Mio figlio Vincenzo amava i giochi di parole di Franco Cassano e l’invenzione sua continua di stupefacenti parabole. Un giorno, a quattro-cinque anni credo, giunse a dare forma alla sua frustrazione e voglia di competere crescendo: “Quando anch’io mi enormisco…”: era la sua sfida a quell’omone grande e grosso, che lo incantava.
Non so se Franco da piccolo abbia concepito così il traguardo del crescere: enormirsi. Certo, la sua onnivora voracità fisica e intellettuale dava fisicità e concretezza a questa fantasia: enormirsi. A scorrere tra le pagine dei suoi libri la quantità di autori che ha “divorato”, a percorrere gli sterminati spazi di pensiero che ha attraversato – “approssimazioni” era il modo garbato suo di indicare certi “accostamenti”, ma erano assai più che questo: erano traversate, buttarsi in mare e provarsi a nuotare senza salvagente. “Lanciarsi come Colombo su rotte impossibili, continuare, come Galileo, a credere nelle proprie ossessioni contro lo scetticismo seduto dei dotti e le preoccupazioni delle Chiese” (Paeninsula. L’Italia da ritrovare, Laterza 1998, p.38).
Liberatosi con fatica e sofferenza delle “certezze infondate”, che la prima formazione intellettuale e l’accostamento al marxismo gli aveva prospettato (La certezza infondata. Previsioni ed eventi nelle scienze sociali, Dedalo 1983) non aveva certo cessato di “credere nelle proprie ossessioni”, in un nucleo irrinunciabile di istanze etico-politiche che comunque lo caratterizzeranno sempre come militante della sinistra. Troveremo fino alle ultime sue pagine la passione politica e l’idea che la responsabilità politica in un tempo di crisi consista appunto nel buttarsi a nuotare nel mare aperto di un pensiero non accademico né dommatico.
Paeninsula è forse la più chiara espressione della sua vocazione a lasciare “operette morali”. L’umiltà del male e Senza il vento della storia ne sono il seguito. Chiaro il richiamo a Leopardi, che amava molto, su cui più volte è tornato a riflettere. Ma non voglio qui tracciare una mappa del suo percorso. Solo osservare come fin dalle prime opere fosse chiara la sua incontenibilità nelle righe senza musica di una prosa da scienze sociali. Poesia: molti l’hanno riconosciuta subito, alcuni l’hanno recitata, più e più volte. Ai funerali in Università sono state lette le sue pagine di Modernizzare stanca: “ci sono giorni che…”.
Paeninsula si chiude con sei pagine di versi, ritmati da un incessante motivo: “L’Italia dei tanti mari”.
“L’Italia che è un grande ponte”
…
“L’Italia dei litorali”
“L’Italia che sa di Grecia”
“L’Italia delle frontiere,
l’Italia delle montagne,
l’Italia che non è ariana,
l’Italia dalle mille chiese,
l’Italia dei campanili”.
“L’Italia dei tanti mari”.
Sa di Grecia, l’Italia, ma il suo essere penisola, terra lunga, che unisce all’Europa e che neppure le montagne riescono a isolare, la rende diversa: Annibale e i suoi elefanti vi arrivarono dalla Spagna. Per essa il mare non è un tremendo destino, che può annientarti: l’Italia non è frastagliata e inquieta patria di partenze e nostalgici ritorni di uomini resi al mare. È parte non separata, è terra che vince il mare e lo ripartisce in pluralità di colori, stagioni, venti: si naviga sotto costa per migliaia di chilometri, per mari diversi.
L’estraneazione – che la scoperta dell’Oceano porta all’Occidente consegnandolo al dominio della tecnica – l’Italia non l’accetterà mai del tutto: il suo Sud la áncora alla luce e al calore del sole. Un carattere che si imprime nelle culture di questa penisola: nasce dalla sua consistenza di terra protesa nel mare ma mai isolata. Sedersi al sole, trovare il piacere della sosta: “lasciarsi andare con l’immaginazione come se noi fossimo ancora bambini e quella fosse un aquilone” (Paeninsula, p. 85).
È l’immaginazione che “ci enormisce”: proviamo a “immaginare di entrare in silenzio e in punta di piedi nella bottega di Cimabue il giorno in cui vi entrò giovanissimo Giotto”. “Che cosa spinse quel giovane pittore a dare peso e volume ai corpi, a farli sporgere dai fondali bizantini, a mettersi alle spalle il mondo straordinario e raccolto delle icone per iniziare a rappresentare i conflitti degli uomini, le loro passioni di carne, il loro essere vicini e lontani dalle divinità sovrastanti?”.
Dobbiamo metterci alle spalle una concezione monumentale della nostra tradizione culturale, scrive (p.34). Smettere di esibire il “senno del post”. Avere il coraggio di cercare il “senno del prima”: “guardare tutto dal punto di vista della vigilia o addirittura del giorno prima di essa”. È qui il punto critico per ogni immissione di vita nell’organizzazione seduta e stanca della cultura” (p.39).
Cassano è questo, il ricercatore dei modi di “immettere vita” in culture stanche e sedute. La vita così com’è, anche nuda. Con le sue tragedie. Ma anche creatività, sorpresa. Più che un innovatore, Cassano è un rivoluzionario politico del pensiero. Scoprire sempre il rovescio della medaglia. Pensiero enorme: provarci, sentire come propria ossessione il dovere di non sedere su memorie inerti e vanagloriose. Riprendere la voce, proprio lì dove sembra perduta: il suo legame col Sud non è “amor loci”, ma consapevolezza che il riscatto per tutti è possibile se anche gli ultimi vi partecipano.
Credo ci sia una sottaciuta religiosità, nel concepire il ruolo determinante che ha la configurazione naturale dell’ambiente in cui viviamo sul formarsi delle nostre credenze e sulle elaborazioni culturali di esse. Su quel che chiamiamo “identità nazionale”. Natura e ragione umana vissute come un continuum.
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