Un grande “specialista” era Pietro Barcellona, giurista e filosofo del diritto, e ancora più grande è stato nel “violare” quel divieto «di parlare fuori dagli specialismi» che è andato rendendo gli “specialisti” stessi incapaci di intendere questo mondo e tanto più di prevederne gli sviluppi. Da Oltre lo stato sociale, del 1980 (che si pubblicò in una collana che allora dirigevo con de Giovanni), fino ai numerosissimi libri dell’ ultimo decennio, Barcellona ha esercitato il suo pensiero critico, fondato sulla competenza più profonda della storia del diritto e dello Stato moderno di diritto, nell’ indagine appassionata del problema contro cui ci scontriamo quotidianamente, senza quasi mai saperne avvertire lo spessore e la complessità.
E il problema è questo: quale connessione è oggi possibile fondare tra produzione di norme e produzione di senso? Può la norma esprimere idee-valori orientanti il mondo della vita? E chi è il soggetto della norma? Il regime democratico non tende forse per sua natura a rendere evanescente, fino a farlo scomparire, un tale soggetto? La dis-misura sembra regnare ovunque, e così l’ infondatezza della decisione “sovrana” e l’ incapacità della norma che ne deriva a “contenere” in sé in qualche modo ciò che Barcellona chiama «l’ irruzione dell’ umano» (I soggetti e le norme, 1984). Il dramma – poiché drammatico è il pensiero del giurista catanese – è quello stesso della forma-Stato, la cui ultima immagine, prima del suo de-formarsi nei processi attuali di globalizzazione, è lo Stato sociale keynesiano ( Dallo Stato sociale allo Stato immaginario, 1994).
Irreversibile il suo tramonto, tutt’uno col venir meno delle soggettività forti nel cui conflitto era maturato – ma in quale direzione se ne esce? nel senso del dominio delle “leggi naturali” del tecnico-economico, sostenute da grandi “volontà” imperiali? nel senso di una “razionalità formale” che si fa immanente alle stesse forme di vita, per cui il potere si riproduce attraverso i nostri stessi atti e comportamenti, confondendo così inestricabilmente libertà e sottomissione? Barcellona ha sofferto fino in fondo disagio e urgenza di questa interrogazione. Si è confrontato intorno al suo nodo con pensatori che non vedevano per essa alcuna possibile risposta politica – da Severino a Sgalambro.
Non ha cercato facili scorciatoie; l’ ha affrontata, anzi, con totale disincanto, indagando paradossi e aporie dell’ idea democratica e “ficcando lo sguardo” impietosamente in quella che di tale idea rimane la figura-cardine: l’ individuo proprietario ( L’ individualismo proprietario ,1987; L’ individuo sociale, 1996), il quale nella rimozione del con-essere e nell’ orizzonte dell’ indefinita crescita dei propri “appetiti” sembra trovare senso e soddisfazione. Soltanto questo “atomo” può essere ridotto alla razionalità funzionalistica del sistema tecnico-economico. Ma funziona essa davvero? Barcellona non lo crede – e lungo tutta la sua opera ha cercato di mostrarne l’ ineffettualità. Non sulla base di qualche vaga speranza (i vari I dream oggi tanto di moda), ma attraverso analisi concrete (fondamentali rimangono le sue critiche a Luhmann).
Dobbiamo dirlo in breve: è scientificamente impossibile ignorare il carattere politico del nostro esserci; lo “spazio della politica” non è quello dove agiamo (o non agiamo), ma è in noi, iscritto nel nostro stesso corpo, nelle sue passioni. Diciamo pure: nella nostra anima (Politica e passioni, 1997; La strategia dell’ anima, 2002). Quello “spazio” va perciò radicalmente ripensato rispetto al Politico “al comando” proprio del Moderno e tragicamente manifestatosi nel Novecento (Lo spazio della politica, 1993).
Qui la “proposta” di Barcellona si faceva antropologica addirittura, eccedendo da ogni parte il “suo” specialismo – e suscitando per questo, presso tanti “colleghi”, ogni sorta di perplessità. Ma in gioco per Pietro vi era ben più di qualche ossequio disciplinare – vi era la volontà di non arrendersi, mente e cuore, al “male” del mondo, vi era l’ insopprimibile nostalgia (nostalgia di andare, non di fare ritorno!) a un vivere buono, in cui l’individuo sia per sé-ad altro, e trovi soddisfazione nel suo essere capace di svolgere l’ attività che gli è propria, che per sé si è scelto, e che insieme riconosce come elemento e funzione del Comune, di quel bene, cioè, di cui è proprietario nessuno.
(tratto da “La Repubblica” del 09/09/2013)
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