Tre anni dopo l’assalto all’istituzione-simbolo dello Stato da parte di una folla portata alla frenesia dalla campagna di disinformazione sulle “elezioni rubate” coordinata dallo stesso Presidente uscente, gli Stati Uniti si affacciano a una nuova stagione elettorale. Manca solo un anno ormai alle presidenziali del 2024 e i riti canonici sono già iniziati, i dibattiti, i sondaggi, le analisi nei talk show, scommesse e quotazioni.
Nulla però è normale in un paese che non ha elaborato il trauma di un Presidente sconfitto che ha tentato di rimanere al potere, né la profonda mutazione “genetica” della politica di era trumpista e il tasso insidioso di violenza che ha introdotto nel dialogo e nella vita pubblica della nazione. Nel Partito repubblicano, questa mutazione ha prodotto lo scisma divenuto palese con la “guerra civile” sulla figura del Presidente della Camera, prima eletto dai repubblicani, poi deposto dalla fronda degli oltranzisti MAGA, ed infine sostituito con un integralista religioso, negazionista sulla vittoria di Biden e portatore di istanze che ancora qualche anno fa sarebbero state appannaggio delle frange più estreme e fanatiche, come la “cura” degli omosessuali attraverso la terapia di conversione.
Eppure, il paese si appresta ad affrontare il paradosso dello stesso ex Presidente, sopravvissuto a due impeachment, e ora pluri-incriminato, che torna a puntare il suo lanciafiamme demagogico sulle norme e sulle convenzioni della democrazia costituzionale. Trump si ripropone al contempo come candidato in pectore del GOP e “giustiziere” fuori dallo Stato, fuori dalla giustizia e in parte fuori dallo stesso partito che lo esprime. Boicotta i dibattiti in cui gli altri candidati si contendono il secondo posto, e grava sulla psiche del paese come il mefitico e iracondo tiranno raffigurato nella sua foto segnaletica.
Temporaneamente oscurato dalla crisi globale, Trump si assicura una cronaca quotidiana legata ai suoi percorsi paralleli, elettorale e giudiziario. La sua faida con magistrati, gip e pubblici ministeri delle quattro distinte giurisdizioni cui competono i suoi processi è fonte di un flusso costante di polemica mediatica e social che alimenta al contempo la sua campagna. Nei comizi chilometrici ed estemporanei ripete alla sua platea infervorata un repertorio sempre più incupito, infarcito di insulti personali e di minacce, in cui l’ovazione principale è riservata per la promessa “sarò la vostra retribution”, che sigla la definitiva sovrapposizione fra le sue recriminazioni vittimistiche e le rivendicazioni paranoiche che l’ex Presidente alimenta nella base.
La “retribution” in una democrazia vacillante
La parola retribution sintetizza un programma racchiuso nella punizione dei nemici e nella concezione di vendetta e rivalsa. Ce ne sarà per tutti, assicura Trump: Biden e la sua famiglia, le élites, i falsi americani, i giornalisti, gli immigrati criminali, i taccheggiatori da fucilare, i generali traditori, i burocrati ostruzionisti e, ovviamente, i magistrati che lo perseguitano. Il repertorio assomiglia a quello del 2016 e del 2020, ma è più esplicitamente simile a quello di un autocrate assetato di vendetta (o “aspirante dittatore”, come lo ha definito il Capo di Stato maggiore uscente generale Mark Milley, dopo che Trump aveva tacciato anche lui di tradimento e suggerito di passarlo per le armi).
L’anno che si apre sarà critico per le sorti della democrazia statunitense. Lo sarebbe stato anche senza la conflagrazione mediorientale che ha iniettato ulteriore volatilità in un momento di intensa incertezza. Gli Stati Uniti non sono più l’unico paese in cui la posta in palio, alla luce della risorgenza della destra nazionalista, è la sopravvivenza dell’ordine costituzionale. Negli ultimi sei anni la prevedibile metastasi si è estesa ad altre nazioni, ma, per usare una espressione di Madeleine Albright spesso citata da Joe Biden, gli USA sono, nel bene e nel male, la “essential nation”, e se l’argine non dovesse tenere qui, lo straripamento potrebbe diventare incontenibile.
L’assalto frontale e “epocale” alla Costituzione è diventato di recente un tema sempre più ricorrente e urgente dei discorsi dell’anziano Presidente. In una intervista concessa a ProPublica a fine settembre, Biden ha ripetuto che la democrazia è in bilico e che Trump è sempre più simile a un animale messo all’angolo. “Credo che Trump abbia concluso che debba vincere a tutti i costi” – ha detto, commentando l’inasprimento della retorica dell’avversario – “e farà di tutto per farlo.”
Il peso, l’entità e la quantità di imputazioni – 91 – a carico di Trump rendono quasi inevitabile almeno alcune condanne, il che significa che la sua migliore opzione, forse l’unica, per sottrarsi alla giustizia è la rielezione. Una vittoria “obbligatoria”, che ingigantisce la probabilità di violenza in caso contrario. Non può che leggersi in quest’ottica l’escalation retorica dell’ex Presidente che si scaglia quotidianamente contro i giudici e i giurati dei suoi processi, la sinistra “squilibrata e radicale” che vuole distruggere l’America e l’invasione di stranieri che ne “avvelena il sangue1”. Tira, in altre parole, un’aria decisamente reminiscente di quella che ha preceduto la debacle del 2020, foriera di una instabilità semmai ancora più precaria.
Biden fra rooseveltismo e “forever wars”
Biden, assurto come opzione “normalizzante” dopo la sbandata trumpista, parlava allora di un paese che aveva “sbirciato nell’abisso,” ma oggi rischia di convertirsi lui stesso in elemento destabilizzante, insistendo su di una ricandidatura a 82 anni che preclude un assai necessario ricambio generazionale nelle fila democratiche e getta un’ombra lunga di profonda incertezza sul momento già instabile. Il Presidente è lungi da essere candidato ideale in questo rematch, che sembra tuttavia inevitabile, salvo imprevisti o sorprese clamorose alla convention democratica.
Biden ha improntato le proprie politiche interne alla “costruzione e ampliamento della classe media,” attraverso il welfare e perseguendo programmi di conversione energetica, “onshoring” (la “rilocalizzazione” dei posti di lavoro) e incentivi industriali per la creazione di lavoro (come quelli per la produzione nazionale di microprocessori). Una linea “rooseveltiana”2 che lo ha portato a impugnare un megafono davanti a un picchetto di metalmeccanici in sciopero. Ma Roosevelt è stato evocato anche in quanto figura fondativa del secolo americano attraverso l’intervento geopolitico. Così, nel discorso alla nazione del 19 ottobre, Biden ha invocato l’immagine dell’America “arsenale della democrazia,” utilizzata da Roosevelt nel perorare l’intervento americano nella Seconda guerra mondiale. La dottrina Biden prevedeva comunque il pivot alla concorrenza cinese e un bipolarismo politico e militare con in palio l’egemonia economica globale. Quello che non era previsto era lo scoppio della guerra mondiale “regionale.”
Il Presidente che aveva promesso di porre fine alle forever wars, le guerre infinite in cui il paese era impelagato da vent’anni, comprovandolo col rovinoso ritiro dall’Afghanistan, si è trovato invece a essere Commander in Chief di due nuovi conflitti che esprimono tensioni regionali e le più ampie dinamiche globali che le sottendono.
E mentre ammetteva gli “errori americani” nello scatenare la war on terror vent’anni fa, ha riproposto il ruolo americano “a fianco delle democrazie” in uno scontro di civiltà riformulato come contrapposizione fra democrazie e autocrazie. La forzatura ripropone il medesimo eccezionalismo in uno scenario semplificato, dove stavolta Ucraina e Israele sono accomunate come vittime inermi di tirannidi desiderose di distruggere la loro democrazia e gli Stati Uniti sono i loro risoluti garanti. Non si è poi così lontani da quel “ci odiano per la nostra libertà” assunto a slogan neocon dopo l’11 settembre – a proposito di errori. E agli Americani (e potenziali elettori) Biden chiede “se non difenderemo noi la democrazia, chi lo farà?”, riproponendo il ruolo americano di “broker unico” dei conflitti in un quadro “occidentalista”3. Questa concezione – e i fiumi di armi con cui viene concretizzata – tradisce l’incapacità di immaginare il mondo al di là di uno scacchiere per superpotenze antagoniste divise in buone e malvagie. Un concetto che imprigiona ancora il pensiero americano nel paradigma dell’egemonia militare (e conseguenti “forever wars”), applicato al nuovo multilateralismo che richiederebbe invece ben altra creatività e immaginazione.
Trump padrone della piazza
Intanto, sul fronte interno, Donald Trump rimane il padrone incontestato della piazza e la figura di gran lunga più influente nel partito. Lo ha confermato la vicenda della Camera, che ha dimostrato anche come la corrente più militante a lui fedele sia in grado di definire l’agenda all’interno del Congresso e del partito, imponendo una linea ideologica oltranzista, in sintonia con la demagogia delle “culture wars”.
La corrente “post politica” ha dunque chiesto ed ottenuto la testa di uno speaker già molto conservatore, Kevin McCarthy, ritenuto però troppo incline alla negoziazione con Biden. Lo ha fatto sulla forza del boicottaggio di otto voti, in stretto coordinamento con Trump4. Una dinamica che inficia lo stesso bipartitismo americano, con uno dei due partiti controllato da una minoranza oltranzista che triangola la propria influenza con una base infervorata da un leader demagogico, e solo la punta emersa di una crisi strutturale della rappresentatività.
L’attuale speaker repubblicano, Mike Johnson, illustre sconosciuto ma premiato per aver sostenuto il tentativo di sovversione delle elezioni, incarna il fanatismo che il trumpismo ha traghettato dalle frange del “christian nationalism” al cuore delle istituzioni. Integralista evangelico, negazionista e creazionista, Johnson considera la propria carica una missione divina e ritiene che il compito del governo consista nel riportare gli Stati Uniti al ruolo di nazione eletta da Dio. Egli incarna la matrice dottrinaria propria della destra USA che persegue progetti concreti con zelo religioso, come dimostrano i numerosi Stati in cui i reazionari hanno già il controllo del governo e sono in grado di perseguire programmi politici radicali.
Red States e secessione
I cosiddetti Red States, trasformati in laboratori di “americanismo originale”, agiscono come Stati sovrani. Il Texas costruisce barriere anti-uomo sul “suo” confine col Messico, la Florida si offre di inviare in autonomia aiuti militari a Israele, entrambi usano immigrati clandestini come scudi umani spedendoli, a spese dei contribuenti, come ordigni politicamente esplosivi nelle grandi città liberal o sotto casa di politici avversari. I gesti sono plateali,intenzionalmente provocatori e calibrati per provocare scalpore e generare il massimo effetto “trigger,” che innalza la conflittualità con gli avversari ideologici. È parte integrante della dialettica della neo-destra, come le cartoline di Natale coi figli che imbracciano gli AK-47 davanti all’alberello o gli spot elettorali in cui candidati di destra crivellano caparbiamente oggetti inerti con fucili a ripetizione.
Le istanze reazionarie, come la segregazione razziale da sempre predicata sulle “specificità culturali” e gli “States rights” che avrebbero conferito alle amministrazioni locali autonomia decisionale in materia. È il congegno da sempre addotto, che preme sui limiti costituzionali del federalismo, già sfociato a suo tempo nella guerra civile. Oggi torna a essere disinvoltamente invocato in termini di “national divorce” – chiesto, ad esempio, a gran voce dalla trumpista d’assalto Marjorie Taylor Greene.
I governatori neo-secessionisti applicano l’ampia autonomia in maniera talmente antagonista da rasentare il paradosso costituzionale. Vi è oggi un’America in cui è consentito abortire e una in cui, per legge, la donna che interrompa la gravidanza, e chiunque la assista, è passibile di sanzioni comprese severe pene detentive. Vi sono organizzazioni semi-clandestine per il trasporto di donne da stati proibizionisti a “territori liberi,” una versione della underground railroad che favoriva la fuga di schiavi dal sud agli Stati antischiavisti del nord. Vi è una superpotenza del soft power, e una nazione in cui i libri di testo scolastici vengono censurati e corretti per redigere versioni della storia nazionale purificata da “narrazioni dannose”.
In questa America parallela gli ordinamenti contraddicono spesso diametralmente gli statuti federali. Si aboliscono corsi di studio, si compilano liste di proscrizioni per i libri, si vieta l’uso di pronomi scorretti. Spira insomma un vento maccartista, promosso e avallato dalle autorità statali nel nome di una rivalsa contro “l’insostenibile predominio” del pensiero di sinistra che il governatore De Santis, ad esempio, promette di “eradicare definitivamente” dal suo Stato.
Il controllo della storia
Nell’istituire “verifiche” per rivalutare i docenti di ruolo nel suo Stato, il vicegovernatore del Texas, Dan Patrick, ha tuonato: “Non sono loro che decidono, ma noi rappresentanti del popolo. Non lasceremo che una manciata di professori minoritari inculchino agli studenti la critical race theory che insegna loro che gli Stati Uniti sono un paese razzista”. Al centro della contesa c’è l’“americanità” evinta dalle intenzioni dei padri fondatori elevati a figure quasi religiose, architetti di una nazione diversa e unica, del novus ordo saeculorum. Un eccezionalismo radicato nell’avventismo biblico e che lega i sermoni del puritano seicentesco John Wintrop alla retorica reaganiana della “City on a hill.”
In questa battaglia per la mitopoiesi e il controllo della storia non è casuale che monumenti e libri di testo siano diventati il principale terreno di scontro. Le statue equestri dei generali sudisti, ad esempio, divelte durante le proteste BLM, e ora i testi scolastici epurati dalla destra. PEN America, l’associazione degli autori, avverte che i titoli censurati quest’anno sono aumentati del 33%, 40% nella sola Florida. Scuole e consigli di classe sono divenute le arene designate dello scontro titanico sul revisionismo che dovrebbe, nell’ottica della neodestra, ristabilire l’ordine ribaltato dalla rivoluzione culturale degli anni 60 e 70. La retorica fino a poco fa sarebbe stata appannaggio dei podcast di Steve Bannon o dei sermoni in megachurches fondamentaliste della Bible Belt. Oggi è apertamente articolata in piattaforme ufficiali del GOP e decreti governativi, come quelli che vietano di menzionare lo schiavismo nelle scuole, usare il termine “gay” in aula o l’implementazione di norme DEI (diversity, equity and inclusion) nelle aziende.
Il contrattacco culturale viene dissimulato a sua volta come attacco preventivo alla correttezza woke o – amano ripetere Musk e i paladini della libera espressione assoluta – come censura di voci conservatrici. E se la sinistra è corresponsabile dell’ossessione identitaria, le denunce conservatrici della cancel culture promuovono una soppressione ben più efficace, con forza di legge. Nel congresso perfino i (sacrosanti) stanziamenti per la difesa – e le nomine degli Stati maggiori – sono bloccati da parlamentari MAGA, contrari al rimborso dell’interruzione di gravidanza come parte dell’assicurazione sanitaria per le soldatesse. Sopra a tutto vi è il senso palpabile che la polarizzazione rischi di far mancare la coesione minima necessaria a sostenere il paese sul lungo termine.
Oggi i giovani statunitensi spesso decidono quali università frequentare in base al grado di erosione dei diritti civili negli Stati dove sono ubicate. Uno scolaro che entra alle elementari avrà impartite visioni radicalmente divergenti del mondo a seconda del suo codice postale. Un film che promette di essere protagonista agli Oscar in quest’anno elettorale, Killers of the Flower Moon, narra di un eccidio particolarmente efferato di nativi in Oklahoma negli anni 20. Ma in quello stesso Stato la storia vera su cui è basato non può essere insegnata nelle scuole pubbliche in virtù del decreto HB1775 che limita la discussione su razza a genere. L’accelerazione con cui il partito dello Stato minimo ha adottato modalità autoritarie misura la metamorfosi compiuta dalla nuova destra. Gli Stati Uniti rischiano di diventare un caso di studio, contemporaneamente, del declino delle superpotenze e dell’incrinatura delle democrazie rappresentative.
Il velo dell’originalismo
Le pulsioni che alimentano l’attuale regressione sono storicamente presenti nella galassia della destra americana. Il fattore accelerante che ne ha abilitato il potenziamento a movimento che oggi punta al vertice del potere è stato un leader senza particolari legami con le consolidate tradizioni di riferimento, e anche per questo in grado di assemblare una coalizione amalgamata attorno al puro carisma e al culto della propria persona5.
Come demagogo “puro” Trump ha ottenuto fiducia dagli oligarchi del capitale (ripagandoli con un mastodontico risarcimento fiscale), ha ammiccato al rancore delle ultradestre identitarie e suprematiste che lo hanno immediatamente riconosciuto come utile grimaldello, e ha ottenuto il sostegno dell’ala integralista impersonando parodisticamente l’uomo di fede, ma soprattutto promettendo di consegnare loro la Corte suprema.
Quest’ultima è qualcosa che nemmeno Ronald Reagan, originale architetto della santa alleanza teocon, era riuscito a ottenere. La “conquista” del massimo tribunale era stato un progetto del GOP6, da quando la maggioranza parlamentare repubblicana negò a Obama la prerogativa costituzionale di designare un sostituto al decano ultraconservatore Antonin Scalia. Il boicottaggio, seguito dalle tre nomine di Trump, ha rotto l’equilibrio che la Costituzione prevede attraverso le nomine presidenziali alternate. Il risultato è stato l’attuale preponderanza di togati designati da presidenti repubblicani e una super maggioranza integralista cattolica.
Ad assicurare l’operazione è stata in gran parte la Federalist Society, una sorta di massoneria vicina all’Opus Dei nata con lo scopo di mantenere un elenco di giuristi fedeli alla linea e ideologicamente fidati, da cui governatori e presidenti attingono quando occorre designare togati alla magistratura e ai tribunali federali. Dalla lista “federalista” sono provenuti tutti e sei gli esponenti della attuale maggioranza conservatrice della Corte suprema, comprese le ultime tre nomine fatte da Trump. Sono significative le recenti rivelazioni che hanno legato il giudice Clarence Thomas al miliardario Leonard Leo7, condirettore della Federalist Society, vicino alla conferenza episcopale americana (l’organo dei vescovi statunitensi recentemente definiti “ideologhi” e “retrogradi” da Papa Francesco), che è stato “consulente costituzionale” di Trump, fornendo i nominativi dei togati da nominare alla Corte.
Non sorprende che il primo atto di questo “tribunale manciuriano” sia stata l’abrogazione del diritto federale all’aborto, a lungo reclamata dal movimento pro-vita e ora “concessa,” come lui stesso ama ricordare, da Trump, con la schiettezza che spesso lo caratterizza, come ricompensa per il sostegno teocon.La dottrina “originalista” è puntellata da una galassia di giuristi, studiosi e “think tank” finanziati da facoltosi mecenati. Il Cato Institute dei fratelli Koch, ad esempio, o il Claremont Institute, incubatori di “pensiero conservatore” che danno lustro accademico all’amalgama di idee eccezionaliste, machiste, nazionaliste e “bibliche” espresse dalla nuova destra. Tema comune è la fondazione degli Stati Uniti come atto trascendentale che ha realizzato una repubblica platonica unica nell’esperienza umana. La successiva corruzione del progetto ad opera di “falsi Americani” necessita oggi di una contro rivoluzione purificatrice8, in grado di ristabilire l’integrità dei principi fondanti.
L’originalismo prescrive una lettura solo letterale della Costituzione del 1787, che contemplava come unici soggetti politici proprietari terrieri maschi e bianchi e che è stata successivamente emendata 27 volte per ampliare il suffragio e i diritti civili. Nel motivare l’abrogazione della protezione federale del diritto all’aborto, uno dei giudici più conservatori, Samuel Alito, ha scritto che la garanzia era costituzionalmente spuria in quanto frutto della “pretestuosa estensione” del 14mo emendamento (scritto per abrogare la schiavitù) che proibisce la discriminazione dei soggetti politici e sociali. Non essendoci però, nella Costituzione settecentesca, menzione di gravidanze tantomeno interrotte, l’inferenza non era lecita.
La decisone è contraria alla volontà di un’ampia maggioranza popolare, ma le implicazioni per altri diritti civili “apocrifi”, in particolare quelli acquisiti nel corso del ventesimo secolo, in tema di laicità, uguaglianza, femminismo, sono intuibili. Il disequilibrio del massimo tribunale, assieme alla divergenza degli Stati su questioni fondamentali, profilano una inesorabile crisi costituzionale al rallentatore. Questo mentre l’elezione indiretta del Presidente (che transita dai grandi elettori dell’Electoral College) in combinazione con il gerrymandering (che permette di pilotare gli esiti elettorali disegnando oculatamente i collegi uninominali), produce una crisi della rappresentanza. Dei cinque presidenti eletti pur avendo perso il voto popolare, due sono stati negli ultimi vent’anni: Bush (nel 2000) e Trump (nel 2016).
L’alternativa che manca
Tre anni fa, pur dopo il suo primo mandato, 74 milioni di americani hanno votato per Trump. Il dato è enorme, ma i numeri non equivalgono a una maggioranza trumpista nel paese. La percentuale difficilmente aumenterà nella prossima tornata, eppure questo non esclude che l’ex Presidente possa tornare a vincere, anche senza la maggioranza del voto popolare.
A fine ottobre un sondaggio del Public Religion Resarch Institute ha rilevato un dato chiave, che i temi identitari ed emozionali propri della post-politica hanno sostituito anche l’economia come considerazione dirimente nelle scelte elettorali, invalidando quella che in tempi normali avrebbe potuto essere la carta vincente del Presidente in carica: un’economia che continua (per ora) a girare a pieno ritmo.
Altri sondaggi recenti danno Biden e Trump in plausibile parità in uno scenario in cui Robert Kennedy Jr. e Cornel West potrebbero ottenere quasi il 15% dei voti. I Verdi e una possibile sesta lista “moderata bipartisan”, denominata “No Labels” potrebbero iniettare ulteriori variabili nel quadro. La tenuta, tutt’altro che scontata, di Biden passa da una riedizione della Obama coalition ancora più dipendente da donne e giovani visto che le “minoranze” non sono più così monolitiche. Attivate dall’assalto all’aborto e al clima, quelle constituencies ricopriranno un ruolo decisivo nel contrastare la controrivoluzione patriarcale e negazionista in atto.
L’esito finale ruoterà assai probabilmente attorno a margini molto stretti nella solita manciata di battleground States in una stagione elettorale che promette di riproporre immutata la conflittualità che ha rischiato di destabilizzare la democrazia nel 2020. Come e più di quattro anni fa il fantasma della violenza viene esplicitamente agitato da Trump, e incombe come una spada di Damocle sulla campagna elettorale e sui suoi processi, le due cose sovrapposte in chiave di persecuzione “globalista” dei patrioti.
Allo stesso tempo il Presidente – nella versione ‘saggio decano’ – sembra capace di momenti di insospettata lucidità. Ammettendo gli “errori” della war on terror, ad esempio, o in certe analisi sulla matrice razziale della regressione populista. “Il fatto è che ci avviamo molto presto a essere un paese a minoranza bianca/europea”, ha dichiarato. “A volte i miei colleghi non affermano in modo sufficientemente esplicito che questo ci cambierà fondamentalmente”.
Sull’astio che pervade il suo paese polarizzato, già a settembre, Biden osservava quello che alla luce di quello che sarebbe successo di li a poco ora sembra profetico sugli sviluppi globali: “Non si può davvero eradicare l’odio. Al massimo si può ricacciarlo sottoterra. Ma basta fornirgli ossigeno e tornerà rifiorire da sotto i sassi”.
Biden difende il proprio progetto capital-liberista ed egemonico su due fronti. Per controbattere quello che è giunto a definire il “semi-fascismo” della mutazione repubblicana, ripropone formule neo-keynesiane per l’espansione della middle class, compreso il sostegno al risorgente movimento sindacale che ha di recente inanellato alcuni clamorosi successi. Sullo scenario geopolitico declina un ruolo statunitense di garante occidentale della democrazia, pretendendo di applicare anacronistiche contrapposizioni nazionali da guerra fredda a una fluidità post-nazionale.
Si tratta di una politica che è facile immaginare perseguita anche da Clinton, in un mondo post Oslo, o da Obama (che dopo l’esordio col discorso della speranza al Cairo, condusse per due mandati la guerra dei droni assassini). Più difficile, invece, immaginare alternative creative, date da un lato l’ininfluenza dei Dem progressisti e dall’altro una destra spaccata fra “americanismo” tradizionale e una specie di isolazionismo opportunista e teologico con simpatie autocratiche da Putin e Netanyahu, all’insegna del suprematismo dell’Occidente bianco.
Il meglio che si può attualmente sperare sarebbe un più energico contenimento di Israele e, nel dossier ucraino del Dipartimento di Stato, il prevalere della corrente “possibilista” di Jake Sullivan sui falchi di Nuland & co. Ma a questa contrapposizione si è nel frattempo sovrapposta, in termini drammatici, la già intrattabile pratica arabo-israeliana, con tutte le ripercussioni del caso sulla riverberante politica americana.
Note
1 La passione di Trump per il repertorio “Blut und Boden” venne confermata anni fa dalla prima moglie Ivana che raccontò della raccolta di discorsi hitleriani che teneva sul comodino.
2 Marjorie Taylor Greene, attaccante di spicco della corrente trumpista nel Congresso, lo ha accusato di “voler terminare il lavoro di Roosevelt”. Biden l’ha ringraziata e utilizzato la clip in uno spot elettorale.
3 Nella definizione dell’ex ministro degli Esteri francese, Dominique De Villepin: “la convinzione che per gli ultimi cinque secoli l’occidente abbia gestito gli affari del mondo, e che possa tranquillamente continuare a farlo”.
4 La fazione MAGA si è di fatto comportata come quei piccoli partiti che, nelle democrazie parlamentari, sono talvolta in grado di determinare le sorti di coalizioni di governo.
5 Ragione per cui rimane assolutamente inavvicinabile dai presunti sfidanti nelle primarie che declinano in vari gradi le tradizionali correnti conservatrici.
6 Specificamente dell’attuale minority leader al Senato, Mitch McConnell.
7 Thomas, il più estremista dei giudici supremi è stata ospite per anni in resort di lusso, crociere, viaggi in jet privati a carico di Leo, che ha anche acquistato una casa per la madre del giudice.
8 L’idea è articolata tra l’altro nel saggio Conservatism is no longer enough di Glenn Ellmers.
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