Articolo pubblico per la rubrica “Divano” su “il manifesto” del 10.10.2025.
Ritrovo tra le pagine di un libro appartenuto a Pietro Ingrao un foglietto vergato a mano, poche righe tracciate con una penna biro azzurra. Si tratta di un breve appunto composto di tre succinte proposizioni, forse destinate a essere memorizzate in vista di una breve dichiarazione da rilasciare alla stampa.
Tutto fa ritenere che l’appunto risalga al dicembre del 2008 quando si è acceso nella Striscia di Gaza, e dura tre settimane, l’ennesimo conflitto armato contro Hamas, condotto con sanguinose operazioni di bombardamento sugli abitanti dall’aviazione e di incursioni dell’esercito di Israele: mille e cento morti tra i palestinesi, tredici soldati israeliani caduti.
Su quel foglietto Ingrao (conta allora novantatré anni) scrive: «Sono convinto che solo una politica di pace possa garantire Israele e risarcirla dei danni subiti nel passato». E sotto: «Unire la mia (debole) voce a quella di coloro che in queste ore hanno espresso una ferma allarmata condanna della guerra». E infine: «Sono convinto che così si tutela Israele».
Ingrao non ne dubita: la salvaguardia di Israele (come, per converso, della nazione palestinese) risiede (nell’inevitabile e obbligata trama di relazioni agite nel medesimo ambito territoriale) in una costante e costruttiva opera di riconoscimento, consolidamento e cura, improntata a pratiche non armate in un rapporto di coesistenza tra israeliani e palestinesi là dove, dal 1948 (ma, meglio, si dica da più di un secolo) ogni relazione si muove in un alterno, regolare e attivo, mutuo e vicendevole ricorso alle armi.
Nell’estremo quindicennio della sua centenaria vita (1915-2015), pubblicata nell’anno duemila la sua terza raccolta di poesie – Variazioni serali – Ingrao propendeva a un ragionare e a un meditare che, quasi alla maniera di un soliloquio, formulava a sé stesso secondo i canoni del comporre poetico quali, fin dalla prima giovinezza, gli erano congeniali. Canoni che, potremmo dire, davano a Ingrao le coordinate e i margini entro i quali meglio cogliere l’opportunità di conferire una concentrazione sintetica dei suoi pensieri e di certi suoi giudizi, resi con un intento, se così posso dire, di prosciugata passione, riuscendo talora, nel risultato, a una risentita chiarezza, che non di rado convince.
Sta di fatto che di Ingrao, successivi all’anno duemila, ci restano, per la gran parte tuttora inediti, una cinquantina di componimenti. Non pochi toccano argomenti di ordine politico e civile.
A fronte dei massacri e degli eccidi che dal 7 ottobre del 2023, senza sosta, in quelle terre di dolore e di morte uccidono innocenti a migliaia, invito il lettore a considerare una poesia di Ingrao che, a distanza di quasi vent’anni, potrebbe essere scritta in questi nostri giorni. Essa risale per certo, come il foglietto su ricordato, a quell’anno 2008.
Pur se, mentre scrivo, pare (sotto la minaccia di Israele e degli Stati uniti d’America di procedere a una soluzione finale per sterminio della popolazione palestinese) imminente una sospensione delle stragi, è il groviglio «storico» che non sembra destinato a sciogliersi. E di questa storica tragedia ci parla il testo di Ingrao, qui di seguito.
Guarda: vedi come ostinatetornano dal cielo le bombe fiorenti, e furenticalano sulle strade, spezzano corpi,ardono case, testarde inseguonogli stupiti fanciulli, gridanocantano l’inno alla mortesenza stancarsi mai…
Chi siete,perché illuminate le notti,insanguinate le vie?Perché siete in ansiaperché vi serve la strage degli innocentie forse disperate sull’esisteretornate a cantare la gloriadell’uccidere di massa,affidate la pace alla morte…
Voicosì senza speranzase soltantol’assassinio di massa può assicurarvi la vitae solo le maledizioni e le lacrimepossono difendervi.E non vedete, non speratealtra salvezzaper l’uomo e per il figlio dell’uomoche la morte corale.Voi che venite da un cammino di lacrimee ora senza lume di treguaseminate nuovo pianto innocente.
Noi che veniamo da lotte di secolicondotte per tutte le terre infinite di questo globorotondoin cui dato a noifu di vivere,e sembriamo orasolo capacidi educarci all’indifferenza. O scrutare allibiti.
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