Sta per concludersi un altro annus horribilis, come avrebbe detto Queen Elizabeth. Per il pianeta quello più caldo, per l’Europa il secondo di una guerra insensata, per la Palestina quello di una nuova Nakba (catastrofe), dopo l’esodo del 1948. Guardando al 2024 intravediamo la possibilità di un cessate il fuoco in Ucraina, ben difficilmente una pace, certo non una “pace giusta”. Nel Vicino Oriente non si intravede la fine della tragedia umanitaria a Gaza e del fermento in Cisgiordania, e non si può escludere del tutto lo scivolamento verso una guerra fra Israele e Hezbollah, con coinvolgimento più o meno diretto dell’Iran e degli Stati Uniti.
Mentre nel Governo israeliano e nella dirigenza di Hamas predominano pulsioni irrazionali e potenzialmente autodistruttive (controllabili se ci sarà a Teheran come a Washington sangue freddo e fermezza verso gli alleati), nel conflitto russo-ucraino si affrontano “attori razionali”; anche se uno ha commesso un grave errore di calcolo due anni fa e l’altro persiste nei suoi piani inutilmente provocatorii di adesione alla NATO.
Il fronte ucraino
Come scrivevo già più di un anno fa (20/10/2022), “la guerra potrà essere fermata solo una volta raggiunta una fase di stallo se entrambe le parti si convinceranno di aver poco da guadagnare da una sua continuazione”. Fino a quando un aggressore sicuro della sua superiorità militare vede buone probabilità di vittoria, e l’aggredito è disposto a enormi sacrifici per salvaguardare la propria sovranità e integrità territoriale, non c’è spazio per il negoziato. Questa fase di sostanziale stallo sembrerebbe raggiunta oggi: ma non – come si sperava all’inizio della controffensiva ucraina – con i russi sulla difensiva e quindi disposti, forse, a ritirarsi da una parte dei territori conquistati dopo il 24 febbraio 2022.
Con l’esercito russo in sia pur lenta avanzata sul fronte del Donetsk, un ipotetico mediatore potrebbe puntare, nella migliore delle ipotesi, a un armistizio che congeli il confine provvisorio lungo la linea del fronte. Kiev non cederebbe formalmente un pollice del suo territorio, ma le sue province orientali rimarrebbero a tempo indefinito sotto il controllo di Mosca.
Sarebbe un grosso successo per il suddetto mediatore attribuire loro lo status di territori contesi fino a un ipotetico referendum; ma è difficile che, avendone dichiarata l’annessione nel 2022, il Cremlino faccia marcia indietro. Oltre al completamento, o quasi, della conquista delle oblast (regioni) di Donetsk e Luhansk (di cui dal 2014 al 2022 le due repubbliche ribelli controllavano meno di metà), la Russia consoliderà il possesso di gran parte delle regioni di Zaporijja e Kherson (senza i rispettivi capoluoghi).
Dopo il fallimento del tentativo di occupare Kiev e sottomettere l’Ucraina nelle prime settimane di guerra, avevamo constatato che Putin ripiegava su queste acquisizioni territoriali, che potevano giustificare le centinaia di migliaia di caduti e feriti gravi. E da noi si erano levate molte voci in favore di un “realistico compromesso territoriale”, ritenendo che Mosca fosse pronta a negoziare e Kiev rifiutasse ostinatamente di trattare.
Oggi anche l’ipotesi di una pace basata su sacrifici territoriali, dopo i quali l’Ucraina amputata sarà libera di aderire a NATO e UE, come evidentemente si pensa a Bruxelles, appare alquanto ottimistica. Mosca è consapevole dei fattori di debolezza della potenziale posizione negoziale dell’Ucraina: difficoltà a ricostituire i ranghi decimati delle sue forze armate, war fatigue degli alleati europei, perplessità del Congresso USA, interesse prioritario degli USA per Israele, Trump ante portas; mentre la Russia si è attrezzata per potenziare le produzioni belliche, ha sofferto meno del previsto per le sanzioni, ha sotto controllo il fronte interno, è tutt’altro che isolata internazionalmente.
Di conseguenza Putin non sta offrendo a Zelensky una via di uscita. Esattamente come Netanyahu, dice: andremo avanti fino al raggiungimento dei nostri obiettivi. E questi obiettivi sono non solo quelli territoriali (le quattro “nuove regioni”), ma anche quelli dichiarati al momento dell’attacco: la “smilitarizzazione” dell’Ucraina (sconfiggerla e disarmarla) e la sua “denazificazione” (liquidare tutti i nazionalisti ostili alla Russia e instaurare un regime amico); oltre, naturalmente al non-ingresso nella NATO.
Di fronte a questo irrigidimento non c’è alternativa a un massiccio sforzo collettivo per fornire all’Ucraina tutte le armi e munizioni di cui ha bisogno per contrastare i tentativi russi di sfondamento e per intercettare i missili e droni mediante i quali Mosca cerca di piegare la volontà di resistenza del popolo ucraino. E, nell’ambito di un dialogo sino-americano a tutto campo inteso a disinnescare una serie di minacce alla stabilità internazionale, un tentativo di convincere la Cina a esercitare un’influenza moderatrice sull’alleato russo e avviare una mediazione. Fin qui la Cina si è comprensibilmente astenuta dal togliere le castagne dal fuoco all’Occidente che la definisce “rivale sistemico”, cioè avversario (vedasi il “Concetto Strategico della NATO).
Cosa possono fare gli europei? Da un lato dimostrare che è vano sperare in una resa dell’Ucraina per mancanza di munizioni; dall’altro evitare gesti che servono solo a irritare e a far irrigidire Putin.
La questione dell’ammissione dell’Ucraina alla NATO è un inutile fattore di complicazione. È innegabile che Mosca si sia comportata come la falsa madre nel famoso giudizio di Salomone, che preferiva fare a pezzi il bambino piuttosto che cederlo. Ma anche la NATO, insistendo sulla ammissione in un prossimo futuro, si pone nella stessa logica. Sta in sostanza dicendo: siamo costretti ad abbandonare il Donbass e altre regioni nelle grinfie dell’aggressore, ma in cambio incorporiamo il resto dell’Ucraina nella nostra sfera geopolitica. Dare questo schiaffo a Putin non rende l’Ucraina più sicura. Rinunciarvi offrirebbe alla Russia un successo più simbolico che sostanziale, magari in cambio della sua rinuncia a pretendere un regime change.
Il fronte palestinese
Sul fronte palestinese è difficile immaginare schiarite. Gli interrogativi sulle intenzioni di Netanyahu circa il futuro di Gaza e dei suoi abitanti non hanno trovato risposte. Sappiamo soltanto che ha bocciato l’idea, patrocinata fra gli altri dalla Amministrazione Biden, di rivitalizzare la screditata Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e affidarle la gestione delle rovine di Gaza. E sappiamo che il proposito di liquidare tutti i terroristi (alias resistenti), e addirittura eliminare Hamas, è inattuabile. Perché Hamas non è solo il braccio politico delle Brigate Qassam, è un movimento politico che ha l’appoggio della maggioranza dei palestinesi, anche in Cisgiordania, e perché i combattenti liquidati saranno rimpiazzati dai loro fratelli minori.
Possiamo supporre che, fallito il tentativo di esodo forzato verso il Sinai, Netanyahu punti a favorire una lenta emorragia della popolazione affamata e senza tetto verso i paesi arabi ed europei, e a concentrare il resto in ciò che rimarrà della Striscia dopo averne ritagliato una zona cuscinetto. Come in Cisgiordania, la ribellione continuerà a serpeggiare, e Tsahal (l’esercito israeliano) continuerà a reprimere brutalmente la protesta.
Che in Israele il Governo responsabile del disastro del 7 ottobre, della catastrofe umanitaria, della mancata liberazione della maggioranza degli ostaggi, dell’evacuazione dei distretti del Nord, e delle tensioni con Washington venga rovesciato da forze moderate, favorevoli a un compromesso storico con i palestinesi, è una pia illusione. La società israeliana, a seguito del barbaro massacro del 7 ottobre, è pervasa dall’odio (parola che vorremmo bandire dal nostro vocabolario, ma purtroppo in certi contesti è un fattore da non ignorare); così come lo è la società palestinese dopo decenni di repressione, espropriazioni, vessazioni, violenze dei coloni.
Se la vicenda degli ostaggi dovesse concludersi con la scoperta che molti di loro sono morti (non importa se per fuoco amico, bombardamenti, rappresaglie o maltrattamenti), la rabbia della gente colpirà Hamas e i palestinesi in generale piuttosto che il Governo che ha anteposto la distruzione dei terroristi al loro riscatto. Ne scaturirà altro odio. L’odio, la volontà di vendetta, non la necessità di uscire dal circolo vizioso della violenza, non la ricerca della sicurezza, dominerà i rapporti israelo-palestinesi.
Un augurio per il 2024
Il mio augurio per il 2024 è che queste previsioni si rivelino pessimistiche. Che le armi tacciano, e che il fossato fra Occidente (in quanto alleato dell’Ucraina e di Israele) e il resto del mondo non si allarghi. Inoltre, che le elezioni europee non segnino una ulteriore avanzata delle forze sovraniste ed euroscettiche, che la scellerata riforma detta “premierato” faccia naufragio, e soprattutto che la resistibile ascesa di Trump inciampi in qualche ostacolo, giudiziario o altro. Augurio nel senso di antidoto alle previsioni, una specie di pillola di serotonina.
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