Si è discusso molto prima dell’elezione di Leone XIV sul profilo che avrebbe dovuto avere il nuovo papa rispetto a ciò che aveva detto e fatto Papa Francesco. È utile allora, per comprendere una personalità così forte e complessa come quella di Papa Francesco, ritornare a un’intervista del 2014 a una rivista spagnola in cui affermava: “Andare alle radici, riconoscerle e vedere ciò che queste radici hanno da dare al giorno d’oggi. Non c’è contraddizione tra l’essere rivoluzionario e tornare alle radici. Di più, credo che il modo per fare veri cambiamenti sia partire dall’identità. Mai si può fare un passo nella vita senza sapere da dove vengo”. Andare incontro al mondo, uscire dall’autoreferenzialità senza tradire se stessi.
Una sfida ma anche una lezione troppo a lungo dimenticata dalla cultura e dalla politica progressista e di sinistra, intenta più a inseguire nuovi inizi con l’idea infantile di un nuovo che avanza facendo tabula rasa di culture, storie e identità. Più che l’etichetta progressista, che è fuorviante, Bergoglio è stato “radicale”, nel senso di chi vuole afferrare le cose dalla radice. Ha riportato al centro il messaggio evangelico, che per sua natura esprime una irriducibile radicalità.
Accanto alla “rivoluzione delle radici” l’altro tratto del pontificato è sotto il segno della misercordia, cioè la capacità di aprire il cuore all’altro, soprattutto ai più deboli e sofferenti, rompendo steccati. Questi due elementi fondano il pontificato di Papa Francesco e ci aiutano a capire meglio le intenzioni, l’atteggiamento e al tempo stesso a coglierne le contraddizioni e i limiti.
La contraddizione più evidente è quella di un Papa capace di suscitare un vasto sostegno popolare sia dentro, ma ancor più fuori dalla Chiesa, e una altrettanto evidente ininfluenza nei confronti delle classi dirigenti. Le sue parole sul tema migranti, pace, ecologia non hanno trovato orecchie attente neppure in chi si professa cattolico di Santa Romana Chiesa. Si è registrata come mai era avvenuto prima, proprio per la radicalità di questo Papa, una distanza così profonda, se non una rottura, tra le élites cattoliche e il magistero di Francesco.
Invece il limite, che anche in questo caso Francesco ha reso più evidente, riguarda il “depositum fidei”. L’apertura, la misericordia è in grado di rispondere alla domanda drammatica di Luca: “Quando il Figlio dell’uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla terra?”. Non è tempo per la Chiesa di avviare una sorta di inventario capace di discernere tra miti, prescrizioni, dogmi? Come scriveva Quinzio: “Passano gli anni, i secoli, i millenni, qualcosa si perde. Non si perde mai tutto però. Cosa si è perso o consumato e cosa invece non si è perso, non si è consumato e resta?”.
Ora, la scelta del Conclave fa intravedere una doppia consapevolezza: che tornare indietro a chiusure e dogmatismo sarebbe fatale, quindi continuare sulla via di Francesco; al tempo stesso ricucire accelerazioni e strappi che Bergoglio, con il suo stile diretto e “impulsivo”, come diceva di se stesso, ha introdotto nella vita della Chiesa. Resta quella domanda a cui il nuovo Papa sarà chiamato a dare una risposta, che riguarda chi fa parte della Chiesa e anche chi non ne fa parte ma riconosce nella religione una delle più autentiche e profonde dimensioni dell’essere umano, oltre il ruolo pubblico che essa svolge. Tanto più in questi tempi difficili dove c’è bisogno più che mai di costruire ponti, come ha detto Leone XIV dalla loggia centrale di San Pietro.
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