Interventi
Per preparare uno stato d’animo adatto alla nostra discussione ascoltiamo un verso di Baudelaire dalla poesia Il Cigno:
La vecchia Parigi non è più; la forma di una città muta più rapidamente, ahimè, del cuore di un mortale.[1]
In poche e semplici parole il verso esprime lo sconcerto del poeta di fronte ai cantieri della modernizzazione di Haussmann. Al di là del riferimento storico, emerge una tensione più generale tra due dimensioni dell’urbano: da un lato la logica di sistema che guida la trasformazione e dall’altro la forma di vita costituita dai bisogni, dai sogni, dalle relazioni tra le persone e di queste con i luoghi. La prima è improntata a una razionalità tecnico-economica, mentre la seconda è segnata dalla sensibilità e dall’imprevedibilità del cuore di un mortale. In altre parole, nel verso si avverte una tensione tra la potenza di trasformazione e la saggezza della vita.
Il primo grande poeta della modernità urbana, meglio di qualsiasi saggista, ci parla di uno squilibrio tra il balzo in avanti della potenza e il ritardo della saggezza che non riesce a tenere il passo. Dopo quell’inizio travolgente la città industriale riuscì a colmare lo scarto e gradualmente la potenza fu raggiunta dalla saggezza per merito del riformismo urbanistico, della costruzione del Welfare e dell’ampliamento della democrazia.
Oggi, nella città postindustriale si ricrea lo scarto e di nuovo la saggezza non riesce a stare al passo della potenza. Anzi, questo è lo squilibrio che ricorre nelle grandi questioni del nostro tempo: tra lo sviluppo economico e la sostenibilità del pianeta; tra la globalizzazione delle merci e della finanza e il respingimento in mare di bambini, donne e uomini; tra l’innovazione tecnologica e la mancanza di lavoro, ecc.
Questi grandi problemi sembrano astratti, irrisolvibili e lontani dal nostro potere di intervento. Eppure, nella città essi mettono i piedi per terra, entrano in contatto con la vita e suscitano le forze morali e sociali per il cambiamento. Il rapporto tra la città e i dilemmi dell’epoca è il filo conduttore di molte comunicazioni della nostra sessione, in particolare Marco Fregatti su Principi e fattori della sostenibilità per il governo delle città metropolitane e Viola Angelo Polesello su Cambiamento climatico e povertà.
Prima di proseguire occorre un chiarimento sul significato di saggezza. Essa rifiuta le scorciatoie, diffida dell’illusione neoluddista che vuole risolvere ogni cosa bloccando la potenza, non di meno critica le facili promesse delle magnifiche sorti e progressive.
La saggezza è l’intelligenza della vita che cerca l’equilibrio con la potenza del sistema. Nella ricerca dell’equilibrio occorre superare due difficoltà, una temporale e l’altra sociale.
In riferimento alla prima, la saggezza si forma nell’esperienza e quindi si alimenta del passato, mentre la potenza, nei suoi balzi in avanti, demolisce proprio le certezze consolidate. Da qui nasce lo scarto, poiché la saggezza non riesce in pari tempo a rielaborare su basi nuove i saperi dell’equilibrio.
Tutto ciò si vede meglio nella città, tanto che ormai è perfino difficile definirla nella sua essenza, nonostante la ricchezza di discipline e di saperi maturati nel secolo passato. Di fronte al dilagare dello sprawl non sappiamo più dire neppure dove comincia e dove finisce. Nel contempo le statistiche tanto gradite ai media annunciano che oltre la metà della popolazione mondiale abita già in città e raggiungerà la percentuale di 80% nel 2050, secondo le previsioni più accreditate. Come ha osservato Neil Brenner[2] il vulnus di queste statistiche consiste nel quantificare gli abitanti della città contemporanea proprio mentre non si riesce più a delimitare il suo spazio. Tutto diventa urbano, ma nulla è più propriamente urbano. La vicenda della città assomiglia a quella della democrazia, la quale si è estesa in tutto il mondo ma si è anche banalizzata e ha smarrito le risorse rigenerative, risvegliando così gli spettri della demagogia e del totalitarismo da cui sembrava essersi liberata per sempre.
La città industriale in cui Baudelaire aveva cantato il disincanto del mortale, è stata superata dalla potenza del nuovo mondo. Tutto sommato non è una perdita negativa. La vecchia industria aveva un rapporto strumentale con la città, la usava come luogo di abitazione della forza lavoro e come centro di consumo delle merci prodotte. La civiltà della fabbrica non si è mai veramente innamorata della vita urbana, anzi l’ha sfigurata con i suoi impianti, l’ha ammorbata con i suoi inquinamenti e le ha imposto i suoi modelli organizzativi, il fordismo come paradigma delle amministrazioni, dei servizi e delle infrastrutture, e perfino la gerarchia territoriale dello zoning del tutto isomorfa con la parcellizzazione professionale del lavoro.
Da tutto ciò deriva quel senso di inadeguatezza che avvertiamo tutti – amministratori, tecnici e cittadini – quando utilizziamo la vecchia cassetta degli attrezzi delle politiche urbane. E la causa profonda è da ricercare proprio nel mutamento del paradigma produttivo imposto dalla potenza dei tempi nuovi. La produzione non è più confinata nelle zone industriali, non è più separata dalla residenza né dal consumo, anzi la città stessa diventa la fabbrica del lavoro immateriale.
La città è sempre più soggetto e oggetto della conoscenza. È soggetto nella misura in cui la sua fortuna oppure la sua decadenza dipendono in gran parte dalla capacità o meno di aggregare intelligenze, competenze e saperi. È anche oggetto in quanto organismo complesso che deve essere studiato, compreso e organizzato con saperi evoluti, interdipendenti e generativi. Il governo della città contemporanea diventa sempre più un problema cognitivo. E per questo la sovranità pubblica non può rimanere chiusa nella dimensione normativa, sempre più incapace di regolare i processi, ma deve ampliarsi nelle inedite dimensioni della conoscenza dei fenomeni. A Barcellona la sindaca Colau ha chiamato una giovane ricercatrice italiana, Francesca Bria, come assessore all’innovazione con l’obiettivo di affermare addirittura la sovranità comunale nella gestione dei big data prodotti dai servizi pubblici e dai cittadini, in una sfida cruciale contro i nuovi monopoli delle piattaforme digitali.[3]
Negli anni Novanta ci siamo illusi che la nuova potenza del mondo avrebbe risolto i vecchi problemi senza crearne di nuovi. Abbiamo immaginato che vivere nella città della conoscenza fosse come camminare in un prato raccogliendo i fiori delle nuove tecnologie. Poi abbiamo scoperto il lato oscuro della globalizzazione, gli imprevedibili conflitti e le emergenti diseguaglianze. Ora è più chiaro che la crescita della conoscenza aumenta la potenza della trasformazione, ma non alimenta nella stessa misura i saperi della saggezza.
Anzi, per certi versi sembra di vivere nell’età dell’ignoranza[4], se solo si volge lo sguardo alle nuove forme di irrazionalismo, all’irragionevolezza di tante politiche pubbliche, alle leggende metropolitane propagate nella rete, al riaffacciarsi di tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica perfino più inquietanti del passato.
Si accentua lo squilibrio cognitivo tra la crescita della conoscenza e la messa a frutto dei suoi risultati. Ed esso interagisce con l’altro lato oscuro della globalizzazione, cioè la crescita delle diseguaglianze determinata dal capitalismo finanziario. Come ha dimostrato una copiosa letteratura a partire dagli studi di Saskia Sassen[5] degli anni Novanta, la città si spacca tra la parte abitata dai ceti che godono pienamente dell’apertura al mondo e il margine fisico e cognitivo vissuto dai gruppi sociali esclusi dai vantaggi della globalizzazione. La vita popolare è inondata dagli effetti tecnologici ma non è alimentata dall’apprendimento dei saperi che sarebbero necessari per vivere e lavorare nel nuovo mondo. Essa avverte questa mancanza in termini di insicurezza, di spaesamento e di solitudine e di conseguenza viene orientata dalle agenzie politico-ideologiche che offrono la risposta del rancore, del fondamentalismo e della xenofobia. La diseguaglianza non è solo sociale ma diventa cognitiva, come squilibrio tra chi utilizza e chi subisce la crescita della conoscenza. La città viene a rappresentare la distanza materiale e simbolica tra ceti aperti alla globalizzazione e ceti popolari chiusi a difesa delle nicchie territoriali. I cittadini si dividono sui diversi modi di stare al mondo. È qualcosa di più della vecchia gerarchia centro-periferia che in fin dei conti era determinata solo da carenze infrastrutturali, di servizi e di reddito. Ora, ai vecchi squilibri si aggiunge una frattura che riguarda il carattere più profondo e originario della città: la relazione tra apertura e contenimento. Queste due forze hanno sempre interagito creativamente nel formare lo spirito urbano. Non a caso l’archetipo più potente è costituito dalle mura, che nella città antica definivano l’identità, ma si aprivano nelle porte allo scambio delle merci, alla ricezione delle informazioni e all’incontro con lo straniero. Nella città postmoderna svanisce il confine e di conseguenza si divaricano le due forze di apertura e contenimento: tra glamour dell’innovazione e precarietà del lavoro, tra fantasmagoria della comunicazione e deprivazione culturale, tra cittadini del mondo e poveri cristi attaccati al suolo. Le mura non esistono più come architetture rassicuranti, ma vengono introiettate e smaterializzate nell’organismo sociale, diventando perfino più laceranti nelle varie forme di gentrification, di vecchi e nuovi ghetti, di edge-cities, di ossessioni securitarie nelle gated-communities, fino al Truman-showdel new-urbanism.[6]
La diseguaglianza, quindi, non è solo sociale, non dipende solo da carenze di servizi e infrastrutture, e neppure solo dalla dotazione di conoscenza, ma viene alimentata dalla crisi di un carattere peculiare e originario della città che riguarda il suo essere in relazione con il mondo e il suo essere per se stessa un mondo.
Si comprende meglio, allora, perché a questo nostro convegno di urbanistica abbiamo dato un titolo inusuale come “Il bisogno di giustizia nella città che cambia”. A prima vista l’argomento della diseguaglianza può sembrare aggiuntivo rispetto alla specificità disciplinare della regolazione spaziale. E, invece, esso riguarda propriamente l’essenza dell’urbano, come ha già spiegato esaurientemente Michele Talia nella relazione di apertura.
La giustizia non è più solo un’azione redistributiva, come veniva considerata, insieme a tante altre variabili, nella città industriale. Nella città postindustriale il bisogno di giustizia si appella al carattere originario della vita urbana, per riconnettere le forze di apertura e di contenimento, ovvero per ricostituire l’equilibrio tra potenza e saggezza.
Paradossalmente nella postmodernità ritorna l’esigenza di un’idea premoderna della giustizia, non più solo come insieme di diritti tutelati dalla legge, ma come idea omnicomprensiva di armonia ed equilibrio tra le parti. Diremmo con parole moderne, come equilibrio tra logica di sistema e forma di vita, tra potenza e saggezza. È la Dike del Protagora che gli Dei donano agli uomini perché siano capaci di utilizzare la potenza del fuoco senza rimanerne soggiogati. Così commenta il passo platonico, nella sua ultima conferenza, Mario Vegetti, un maestro di filosofia recentemente scomparso, che mi preme ricordare qui a Milano, la sua città: “Non c’è polis senza un sistema di norme di giustizia condivise, senza le istanze decisionali proprie della politica, infine senza un’educazione pubblica intesa a consolidare i vincoli comunitari”.[7] È quindi appropriato interpretare la crisi urbana in termini di Adikia, come propone Giuseppe Caridi nella comunicazione che segue.
Dopo la lunga divergenza occorre riconciliare la logica di sistema e la forma di vita. Questa è la sfida che si presenta oggi nelle politiche urbane. E di seguito i relatori ci forniscono analisi, esperienze e proposte concrete, non solo italiane; anzi, ampliando lo sguardo verso città lontane si comprendono meglio anche i problemi di casa nostra, come si può constatare nelle comunicazioni di Massimo Carta, Anna Maria Gisotti, Elena Tarsi su il caso della Medina di Fes (Marocco) e Mario Cerasoli, Chiara Amato su L’esperienza del Ramal (El Salvador).
Se il cambiamento è tanto profondo da mettere in discussione i caratteri originari dell’urbano, le politiche pubbliche dovrebbero essere originali, ambiziose, sfavillanti. Certo, non mancano nel nostro Paese esperienze creative soprattutto di piccole città animate da amministratori volitivi e coraggiosi. Rischiano però di rimanere nell’ambito del bricolage, poiché a livello nazionale le strategie urbane sono scomparse dall’agenda politica.
È incredibile l’autolesionismo delle classi dirigenti dell’ultimo decennio che hanno affrontato la più grande crisi economica mondiale senza giocare l’asso nella manica delle città, l’unica forza generativa dello spirito italiano. La politica nazionale ha dimenticato i punti di forza del Paese per correre dietro alla chimera del salvatore della patria. Lo ha cercato tra i tipi più diversi, dal possidente, al tecnico, al comico, al rottamatore e da ultimo al ruspatore, ma tutti hanno fallito perché hanno fatto ricorso al centralismo, come unica risposta al sovraccarico mediatico che li porta in alto, e che poi rapidamente li porta nella polvere per la penuria dei risultati di governo.
Mai come in questi dieci anni l’Italia ha messo in sofferenza contemporaneamente tutti i livelli delle autonomie territoriali. Le Regioni dopo il fallimento dei due eccessi – l’illusione federalista e il neocentralismo costituzionale – sono approdate a un misero fai da te, senza mai imboccare la via di un regionalismo cooperativo, l’unico possibile in un paese spezzato da storici squilibri. Le Città Metropolitane sono state strangolate nella culla, facendo mancare fondi essenziali proprio mentre venivano costituite dopo venti anni di dibattiti. I Comuni soffocati dai tagli ai bilanci, dalle porte sbarrate ai giovani e dalle ripetute alluvioni di norme che, con il succedersi vorticoso di mese in mese, hanno portato le amministrazioni al collasso.
Il tentativo migliore è stato il bando per le periferie, che ha consentito l’avvio di molti progetti di trasformazione di parti di città non solo degli spazi e delle infrastrutture, ma anche dei servizi e delle dinamiche culturali.[8]
Proprio nel punto più alto, però si vede meglio la modestia della politica nazionale. Probabilmente, se non ci fossero stati i tagli quei progetti sarebbero stati realizzati dai Comuni con i fondi ordinari. Tutto si riduce a una partita di giro, alla fine arrivano gli stessi soldi, ma passando per la complicazione burocratica e gli inevitabili ritardi di un bando nazionale. È curioso come questo tipo di policy, pur tanto in voga, utilizzi a ribasso lo Stato, chiamandolo in causa solo per la competenza di finanziamento, ma non per le sue funzioni sostanziali. Tutto si riduce a stanziare dei fondi e stabilire dei criteri di selezione dei bandi, secondo gli aggettivi alla moda – sostenibile, inclusivo, innovativo – mentre invece dovrebbero essere i sostantivi a guidare l’azione statale, ad esempio i trasporti, la casa, la scuola. Su questi obiettivi la politica nazionale dovrebbe offrire grandi programmi strutturali che darebbero il quadro di riferimento alla libera inventiva degli aggettivi delle politiche comunali. Solo una politica nazionale dei sostantivi può attivare dei salti quantici nel grado di giustizia sociale delle città: se migliorano le dotazioni pubbliche necessarie per muoversi, per abitare e per istruirsi saranno soprattutto i ceti popolari ad averne un vantaggio.
Queste politiche sostantive si trovano però in Italia in un crinale difficile: debbono nel contempo recuperare i ritardi del passato e cogliere le opportunità del futuro.
Nei trasporti si va concludendo il programma dell’Alta Velocità, la più importante politica infrastrutturale italiana dell’ultimo trentennio. Se si riduce a migliorare i tempi di percorrenza tra Roma e Milano è ben poca cosa rispetto all’impegno profuso. Per utilizzare al meglio il possente investimento pubblico occorre un altro programma, della stessa portata finanziaria, volto a trasformare le vecchie ferrovie, che sono state liberate dal traffico nazionale, per realizzare moderne reti regionali, come hanno fatto i tedeschi e i francesi mezzo secolo prima con le S-Bahn e la RER. Si realizzerebbero le reti infrastrutturali capaci di innervare la paccottiglia edilizia dello sprawl, creando le occasioni per riprogettare le Città Metropolitane. Mentre si affronta il ritardo, però, incombono le sfide di una vera e propria rivoluzione della mobilità urbana. Le tecnologie digitali e i connessi nuovi stili di vita porteranno al superamento del mito novecentesco dell’automobile in proprietà. Potranno nascere nuovi servizi di mobilità che modificheranno radicalmente l’organizzazione urbana, come è accaduto venti anni fa con la telefonia mobile.
L’abbandono della politica della casa ha lasciato i ceti popolari in balia del gioco della rendita costringendoli a un disordinato esodo negli hinterland. Con l’esplosione della bolla tutto si è fermato in attesa di ricominciare come prima, mentre sarebbe l’occasione propizia per attivare progetti e convenienze del tutto nuovi, ridisegnando la regia pubblica, come propongono Laura Fregolent e Laura Pogliani nella sessione successiva. Invece di dismettere patrimoni pubblici, proprio adesso che valgono di meno sul mercato, sarebbe meglio utilizzarli per riportare le residenze nella città consolidata: nella caserma dove i giovani passavano la naja potrebbero mettere su casa le giovani coppie. Invece di aspettare che le rendite tornino ai livelli passati, si potrebbero attivare capitali pazienti in grado di offrire canoni calmierati. Gli immobiliaristi più lungimiranti cominciano a capire che certi manufatti in zone degradate non hanno alcun valore e che possono essere recuperati solo se si riattiva il metabolismo sociale e si apre il quartiere alle culture giovanili.[10] Quando si dice rigenerazione urbana stupisce sempre lo scarto semantico tra il significato impegnativo di dare nuova vita e i poveri strumenti normativi e immobiliari con i quali si intende cogliere l’obiettivo. La rigenerazione è tale solo se attiva una produzione sociale e culturale della città nuova. La partecipazione popolare non è un’attività accessoria o peggio ancora un imbellettamento retorico, ma una via essenziale per l’efficacia dei progetti, come dimostrano i contributi di Gaetano Giovanni Daniele Manuele su un’esperienza di rigenerazione dal basso a Catania e Saverio Santangelo, Nicole del Re sulla partecipazione di comunità come alternativa al neoliberismo nella costruzione della città.
La scuola è l’istituzione decisiva per la trasformazione urbana. Perché la diseguaglianza è prima di tutto cognitiva. In alcune borgate di Roma i livelli di istruzione sono dieci volte inferiori rispetto a quelli dei quartieri centrali[11] e da qui discendono tutte le altre marginalità, di lavoro, di salute e dello spazio pubblico. Se vogliamo rigenerare la città abbiamo bisogno di scuole aperte giorno e sera, non solo per istruire i bambini e i ragazzi, ma per riportare anche gli adulti alla formazione permanente. L’edificio scolastico dovrebbe diventare il centro civico del quartiere, il laboratorio della trasformazione urbana, il luogo di educazione alla cura dei beni comuni, di organizzazione dell’alternanza scuola-lavoro, di relazione tra saperi tecnici ed esperienze vitali, di diffusione della consapevolezza ecologica, di cooperazione tra le forze della cittadinanza attiva, di libera espressione dei linguaggi giovanili. E tutto ciò offrirebbe nuove opportunità alla stessa didattica, come dimostrano le esperienze raccontate da Emanuela Coppola su L’Urbanistica a scuola come strumento per contrastare la povertà urbana e accrescere il senso di città.
Se vogliamo che “città della conoscenza” non rimanga un’espressione retorica o una riedizione di un vecchio economicismo o peggio ancora una mera illusione tecnologica, deve qualificarsi come politica dell’apprendimento sociale. E solo per questa via si può alimentare la saggezza, fino a condurla all’equilibrio con la potenza nuova del nostro tempo.
[1] C. Baudelaire, I Fiori del male, Fratelli Fabbri, 1968, p. 113.
[2] N. Brenner, Stato, spazio, urbanizzazione, Guerini, 2016, ebook, pp. 1787-95.
[3] F. Bria, E. Morozov, Ripensare la smart city, Codice, 2018.
[4] F. Tonello, L’età dell’ignoranza, Bruno Mondadori, Milano 2012.
[5] S. Sassen, Città globali, Utet, 1997.
[6] M. Grimaldi, La macchia urbana. La vittoria della diseguaglianza, la speranza dei commons, Aracne, 2018.
[7] M. Vegetti, Il dono di Prometeo non basta all’uomo. La potenza è veleno se manca la giustizia, in “La Lettura” del 18 marzo 2018. È il testo pubblicato postumo che l’autore non riuscì a leggere alla conferenza alla Casa della Cultura di Milano pochi giorni prima della sua scomparsa.
[8] Anci, Urban.it, Dossier sui progetti di Comuni e Città metropolitane per il Bando delle Periferie, 2017.
[10] M. Calderini, P. Venturi, Serve un nuovo paradigma di sviluppo per la rigenerazione urbana: https://goo.gl/o84LtS

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