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Recensione “Non si piange su una città coloniale” di Walter Tocci

Tommaso Sasso propone un'introduzione alla lettura del libro di Walter Tocci dedicato a Roma
Pubblicato il 23 Novembre 2015
Laboratori, Laboratorio Roma

Trovo difficile immaginare modo peggiore, per discutere dell’ultimo libro di Walter Tocci, di ridurlo al “Marino sì, Marino no” di queste ore. Indubbiamente, però, gli accadimenti degli ultimi giorni ribadiscono la necessità di un progetto per Roma degno di questo nome. È una necessità che viene da lontano, e che non scaturisce certo, o comunque non soltanto, dalle recenti vicissitudini della politica romana. Sotto questo e altri profili, il libro di Walter offre qualcosa di più che qualche spunto, nonostante per stessa ammissione dell’autore si tratti di un ‘saggio irrisolto’. Irrisolto perché non offre una soluzione politica attraverso cui dare forma e sostanza alle analisi e alle proposte avanzate, ma ad ogni modo prezioso per affrontare una discussione sui destini della città con la serietà dovuta.
Parlare di un progetto per Roma è tutt’altro che scontato, per molti e diversi motivi. Il primo è che, ed è un merito di Walter aver preso di petto la questione, da almeno 15 anni ne manca uno.
È una constatazione che va letta, da parte sua, in chiave anche autocritica, e interroga la natura assunta e la funzione svolta dal Partito democratico capitolino negli ultimi anni. Non credo però che questa analisi possa arrestarsi sulla soglia della Federazione romana del Pd. Penso, al contrario, che investa tutti noi. Chi, come me, ha recentemente preso la dolorosa decisione di lasciare il partito, chi nelle sue fila non ha mai militato, chiunque, insomma, abbia nel suo piccolo un ruolo nel frastagliato campo della sinistra romana.
Un altro ottimo motivo per cui è tutt’altro che banale parlare di ‘progetto’, sta nelle parole dell’autore: «Solo in relazione agli obiettivi si seleziona e si rinnova la classe di governo, si incontrano le forze vive del cambiamento, si condensa una volonta? collettiva di riforma». Quando gli obiettivi mancano, o sono confusi, prevale l’improvvisazione e gli slogan prevaricano la riflessione e la progettualità.
Il libro è suddiviso in tre parti (1. Mutazione delle forme politiche 2. Tentativi di riforma dell’Amministrazione 3. Politiche di crescita civile ed economica), solo parzialmente discontinue, che è possibile leggere alla luce tanto della vena autocritica sopra ricordata, quanto della spinta propositiva che ne innerva le pagine.
Vengono approfondite le responsabilità delle Giunte di centrosinistra nel rinvio ventennale della crisi della Capitale, operato attraverso quello che potremmo definire un rimaneggiamento, tutt’altro che risolutivo, dei tre motori dello sviluppo romano, ormai avviati all’esaurimento.
Questi vengono individuati nella spesa pubblica di commissione, nella bolla immobiliare e nella stagione del consumo.
È un aspetto fondamentale da approfondire, anche in chiave di un necessario tentativo di comprensione delle cause profonde di ‘Mafia Capitale’. A fronte dell’esaurimento dei tre motori dello sviluppo, infatti, è stata la combinazione tra la mancanza di un disegno di ampio respiro e il conseguente, prolungato clima di rassegnazione a spianare la strada all’affermazione (uso parole di Walter) della “corruzione come fenomeno sociale”.
Il libro offre poi un’analisi ad ampio raggio sulle tendenze che hanno dato forma alla politica capitolina (e non solo capitolina). Si tratta di un’analisi da cui è difficile che la sinistra romana possa prescindere, a meno di voler perseverare in un’opera di autolesionismo che per alcuni è evidentemente talmente ben avviata da ritenere un peccato interromperla sul più bello.
La più devastante di tali tendenze è senza dubbio la personalizzazione, affermatasi, riportando un passaggio del libro, come l’unica forma capace di contenere le diverse funzioni politiche. Le funzioni a cui si fa riferimento sono chiaramente la progettualità, le relazioni con la società cittadina, la presenza sul territorio e la selezione della classe dirigente. È una tendenza che ha origini lontane, e viene variamente articolata. Basti pensare alla micro-personalizzazione, la formazione cioè di filiere territoriali legate al singolo Consigliere o dirigente di partito, concentrate sull’organizzazione delle preferenze e indifferenti alle esigenze della proposta politica e della partecipazione.
Al pari della personalizzazione, infine, la statalizzazione della politica è una degenerazione che, secondo Walter, affonda le sue radici nella stagione del centrosinistra, le cui riforme sono state poi piegate dalla destra a fini spesso opposti rispetto a quelli per i quali erano state varate.
Su di essa non intendo dilungarmi, così come su altri passaggi, ma è bene riflettere sulle reali dimensioni dell’ordine di problemi con cui non potremo che fare conti, nei prossimi mesi come nei prossimi anni.
Una volta messe a fuoco le principali distorsioni della vita politica romana, recenti e non, è doveroso soffermarsi sulle proposte che l’autore rimette al giudizio dei lettori. Mi pare valga la pena riflettere in particolare circa due filoni della riflessione di Walter, quelli della riforma istituzionale e della questione del lavoro a Roma.
È ormai evidente che l’attuale infrastruttura istituzionale capitolina faccia fatica a reggere le prove della soddisfazione dei bisogni della cittadinanza e del buon svolgimento della vita amministrativa della città. La radicalità della via che secondo Walter varrebbe la pena percorrere (abolizione del Comune, irrobustimento dei Municipi, Regione Capitale) non va certo letta come la volontà di falciare con un taglio gordiano un nodo tanto aggrovigliato da giustificare, almeno in apparenza, scorciatoie o colpi di spugna. Va piuttosto interpretata come un’opera di paziente riorganizzazione di un tessuto istituzionale sfiancato dalle sue contraddizioni e da liturgie spesso fini a se stesse. Quanto viene delineato, insomma, è tutt’altro che un intervento di mera ingegneria istituzionale, ma un disegno ambizioso attraverso cui dare riscontro alle esigenze dei romani e a un tempo preparare il terreno per un’iniziativa politica consapevole. A mio avviso, essa può e deve muovere, come anticipavo, da una nuova declinazione della Questione del lavoro a Roma. È un tema che meriterebbe un saggio a parte, anche e sopratutto alla luce delle considerazioni riportate nel libro. La tesi di fondo, a questo proposito, mi pare essere che Roma debba fare leva sulle forze migliori di cui dispone per ripensarsi, per sé e per chi la vive.
Walter indica binari diversi, ma paralleli, lungo i quali riattivare energie, sopratutto giovanili, sopite, o meglio anchilosate, per la drammatica mancanza di prospettive di cui siamo vittime.
L’impatto occupazionale, e dunque di miglioramento della degradata vita sociale romana, che avrebbe la costruzione di poli internazionali per la formazione, la ‘attivazione’ delle opportunità inesplorate rappresentate dai beni e dalle attività culturali, la riorganizzazione dei servizi alla persona e la riconversione ecologica della città è incalcolabile. Certo, occorre un piattaforma politica dettagliata a proposito, ma è l’impianto della riflessione di Walter a rappresentare di per sé un punto di partenza. Non sfugge infatti che quanto accennato da un lato rilancia la proiezione di Roma nel mondo (poli formativi; beni culturali e turismo) e dall’altro invita la città a tornare a occuparsi di sé (servizi e vivibilità). Quel che si propone, insomma, è una strada praticabile per Roma, per tornare a rivendicare un ruolo proporzionato a quel che è e a quel che ha sempre saputo coltivare, con tutto ciò che questo implica. Lo si può fare, anche e sopratutto, muovendo da una convinzione di fondo, che costituisce uno dei pilastri della stessa Questione del lavoro. Nelle parole dell’autore, “si puo? creare lavoro migliorando l’organizzazione della vita urbana”. Si tratta di un’affermazione, se vogliamo, apparentemente banale, tanto è evidente la sua validità. Eppure è raro trovare occasione di discuterne. Coinvolgere i romani in programmi partecipati di riqualificazione degli spazi, di sperimentazione di modalità nuove di fruizione dei luoghi di socialità cittadina, a partire dalle piazze, e inventare su questa base percorsi professionali inediti può essere una leva formidabile dello sviluppo di domani. Non solo. Può essere la dimensione entro la quale la città potrà recuperare una sintonia con chi la abita, messa a dura prova da disfunzionalità e malgoverno. Insomma, la validità del convincimento secondo cui “la citta? del lavoro e? il tema per una nuova sinistra di governo” va difesa e coltivata, e in base ad essa andranno costruite negli anni a venire alleanze politiche e sociali in grado di darle pienamente seguito.
In conclusione mi permetto di dare, a coloro cui dovesse capitare di leggere queste righe prima del libro, un consiglio sul modo che nel mio piccolo ritengo migliore per approcciarne la lettura. “Non si piange su una città coloniale” va preso per quello che è, ovvero un contributo (non sta a me dire quanto prezioso, essendo chiaramente di parte) al dibattito pubblico capitolino da parte di un uomo il cui impegno politico e amministrativo per la città non necessita di commenti o sbrodolature. Compito del lettore è dunque quello di non cedere alla tentazione di ricondurre le analisi sviluppate e le proposte avanzate a questo o quello schieramento, o peggio contro qualcuno o qualcosa. Non è tempo di polemiche, al netto della controfattualità di questa affermazione. È tempo, piuttosto, di meditare sulle forme e i modi migliori per spenderci, ciascuno nelle sue possibilità, per la Roma che verrà.
Se l’intenzione è questa, allora, come spero di essere riuscito ad argomentare, leggere il libro di Walter non è una cattiva idea.
Tommaso Sasso

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