovvero si rivolge a un obiettivo non essenziale: infatti è una scorciatoia superficiale modificare la forma di governo e tentare un rafforzamento dell’esecutivo, mentre non ci si vuole far carico del rafforzamento del sistema politico, cioè dei partiti e della loro capacità di elaborazione intellettuale e di collegamento fra istituzioni e società. Nei partiti (rinnovati), che di parlamentarismo vivono, c’è il principio d’ordine – non effimero, non verticistico, non monistico, ma anzi immanente alla società e al contempo capace di darle una configurazione plurale e riconoscibile – c’è il principio d’ordine di cui l’Italia ha davvero bisogno. Certo, è un principio che si sottrae all’ingegneria costituzionale, troppo facile, e che si presenta come un compito politico di lungo periodo, che coinvolge élites e popolo: il compito di non accettare la desertificazione politica della società, di non collaborare allo spostamento del baricentro della politica verso un vertice plebiscitato. Se il fine dell’intera operazione di riforma/cambio della costituzione è produrre una politica più efficace, capace di contrastare i guasti della costituzione materiale, ovvero degli assetti sociali e della democrazia, il cambio di costituzione è qualcosa di fuori obiettivo, futile ed eccessivo al contempo, a fronte della molto più ovvia manutenzione della costituzione vigente, dal mantenimento della tradizionale centralità del parlamento e della molto più impegnativa riforma politica dei partiti. Il cambio di costituzione e’ un programma troppo vasto per non essere sospetto: o di inutilita’ e di velleitarismo, o di dismisura.
L’altro parametro previsto da Hirschman, la “perversità” (cioè l’intrinseca indesiderabilita’ di una proposta), è anch’esso presente: il semipresidenzialismo apre inevitabilmente la strada a una politica verticale personale e autoritaria, spettacolare e pirotecnica, non certo ricca di quell’energia che nasce dalla lunga lena e dal tenace radicamento sociale dei partiti. Inoltre, il semipresidenzialismo vuole isolare il potere dalle turbolenze della politica, dal parlamento, per stabilizzarlo e istituzionalizzarlo; ma in Italia, lo sappiamo bene, una campagna elettorale per la presidenza della repubblica assumerebbe toni iperpolitici, che finirebbero per politicizzare ulteriormente e permanentemente le istituzioni. Se si tratta di vincere il populismo, il semipresidenzialismo lo introietta, in verita’, sotto forma di plebiscitarismo. Il semipresidenzialismo e’ spostato più verso l’immediatezza che verso la mediazione; nasce per enfatizzare il rapporto tra capo e popolo, e per sfiducia verso i partiti, e non può, intrinsecamente, essere corretto in senso parlamentare.
Infine, ultima caratteristica, la “messa a repentaglio”. Con il semipresidenzialismo si rischia di perdere il potere presidenziale neutro, a geometria variabile, che la nostra Costituzione ha disegnato e che ha fatto da secondo motore della politica quando il primo, i partiti, si è inceppato. L’immane squilibrio che un capo dello Stato, eletto plebiscitariamente con almeno venti milioni di voti, arrecherebbe nel sistema di pesi e contrappesi del nostro sistema istituzionale, è poi a tutti evidente. L’assenza di un potere neutro e lo strapotere dell’esecutivo sono parzialmente neutralizzati, in Francia, dal peso dell’amministrazione statale, baricentro storico dell’esistenza politica nazionale; ma nel nostro Paese dove individuare un contrappeso? Forse nella magistratura, o nella Corte Costituzionale?
Insomma, il grandissimo rafforzamento dell’esecutivo – come del resto le leggi elettorali iperpremiali – è al tempo stesso privo di reale giustificazione, inutile e pericoloso, una mossa che cambia tutto ma non cambia nulla, un artificio che, rimuovendola, serve a rendere permanente la debolezza politica e sociale, elaborativa e propositiva, dei partiti e del parlamento, e che al contrario espone il Paese e il suo vertice a una sterile politicizzazione.
3. Da ultimo, ma è logicamente precedente a ogni altra, quella che si potrebbe definire la questione dell’energia politica. Necessaria per far nascere le costituzioni, e per cambiarle, oggi evidentemente non è disponibile. È un’energia che nasce dalla individuazione di un nemico, o almeno di un avversario: la prima repubblica italiana nasce dal CLN, cioe’ dall’antifascismo, come la quinta repubblica francese nasce dalla personalita’ carismatica di De Gaulle che fa uscire la Francia dalla crisi della quarta repubblica (nata a sua volta dalla lotta contro il regime di Vichy, come la terza reagiva alla sconfitta di Sedan e alla Comune).
Oggi l’avversario da battere, l’ostacolo da superare, e’ la debolezza del sistema politico. A cui, in primo luogo, si cerca di ovviare facendo altro, cioè tentando la riforma/cambiamento della costituzione; impresa, come si e’ detto, fuori bersaglio, futile e pericolosa, per la quale, soprattutto, non c’e’, in ogni caso, energia politica sufficiente. Perché mai, infatti, un ceto politico allo stremo dovrebbe sapere riformare lo Stato, quando non riesce nemmeno a fare una legge elettorale? Perché la debolezza dovrebbe diventare energia? Perche’ si dovrebbe inventare il gollismo senza de Gaulle? Forse perché non c’è alternativa e la riforma della costituzione e’ l’ultima speranza della nazione? In verità, come si e’ accennato, dalla crisi politica si puo’ uscire politicamente, cioe’ agendo sul sistema politico, prendendo sul serio la questione della rinascita dei partiti; mentre la riforma della costituzione, nella forma che ha assunto o può assumere, sembra piuttosto un’assicurazione sulla vita per il governo, una sua legittimazione che vada oltre la necessità contingente, la debolezza della politica. Oppure una mossa disperata dei partiti, che cercano di scaricare sulla costituzione le loro difficoltà.

Proposte

Naturalmente, ci sono problemi anche nella Carta, benche’ non siano i principali che affliggono l’Italia. Pur in permanenza di un regime parlamentare, il bicameralismo perfetto e’ infatti certamente da correggere, e il numero complessivo dei parlamentari da diminuire drasticamente; il presidente del CdM deve essere trasformato in un vero premier, dotato del potere di nominare e revocare i ministri (ma non di sciogliere le Camere, che deve restare in capo al potere neutro del presidente della Repubblica). Deve essere introdotta la sfiducia costruttiva. E infine la legge elettorale e’ certo da modificare, benché non da costituzionalizzare. Se fosse disponibile un’energia politica sufficiente a ciò, sarebbe una buona notizia: sarebbe la notizia che la riforma della costituzione e’ perseguita veramente, e non velleitariamente.
Ma ciò significherebbe che i partiti si sono, prima, davvero assunti le loro responsabilità, ovvero che credono primariamente in se stessi e nella propria democratica vocazione a ricivilizzare la società civile (resa in realta’ incivile dalla crisi prolungata e dall’individualismo rancoroso che ne consegue), a essere strutture permanenti di organizzazione e di mobilitazione civile e intellettuale della società (di una societa’ che crede nuovamente nella dignità e nell’utilità della politica).
Significherebbe, insomma, che la crisi italiana viene se non altro riconosciuta per quello che e’: una crisi politica, non costituzionale. Da cui l’Italia non puo’ sperare di uscire solo con tentativi di riforma costituzionale, che la fanno semmai assomigliare alla inferma di Dante, “che con dar volta suo dolore scherma”.

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