Proprio l’8 marzo 2025, nella Giornata internazionale dei diritti delle donne, il Governo Meloni ha inteso offrire alle donne la sorpresa di un disegno di legge (lo abbiamo già commentato nel blog della rivista Studi Sulla Questione Criminale) il cui fulcro è la creazione di una nuova fattispecie di delitto esplicitamente denominata “femminicidio”. Ne viene fornita una definizione («chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità») e, quanto al profilo sanzionatorio, la previsione della pena è quella dell’ergastolo (fisso, automatico).
Le reazioni allo scoop governativo hanno trovato consenso e plauso da parte di chi ha accolto tale modifica normativa come rivoluzionaria e innovativa, esaltando e apprezzando la valenza culturale, pedagogica e di uso promozionale del diritto penale, che già dal cambiamento nominalistico trarrebbe forza propulsiva verso un diritto penale moderno, non più neutro e falsamente universale, ma finalmente declinato anche al femminile. Dissentiamo da tali posizioni perché, puntando sul fattore lessicale invece che sulla effettività, assecondano una opzione di politica criminale solo simbolica, che cioè strumentalizza le valenze simboliche del diritto penale in chiave di pretesa rassicurazione collettiva. Purtroppo si incoraggiano così le politiche di legislazione criminale che sfociano nelle leggi-manifesto e del cd. populismo punitivo (nella realtà severo a senso unico, soltanto contro i diversi, i dissenzienti e i ritenuti nemici del sistema).
Peraltro dovremmo prender atto che in Italia la parola femminicidio si è ormai imposta e affermata nella attenzione pubblica e mediatica, nella politica e nella accademia. Ad oggi le resistenze iniziali alla sua concettualizzazione sono state vinte, come dimostra anche il fatto che nel 2023 Treccani, il prestigioso istituto italiano che si occupa di lingua e cultura, ha riconosciuto il femminicidio “parola dell’anno” e che già nel 2013 l’Accademia della Crusca aveva dedicato alla parola una consulenza linguistica. Dunque il femminicidio “esiste” nella rappresentazione sociale, tanto che compare nel lessico dei giuristi (ma come termine sociologico) e anche nei testi delle sentenze attente alla cd. prospettiva di genere (o di quelle che nominano il femminicidio, ma per escluderlo).
La tragedia del delitto Turetta in danno di Giulia Cecchettin ha rafforzato tale diffusa consapevolezza sociale e, sotto questo profilo valoriale, il mero riconoscimento nominalistico a livello giuridico penale nulla può aggiungere. Del resto è questione discussa se il diritto registri e segua i mutamenti nelle coscienze oppure li stimoli e li anticipi: quando il diritto è quello penale, si riducono le capacità di cambiamento sociale tramite lo strumento punitivo della minaccia e della inflizione della pena.
Certo le parole contano, eccome! Sia nel linguaggio comune che nel linguaggio giuridico. Ma le relative trasposizioni vanno verificate attentamente nei loro effetti.
Intanto la tipicizzazione penale prospettata dal Governo deve misurarsi con la varietà delle possibili scelte lessicali. In Italia ha prevalso il termine femminicidio e il Governo ha seguito tale onda; ma c’è chi preferisce femicidio o femmicidio o congiuntamente femicidio/femminicidio oppure ginocidio. In effetti l’origine del termine è l’inglese femicide, di natura sociologica, introdotto negli anni ’70 da Diana H. Russell, che voleva significare qualcosa di più ampio delle violenze contro le donne inquadrabili nel delitto di omicidio. Ma l’elaborazione giuridica si è assai dinamicamente sviluppata altrove, nel mondo sudamericano, e dunque in lingua spagnola (feminicidio), sulla base della impostazione antropologica della messicana Marcela Lagarde, mirata ad attirare l’attenzione politica sulla drammatica situazione vissuta dalle donne in Messico e volta a smascherare le responsabilità statali e istituzionali.
Sono assai numerosi i paesi sudamericani – a cominciare dal Costa Rica nel 2007 fino agli stati federali del Mexico – che hanno utilizzato lo strumento penale contro gli omicidi di donne, ma con una eterogeneità sorprendente nelle soluzioni praticate: basta consultare a livello ONU le accurate rassegne online (su Unodoc di Patsili Toledo Vasquez e su Unwomen di Alicia Deus e Diana Gonzalez), purché si riesca a orientarsi nella consultazione delle intricate tabelle di raffronto. Orbene la comparazione giuridica con la varietà delle opzioni nei sistemi penali sudamericani rende evidente la difficoltà di intervenire legislativamente in materia e dimostra che il disegno governativo è intervenuto d’imperio e ha scelto con l’accetta tra tutte le possibili opzioni tecniche di struttura: bene tutelato (“in quanto donna”); definizione e elementi costitutivi; fattispecie autonoma invece che omicidio aggravato; qualità e numero delle aggravanti; entità della pena; autore neutro o sessuato; soggetto passivo solo donna o altro; contestuale normazione penale di tutte le altre forme di violenza contro le donne; e, soprattutto, contestuali norme di prevenzione e di stanziamento risorse; oltre che nomen iuris (anche la Croazia ha recentemente normato l’omicidio di donna, ma senza rinominarlo, esattamente al contrario della riforma del Belgio, che ha nominato senza rinormare).
Il testo governativo circola ancora in bozza. Vedremo il definitivo. Ma non si dica che sarà poi il Parlamento a correggere e rettificare: l’esperienza della dinamica Governo-Parlamento non induce fiducia! E l’attuale sistema delle audizioni parlamentari non è certo veicolo di discussione aperta e confronto democratico, giacché non può dar voce a tutti gli operatori coinvolti sul campo.
Piuttosto la comparazione con il Sudamerica ci suggerisce un profilo di significativa differenza. Là, soprattutto nei paesi con numeri più impressionanti di assassini di donne (l’organismo ONU ECLAC – Commissione Economica per l’America latina e i Caraibi conteggia nell’anno 2023 una media di ben 11 donne al giorno assassinate per motivi basati sul genere), l’attenzione riformatrice era rivolta primariamente a creare consapevolezza sociale della tragica realtà machista e patriarcale, legittimata e impunita. È a questo fine che i movimenti femministi attuarono tutte le possibili pratiche politiche, ivi comprese quelle di nominazione giuridica. Oggi la tensione è volta piuttosto alla creazione di osservatori istituzionali che consentano la raccolta di dati, presupposto per progettare le politiche corrette. Peraltro i bilanci delle singole e differenziate scelte ordinamentali sudamericane, ormai più che decennali, non sono stati ancora redatti e purtroppo, anche a causa della accentuata diversità delle opzioni tecnico-criminali praticate dai vari sistemi, sono difficilmente comparabili tra loro.
Mi sembra che la condizione della realtà italiana non sia equivalente e che dunque, possiamo evitare politiche e strategie giuridiche affrettate e, nella sostanza, di primazia penalistica.
Ma non vogliamo, con la sottolineatura delle innegabili difficoltà di politica e di tecnica criminale, portare acqua al mulino di quei critici del disegno di legge governativo che, nel formulare censure condivisibili, non riescono tuttavia a nascondere il loro profondo misoginismo nei confronti di ogni iniziativa che iscriva nell’agenda politica il contrasto alla violenza contro le donne basata sul genere.
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