di Benedetto Vecchi
Machine learning, predittività. Machine learning, predittività. Sono le due espressioni mutuate dall’intelligenza artificiale per indicare la radicalizzazione in atto del processo di automazione del lavoro umano. Non solo le attività manuali sono oggetto di indagine e di formalizzazione matematica da parte di ingegneri, fisici, matematici e manager per ridurre al minimo l’”interferenza” umana nel processo lavorativo; ormai anche le attività cosiddette cognitive – il lavoro impiegatizio ovviamente, ma processi di sostituzione macchinica di questo tipo di mansione sono già in corso da decenni – vedono programmi informatici, banche dati e macchine in una azione tesa a “rimuovere” la presenza umana in alcune attività, servizi e lavori che hanno avuto sempre come componente imprescindibile la capacità umana di valutare e intervenire in situazioni ritenute sofisticate dal punto di vista cognitivo o complesse. Non si tratta infatti di automatizzare lavori a basso contenuto di abilità, bensì lavori ad alto contenuto di specializzazione, come recitano i manuali aziendali o le brochure dei programmi di intelligenza artificiale ormai venduti come fossero gadget consueti del panorama aziendale. L’umano è però ancora oggetto di desiderio e ostacolo, limite da rimuovere, come sempre quando si tratta di parlare e affrontare il sistema di macchine nel regime del lavoro salariato. Oggetto di desiderio, perché senza la sua presenza, la sua capacità di sviluppare cooperazione e di agire in accordo con le caratteristiche della specie umana – siamo pur sempre un animale sociale, meglio un essere sociale – è elemento essenziale nella possibilità di immaginare e progettare macchine che sostituiscono abilità umane. Limite perché gli umani, cioè il lavoro vivo esprime, nonostante il potere manageriale, alterità, insofferenza e insorgenza verso l’esercizio del potere e della gerarchia che caratterizza il lavoro sotto padrone. Le macchine, storicamente, sono servite al capitale per spezzare questa insopprimibile resistenza. Ma in un contesto di intelligenza artificiale la linearità dell’intervento del capitale perde in capacità trasformativa, incontrando problemi di non poco conto, come ad esempio la produzione di innovazione, l’attivazione di una cooperazione sociale lavorativa adeguata al ciclo globale di una merce. Inoltre c’è da registrare che, nonostante il machine learning e la predittività conseguente, viene comunque rinnovata la conferma di quella manifestazione empirica che attesta la perdurante sconfitta di ogni tentativo di creare macchine davvero intelligenti. Detto più pacatamente, resistenza operaia e limiti nella ricerca scientifica fanno sì che allo stato dell’arte dell’intelligenza artificiale, è impossibile progettare davvero macchine che svolgano con “creatività” mansioni lavorative umane sia manuali che cognitive. Ma si impone un po’ di ordine espositivo.
La legge della potenza Il primo aspetto da comprendere è cosa si intende per machine learning, cioè macchina che apprende. Sono macchine che elaborano velocemente una grande quantità di dati e offrono risposte in tempi rapidi, al punto da apparire appunto “intelligenti”. La grande quantità di dati è resa possibile dall’accesso – veloce e a costi quasi nulli – alla Rete; la velocità di elaborazione deriva da potenti microprocessori e da programmi informatici sempre più sofisticati. Il primo aspetto esprime la conferma della legge detta di Moore, in base alla quale la potenza elaborativa di un computer raddoppia ogni 18 mesi, mentre il costo dei componenti si riduce con un tasso variabile di tempo che segue però a ruota quello della elaborazione. Questo significa che ogni diciotto mesi vengono assemblati e venduti computer e reti di computer con una potenza raddoppiata di calcolo e con costi talvolta inferiori ai computer della “generazione” precedente. Per le imprese significa investire in informatica, automatica, robotica a costi gestibili, di gran lunga minori di quelli del lavoro vivo. Da qui l’uso intensivo, e capitalistico, dell’hi-tech volto comunque alla sostituzione del lavoro umano. Finora è accaduto prevalentemente per le attività manuali. La tendenza in atto è che la velocità di elaborazione, l’accumulo di dati vale anche per il lavoro impiegatizio, delegando agli utenti l’esecuzione di alcune operazioni semplici, come chiedere un estratto conto, pagare una bolletta, ordinare una merce. Per operazioni più complesse intervengono sistemi esperti, al punto che anche alcune diagnosi mediche vedono ormai in azioni computer e data base in assenza di medici e personale sanitario. La machine learning è dunque una macchina che accede a grandi quantità di dati, elaborando i risultati molto più velocemente degli umani, sia a livello individuale che di gruppo. L’automazione di queste mansioni “cognitive” favorisce la cacciata di centinaia di migliaia di lavoratori “cognitivi”. L’intelligenza artificiale non fa dunque che enfatizzare la crescita di una disoccupazione strutturale, C’è da interrogarsi sul fatto che tale disoccupazione possa essere riassorbita, come postulato in passato da alcuni economisti classici, tra i quali Joseph Shumpeter e Lord Keynes. Nelle loro teorie, veniva affermato che gli espulsi da un settore economico sarebbero stati riassorbiti, in termini occupazionali, prima o poi da un nuovo settore nato dall’innovazione tecnologica. La situazione è tuttavia meno lineare di quanto attestano i manuali di economia o le teorie economiche. Il recente rapporto dell’Ocse (https://read.oecd-ilibrary.org/employment/oecd-employment-outlook-2019_9ee00155-en#page1) sul futuro del lavoro ridimensiona al 14% le fosche previsione di una riduzione radicale dell’occupazione mondiale nei prossimi dieci anni (un precedente studio arrivava fino al 50%), ma è indubbio che anche se queste percentuali al ribasso fossero confermate si tratterebbe sempre di milioni di posti di lavori persi in presenza di crescite occupazionali risibili. E non c’è neppure da ipotizzare che la geografia dell’occupazione segua le linee di sviluppo del capitalismo. In risposta alla tesi di una disoccupazione di massa strutturale, è stato risposto che in passato è calato il lavoro nel Nord del Pianeta, mentre cresceva un robusto proletariato al Sud. Tesi consolatoria che chiudeva gli occhi che il lavoro cresciuto nel Sud del pianeta era legato a una contingenza. Significativi sono i dati emergenti nella Cina, la realtà politica, sociale e economica dove maggiori sono gli investimenti in Intelligenza artificiale allo scopo di costruire una economia competitiva, producendo però disoccupazione, un fattore che sta mettendo in seria crisi l’obiettivo di Pechino di creare una “società dell’armonia”. La disoccupazione, in futuro, sarà dunque di massa, anche se le percentuali di crescita economica potessero tornare al formidabile 8,9 per cento cinese o al 2, 3 per cento annui dei primi due decenni dell’era neoliberista nel vecchio continente.
Uno scarso lavoro Lo sviluppo economico capitalistico sarà dunque sempre più senza lavoro, ridotto dunque a risorsa scarsa, sempre per usare un lessico caro all’ideologia liberista. Si aprono così scenari che alimentano tesi sul municipalismo solidale o su rinnovate forme di esperienze di mutuo soccorso finalmente in rete grazie alle possibilità di coordinamento garantite dalle tecnologie informatiche. O a forme universali di reddito di cittadinanza, finalmente lontane anni luce da quel ricatto e da quella sadica politica di condanna alla povertà che ha animato il governo guidato dalla coppia, ormai scoppiata, Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Al di là della contingenza politicamente amara della realtà italiana, la questione del rapporto tra intelligenza artificiale, automazione e disoccupazione di massa investe molti aspetti “globali” inerenti la politica della ricerca, le politiche economiche nazionali e internazionali, una sorta di permanente mutamento antropologico del rapporto tra umani e macchine, nonché di composizione sociale delle classi, in una permanente ristrutturazione che conduce a una loro scomposizione al punto che sembrano emergere formazioni sociali fondate su logiche di censo e di casta. Sul mutamento antropologico del rapporto con le macchine c’è da partire dal fatto che ormai l’infrastruttura tecnologica – computer, smartphone, microprocessori – è ormai una presenza abituale, tale da costituire per gli umani una seconda natura. Sono inoltre progettate per essere macchine performative: ogni loro azione è tesa a modificare la realtà sociale nel quale sono inserite, condizionando, meglio avendo il potere di definire l’habitat e i comportamenti possibili degli umani. Manifestano cioè un potere “politico”, mettendo in discussione il dominio della specie umana sulla realtà. E poi: le machine learning oltre a modificare l’organizzazione e i contenuti del lavoro, sono da considerare scosse telluriche nei rapporti di potere tra Stati ed economie nazionali (la Cina, ma anche la Corea del Sud, l’india). Allo stesso tempo, mette a soqquadro gli ordinamenti politici, i diritti individuali (la privacy, la proprietà sui propri dati personali). Temi affrontati nell’ultimo numero della rivista Aspenia, pubblicata dall’Aspen Institute (La politica dell’algoritmo, pp. 220, euro 12). La rivista muove dalla convinzione che l’automazione e l’intelligenza artificiale costituiscono una evoluzione positiva per le società mondiale. E per il capitalismo. Il problema, semmai, è gestire l’attuale transizione, costellata da vertiginose ascese di economie “periferiche” e da altrettanto vertiginose disuguaglianze sociali, cioè povertà diffusa, precarietà lavorativa ed esistenziale come condizione generalizzata. Basta dunque un po’ di redistribuzione del reddito e di politiche attive del lavoro, si legge su Politica dell’algoritmo. Un buon senso condivisibile, ma che lascia le cose così come sono. Quel che invece si impone con forza è una sorta di legittimazione di una “tecnostruttura”, che ha una logica del tutto esterna alle relazioni sociali, Si presenta cioè come un potere che sovra determina scelte economiche, politiche, scelte individuali. L’intelligenza artificiale non farebbe niente altro che funzionare come una ideologia di questa tecnostruttura. Non è però questo l’orizzonte che inquieta il filosofo francese Eric Sadin, noto per il volume La siliconizzazione del mondo (Einaudi, 2018, pp. 216, euro 17,50) e fustigatore della “ragione artificiale” in un suo recente saggio (Critica della ragione artificiale, Luiss University Press, 2019, pp. 198, euro 21). In questo libro, molta attenzione è dedicata allo statuto stesso delle macchine informatiche, cioè alla loro capacità appunto performativa alla quale si aggiunge la crescente e conseguita “autonomia” dai loro costruttori umani. L’intelligenza artificiale è quindi da considerare una vera e propria filosofia che spiega le cose del mondo, rivendicando a sé la capacità di modificare il presente e plasmare di conseguenza il futuro.
Il dominio della tecnostruttura Eric Sadin non segue il facile sentiero di chi considera le macchine un pericolo dell’umanità, paventando un prossimo futuro dove le macchine mettono in campo la loro intelligenza da alveare riservandosi il diritto di muovere guerra agli umani nel caso si manifesti incompatibilità tra i loro bisogni riproduttivi – l’energia e i materiali per la loro costruzione – e quelli necessari alla vita di uomini e donne. Tesi che accomuna studiosi, ingegneri e filosofi oltre Oceano, come quella sviluppata da James Barrat (La nostra invenzione finale. L’intelligenza artificiale e la fine dell’età dell’uomo, Nutrimenti, 2019, pp. 304, euro 17,00)) o da Nick Bostrom (Superintelligenza. Tendenze, pericoli, strategie, Bollati Boringhieri, 2014, pp. 522, euro 28,00). E respinge con forza le suggestioni sul transumanesimo e sulla singolarità tecnologica che vedono, come scrive in La singolarità è vicina, (Apogeo, 2008, pp. 608, euro 28,00), l’ingegnere a capo della sezione sulla Deep Mind di Google Raymond Kurzweil, nell’intelligenza artificiale l’agente salvifico per sopperisce ai limiti fisici della razza umana, trasferendo nelle reti neuronali digitali e nei microprocessori l’esperienza e la storia umana, salvandola dall’inevitabile estinzione. Sadin, giustamente, si inerpica su un altro sentiero, difficile da percorrere, perché in bilico tra un egemonico determinismo tecnologico (l’anarco-capitalismo della Silicon Valley) e la difesa dell’umano in quanto riflesso e opera di una volontà divina. La sua Critica della ragione artificiale si poggia cioè su una concezione delle macchine come manufatto che non solo esegue meglio degli umani alcune operazioni – manuali e cognitive – ma che, attraverso l’ambiente digitale, esprime una potenza alethica, che ha cioè la capacità di ridefinire i criteri del vero e del falso secondo le linee guida del verosimile. Una cosa, una affermazione, una realtà non è vera o falsa, secondo i teorici del digitale e dell’intelligenza artificiale, bensì può essere valutata in base ai criteri del verosimile, cioè che può essere sia falsa che vera, l’importante è che sia appunto verosimile. La predittività sta in questa terra incerta, in questo regno dell’ambivalenza, manifestando così un potere manipolatorio dei comportamenti e delle stesse previsioni. Uno sguardo disincantato sulla pervasività della Rete non può che notare la consonanza, meglio le assonanze tra il concetto di verosimile e di post verità. A questa constatazione Sadin aggiunge il fatto che le macchine, così come i programmi informatici che le fanno funzionare, hanno sempre più una connotazione antropomorfica, cioè assumono la morfologia umana o compiono azioni che “sembrano” fatte dagli umani, con i loro tic, incertezze, dubbi e arroganze. Il cyborg (fatto di silicio, acciaio e il materiale sintetico che lo ricopre) è paradigmatico. A oltre due decenni dalla sua pubblicazione, bisognerebbe compiere una rilettura critica del noto Manifesto Cyborg di Donna Haraway dove la filosofa statunitense già metteva a fuoco questa pregnanza del verosimile e della capacità performative delle macchine di modificare la realtà presente per costruire un futuro che riproduceva, rafforzandoli, i rapporti sociali e di potere della società capitalistica (Danna J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche, Feltrinelli, 2018, pp. 208, euro 10,00). Eric Sadin tuttavia rimane sulle soglia della critica del cyborg. Nel saggio ce ne sono echi, laddove afferma perentoriamente che la ragione artificiale è fondata su una continua negoziazione tra opzioni diversi e confliggenti tra loro, ma che il campo operativo viene definito dalle macchine, meglio dagli algoritmi che presiedono il loro funzionamento come un apriori intangibile. Più che una critica al capitalismo delle piattaforme o della sorveglianza o del postfordismo, il filosofo francese è dunque interessato a sondare lo statuto di ciò che definisce come tecnologie della perfezione (machine learning), capaci di imporre l’esattezza come criterio guida nella valutazione dell’operato di un computer o di un programma informatico. E’ cioè concentrato sulla analisi della “aletheia algoritmica”, la potenza performativa del digitale, campo di indagine dato per scontato e che produce rigetti e adesioni fideistiche al limite del religioso.
Il business della sorveglianza Il saggio di Sadin segnala l’instaurarsi di un vero e proprio ordine del discorso che sgombra il campo da equivoci. La “ragione artificiale” ha una funzione di rendere stabile, dunque prevedibile l’interpretazione della realtà. Siamo cioè all’emergere della predittività come fattore determinante dell’uso dell’intelligenza artificiale. Qui il termine assume un carattere quasi enigmatico, al confine del religioso per chi vede manifestarsi capacità profetiche delle macchine informatiche. Significa semplicemente che una programma di intelligenza artificiale e gli algoritmi che ne sono alla basa sono progettati per potere definire un set di reazioni possibili da parte dell’utente di un sistema informatico. Si acquista un libro o un disco ed è probabile che sia interessato all’acquisto di un libro dai contenuti simili o contigui o di un cd musicale. E’ quanto svolgono molti siti di acquisti on line, da Amazon a quelli della catene del supermercato preferito. E’ il contesto del “capitalismo delle piattaforme” o, come sostiene l’economista statunitense Soshana Zuboff nel suo The age of Surveillance Capitalism, del capitalismo della sorveglianza, dove piattaforme digitali, Big Data, intelligenza artificiale sono le leve per una grande trasformazione del regime del lavoro salariato (Shoshana Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism. The fight for a human futuire at the new frontier of power, Public Affairs, 2017, pp.691) Non c’è, sia chiaro, nessun demone in azione, ma solo la radicalizzazione di tendenze economiche e sociali incardinate su una serie di logiche dominanti che fanno del lavoro una risorsa scarsa, dell’innovazione una religione e della figura dell’individuo proprietario la figura sociale idealtipica attorno alla quale fare ruotare tutte la politica sociale del capitalismo contemporaneo. L’intelligenza artificiale funziona qui come una vera e propria tecnoutopia, che ha le caratteristiche di potere immaginare il futuro e presentare le “cose del mondo” come il risultato di processi irreversibili e determinati soprattutto dal sistema di macchine operante e in divenire. Ci sono scrittori di fantascienza, neurobiologi, ingegneri, matematici, fisici, ma anche futurologi della domenica che contribuiscono ad alimentare tale tecnoutopia. Compongono il variegato e glamour arcipelago di ciò che viene chiamato come transumanesimo, cioè di quel mondo nel quale si impone la necessità di superare i limiti del corpo umano, trasmigrando la mente su un supporto non umano. Quel che affermano i transumanisti non ha nulla di bizzarro; è una sorta di movimento di opinione che vede capitalisti di ventura, imprenditori della Silicon Valley puntare su questa utopia tecnologica che promette un futuro, va da sé, di abbondanza e dove la morte sarà finalmente sconfitta. Fa certo sorridere leggere di progetti di ricerca scientifica dove l’obiettivo è di salvaguardare la mente connettendola a un esoscheletro meccanico digitale (fare uploading della mente, è l’espressione tecnica); oppure estrarre le informazioni, i dati dal cervello, riportandoli su una struttura digitale di tipo computazionale. Sono propositi ammessi a mezza bocca da chi li sta portando avanti, limitandosi a confermare che l’orizzonte delle interfacce tra digitale e organico servono solo per protesi sostitutive di parti del corpo umano; oppure che l’estrazione dei dati vuol dire solamente cercare di capire come funziona il cervello umano e le sue reti neurali. In fondo lo sviluppo di interfacce tra naturale e artificiale nonché progetti per la mappatura delle reti neurali sono gli ambiti di ricerca che continuano a ricevere miliardi e miliardi di euro di finanziamenti ad ogni latitudine capitalistica.
Incubi da tecnoutopie Scorrendo, i curriculum dei finanziatori delle fondazioni transumaniste o di società che garantiscono il mantenimento del cervello in stato di ibernazione si scoprono personaggi importanti nella Silicon Valley, come appunto Ray Kurzweil, ingegnere capo alla Google per quanto riguarda l’intelligenza artificiale; oppure si apprende che il capo i PayPal e potentissimo capitalista di ventura Peter Thiel o l’eccentrico ex boss della Tesla Elen Musk finanziano progetti di intelligenza artificiale per sostituire gli umani con computer o cyborg. Il transumanesimo è cioè l’ultima frontiera dell’ideologia californiana, quella che promette abbondanza e ricchezza da quasi mezzo secolo e che manifesta una vision della natura umana dove non c’è posto per coscienza, passioni, unicità di corpo e mente: l’uomo è un essere computazionale e il funzionamento della sua testa può essere rappresentato come una central processing unit di un computer. Basta solo avere microprocessori potenti, una grande capacità di memorizzazione e la simulazione della mente umana con una macchina sarà cosa fatta. Bisogna dunque solo avere pazienza e riporre fiducia nella computer science e nell’intelligenza artificiale. Questo grumo di convinzioni, frutto di una fede religiosa nella scienza, è analizzato da Mark O’ Connell in Essere una macchina (Adelphi, 2018, pp. 260, euro 19), un viaggio nell’ideologia transumanista che ha portato questo scrittore e giornalista irlandese a incontrare le teste d’uovo di questa sottocultura. Ogni incontro è segnato da inquietudine, paure, rabbia, atteggiamento di sufficienza. L’autore crede fermamente nell’unicità e integrità della natura umana. Crede cioè che gli umani sono tali perché il loro corpo non è separabile dalla loro mente. Ritiene cioè il dualismo mente-corpo un grande errore teorico. Visita la sede della Alcor Life Extention Foudantion, che per 200mila dollari garantisce l’ibernazione del corpo in attesa che l’uploading della mente su una macchina sia possibile. Ma se si vuole conservare solo il cervello la tariffa è di 80 mila dollari. Scopre che ci sono decine e decine di corpi ibernati in attesa di ritornare in vita. Incontra un geniale ricercatore in crittografia (Ralph Merkle), figura mitica della Silicon Valley per avere messo a punto un sistema di comunicazione “blindato” che mette la mano sul fuoco che la simulazione della mente potrà avvenire tra dieci anni, al massimo venti. Oppure si dilunga in conversazioni con la scrittrice di fantascienza e artista Natasha Vita-More, che evoca la mutazione e manipolazione del corpo da parte di artiste come Stelarc, segnalando così che il superamento dei limiti del corpo è immanente alla natura umana. E ricordando anche che l’ideologia californiana ha sempre attinto alle controculture degli anni Sessanta e Settanta, cambiandogli di segno, facendole diventare la welthanshaung del capitalismo contemporaneo nonostante le crisi economiche e l’ascesa del populismo. Gli incontri si susseguono, l’autore incalza i suoi interlocutori, che bonariamente rispondono alle obiezioni con la protervia e l’arroganza di chi esercita un potere nella società al riparo dello sguardo del pubblico. L’umanesimo di Mark O’Connell è sbandierato senza timore. Ma è una risposta “umana, troppo umana” ai progetti futuribili della “singolarità tecnologica”; e vieppiù vana rispetto alla promessa di sconfiggere la morte, di garantire l’immortalità e un futuro senza nessun dolore fisico, malattia, anzi garantendo una possibilità illimitata di esperienza e di possibilità di pensare a cose belle e importanti. Neppure il dubbio che il transumanesimo possa legittimare una visione razzista, aristocratica, di censo delle relazioni sociali scalfisce le convinzioni degli intervistati. I rapporti sociali attengono ai limiti della natura umana, che saranno superati con l‘uploading della mente o la simulazione della stessa con una macchina. Certo serviranno un po’ di soldi e un ragguardevole portafoglio, ma la Silicon Valley ha già garantito, sostiene ad esempio Ray Kurzweil, una crescita della ricchezza per milioni di uomini e donne: saprà trovare il modo per consentire a tutti di annullare le disuguaglianze di classe, di sesso, di razza. E poi c’è già un partito transumanista globale (ce ne sono anche sedi italiane) che si batte per garantire a tutti questa prospettiva tecnologica. Il transumanesimo non è però una bizzarria di miliardari annoiati e impauriti dalla morte. E’ una vera e propria ideologia, con punti di forza indubitabili (il potere economico), anche se minoritaria, anche se riesce ad esercitare una qualche egemonia culturale rispetto la visione dei rapporti sociali che esprime. E’ meritocratica ma lascia aperta la porta a tutti nel preservare la propria unicità mentale; propone un mondo libero da sofferenza e sfruttamento, perché i dati salvaguardati consentono di stare sul mercato in una posizione di forza. Propone una via di uscita da disastri ambientali, sovrappopolazione, limitazioni e progressivo esaurimento delle risorse naturali, perché le menti salvate da morte non avranno corpi che consumano alimenti e energia, bensì macchine più o meno seducenti che consumano poco e che possono andare anche con l’energia solare. E con indubbia capacità di pubbliche relazioni, molti dei transumanisti ricordano che l’antecedente del transumanesimo è quella attitudine postumana, che vedeva la possibile simbiosi tra umano e artificiale come una concreta possibilità di soluzione di malattie e handicap disumanizzanti. Il transumanesimo sarebbe dunque una evoluzione del post-umano. Significativi sono i riferimenti a una opera considerata la bibbia di questa ideologia (La singolarità è vicina), dove Kurzweil elabora uno schema in base al quale prevede che i tempi di sviluppo di tecnologie e software adeguati per questo scopo rispondono quasi a leggi oggettive, come quelle che prevedono ogni tot mesi il raddoppio della potenza di calcolo dei microprocessori. Qui la fantascienza sembra proprio farla da padrone, ma sarebbe un approccio sbagliato. Il transumanesismo è una visione feroce dell’evoluzione. Sopravvive solo chi può, cioè ha i mezzi economici per farlo. Oppure i prescelti per l’immortalità sono coloro che hanno le relazioni giuste, che sono dentro una rete sociale e economica di potenti. In una miscellanea tra visione tribale, feudalesimo digitale e fede nel capitalismo, il transumanesimo è il tentativo di rispondere alla perdita di forza propulsiva dell’ideologia californiana dopo la crisi del 2008, la crescita del timore di una povertà su scala globale dovuta alla sostituzione degli umani con le macchine e alla crisi ambientale.
Una perdurante egemonia Ideologia del declino potrebbe sembrare. C’è da dubitarne. In primo luogo, l’egemonia culturale continua a manifestare un dinamismo nella sua capacità di costruire consenso. Inoltre, proprio perché gramscianamente si colloca nell’interregno, cioè laddove il vecchio non muore e il nuovo non riesce ancora a nascere, è una ideologia della crisi: la tecnoutopia immagina il futuro alla luce di una permanente crisi. Quella la sua forza. Quello il suo limite. Il limite sta infatti nella difficoltà di non riuscire a garantire più le promesse di ricchezza e abbondanza per tutti. Da qui la torsione degli ultimi anni attorno alla nozione di capitale sociale e umano. Ogni uomo e donna possiede il suo capitale umano: è sua responsabile investirlo bene, perché sarà sua la responsabilità del successo o insuccesso economico, lavorativo, affettivo. Un dispositivo culturale, questo, che mostra ancora oggi, nonostante la crescita delle diseguaglianza sociali, della povertà e di crollo della capacità di integrazione delle istituzioni politiche neoliberali, una capacità egemonica. C’è un nodo che neppure i sacerdoti del capitale umano, descritti con sagacia quasi venti anni fa dal sociologo francese Pierre Bourdieu, non riescono a sciogliere. Se il lavoro diviene risorsa scarsa, se l’intelligenza artificiale non può che consolidare il ruolo delle piattaforme digitali nel coordinare la vita associata, come garantire la tenuta del capitalismo. Qui la prassi teorica non può che incontrare il Politico e fare i conti con il pensiero critico. I marxisti anglosassoni Nick Srnicek e Alex Williams non nascondono la loro ambizione a proporre una soluzione semplice ma difficile a farsi, va da sé. Nel loro Manifesto accellerazionista (Laterza, 2018, pp.62, euro 7,00) sostengono la tesi che non si possono fermare le tendenze dell’innovazione scientifica e del capitalismo. Nessun rallentamento, nessuna opposizione che insegue malinconicamente l’obiettivo di una piena occupazione; non vale la pena perdere tempo nel favorire, accompagnare la tendenza dominante con lo sviluppo, propedeutico alla fuoriuscita dal capitalismo, di esperienze di mutuo soccorso non sostitutivo delle politiche nazionali. Per i due studiosi tale molecolare cooperazione sociale può forse e talvolta rafforzare un legame sociale in deficit di sviluppo e tenuta, ma non evita i vicoli ciechi delle folks politics, cioè del localismo che impedisce la progettazione di politiche nazionali appunto “accellerazioniste”. Il mutuo soccorso ha sì lo scopo principale di rafforzare le soggettività sociali e politiche, divenendo momento di organizzazione e autorganizzazione sociale, ma allo stato attuale non riesce a modificare – qui l’analisi è condivisibile – i rapporti di forza. Per Srnicek e Williams, c’è una parola d’ordine politica che funziona come momento unificante, ricompositivo – il reddito di cittadinanza – che dovrebbe vedere protagonisti le esperienze di mutuo soccorso, i sindacati nazionali e i partiti laburisti e socialdemocratici ancora esistenti. Una tesi che ha trovato un ascolto attento nell’entourage del segretario del Labour Party Jeremy Corbin, ma una critica invece aspra da parte dell’economista e giornalista inglese Paul Mason, che nel suoi PostCapitalismo. Una guida al nostro futuro (Il Saggiatore, 2016, pp. 382, euro 24.00) e Un futuro migliore. In difesa dell’essere umano, Manifesto per un ottimismo radicale (Il Saggiatore, 2019, pp. 407, euro 24,00) indica nel mutuo soccorso e nell’autorganizzazione sociale il momento di sedimentazione e di cristallizzazione di una rivolta planetaria che i media dipingono come la caduta di fiocchi di neve destinati a sciogliersi alla prima variazione di temperatura, ma che per Mason invece attivano forma di soggettività politiche che viralmente si mettono in Rete e hanno la capacità di cambiare nel lungo periodo i rapporti di potere. Una predittività, questa, che ancora è in cerca di conferma, ma che si colloca sulla stessa onda accellerazionista laddove considera ineluttabile le tendenze del sistema capitalistico. I nodi del Politico L’accellerazionismo ha molte frecce al suo arco – la critica alla retorica passatista della sinistra europea, l’individuazione della disoccupazione di massa come destino del capitalismo contemporaneo – ma altrettanti limiti, a partire da una visione lineare, teleologica dello sviluppo capitalistico, quasi che tutto sia comprensibile in una dinamica predittiva, da sistema esperto appunto. Non è così, come questi turbolenti anni stanno segnalando, con ipotesi di deglobalizzazione, di neonazionalismo economico, di sovranismo: ipotesi che ormai segnalano, ognuna a suo modo, una torsione ulteriore di una economia globale in fibrillazione, sempre sulla linea di confine tra crisi e apocalisse. Una collocazione che ne facilita le capacità dinamiche tuttavia, in un complesso gioco di ruolo tra stati nazionali, organismi internazionali, mentre sullo sfondo le dinamiche e i conflitti sociali continuano ad essere sia la fonte della ricchezza che l’imprevisto che cambia il decorso della Storia. E di come quindi lo stesso regime di accumulazione capitalistica non necessariamente possa facilmente fare a meno del lavoro umano, in quanto fonte di innovazione di prodotto e di processo. E della capacità degli uomini e delle donne di sviluppare cooperazione produttiva. Il limite maggiore dell’accelerazionismo sta proprio nella sua rinuncia a scendere negli atelier della produzione: elemento che impedisce di comprendere come è cambiato e sta cambiando il rapporto di lavoro, quali sono le caratteristiche proteiformi del lavoro vivo, come esprime sia resistenza che una tendenziale capacità di produrre una autonoma cooperazione produttiva. Tutti temi che solo il rinnovato incontro tra una prassi teorica radicale e il Politico possono collocare nel loro adeguato ambito. Questo è il grumo di problemi nel quale le machine learning e la predittività operano. Lasciate a loro stesse non possono che accentuare le tendenze in atto – esiste anche un accelerazionismo di destra, basta spulciare tra i siti internet della destra statunitense per leggere materiali che vanno in questa direzione – ma il libero mercato è solo una tecnoutopia buona per legittimare i rapporti di potere. C’è infatti la realtà, poi. Dunque la posta in palio è una altra, cioè di una prassi teorica che incontra creativamente e nuovamente il Politico. Perché una prassi teorica che non si misura con la politica può forse illustrare l’abisso del presente scandito da sistemi esperti, Big Data, machine learning e algoritmi ridotti a tecnostruttura, ma non aiutare certo a compiere quel mirabile lavoro dell’utopia concreta di immaginare un futuro in comune.
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