Interventi

Sulla stampa internazionale, è stato oggetto di dibattito il recente piano israeliano di esportazioni dei vaccini in eccedenza che, nelle intenzioni del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, avrebbero dovuto essere inviati a determinati Paesi che hanno dimostrato, negli anni, una politica di vicinanza con Tel Aviv.

Il piano è stato successivamente sospeso sull’onda delle proteste, non solo da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese, nella persona del Ministro degli Esteri Riyad al-Maliki, che ha parlato di “uso immorale dei vaccini in cambio di concessioni politiche”; ma anche da parte di vari organismi internazionali. È il caso, ad esempio, dell’organizzazione umanitaria britannica OXFAM, la cui direttrice nei territori palestinesi occupati, Dina Jibril, ha definito “vergognosa” la decisione di Israele di destinare le dosi ai Paesi “amici” mentre “5 milioni di palestinesi sono in attesa di ricevere il vaccino”.

In realtà, questo non è che l’ultimo capitolo di una saga che sembra rappresentare plasticamente vari tratti salienti dell’impianto politico di stampo sionista, che ispira le decisioni di Tel Aviv anche su questa materia.

Il “modello vincente”

In questo, come in altri aspetti, Israele ha palesato il suo approccio cinico e mirato nel perseguire un obiettivo strategico ponendosi al di sopra degli aspetti più meramente etici, deciso com’era a sfruttare la situazione tragica legata alla pandemia per ergersi a modello di virtù, efficienza e innovazione.

Lo ha fatto sin dai primissimi giorni quando, contro ogni evidenza scientifica e logica, annunciava nel marzo del 2020 l’arrivo di un vaccino ‘Made in Israel’ entro sei settimane; annuncio ripreso con grande enfasi dalla stampa mainstream mondiale e italiana. È stato poi il turno delle cure miracolose, dello spray nasale che avrebbe dovuto impedire la diffusione del COVID al 99,9%. Tutto questo mentre il Paese, nella realtà, faticava a gestire gli effetti sanitari e le ricadute economiche dovute ai ripetuti lockdown, in modo non dissimile dal resto del pianeta.

Per chi conosce i meccanismi della propaganda israeliana, la cosiddetta hasbara, questi annunci in pompa magna non hanno costituito una sorpresa: l’immagine che Tel Aviv vuole far passare al resto del mondo, in questo come in ogni altro aspetto della vita pubblica, è quello di un modello vincente; espressioni come “unica democrazia del Medio Oriente”, o “far fiorire il deserto”, sono il frutto di scelte semantiche intrinsecamente legate all’impianto teorico sionista, sin dalla nascita dello Stato di Israele sulle rovine dei villaggi e delle città della Palestina storica, nel 1948.

Nel caso specifico dei vaccini, Israele ha agito da manuale e ha tentato di porsi come un esempio da seguire, per molteplici ragioni: prima di tutto, per proiettare all’esterno, sul piano internazionale, un’immagine di sé completamente positiva. A giudicare dai toni entusiasticida cui è stata accompagnata sulla stampa occidentale la campagna vaccinale israeliana, questo fine è stato sicuramente raggiunto.

Vi sono poi anche motivi di natura interna. Il prossimo 23 marzo, infatti, gli israeliani saranno chiamati alle urne per la quarta volta consecutiva in poco meno di due anni, nel mezzo di una crisi istituzionale profonda che sta attraversando il Paese. Per un leader stanco come Netanyahu, protagonista di una vicenda giudiziaria importante e bersaglio di manifestazioni continue che non si sono placate neanche durante i numerosi lockdown, raggiungere il fine della piena vaccinazione e fornire una dimostrazione di forza era diventato quasi imprescindibile. Tale obiettivo è stato perseguito con un cinismo tipico nella politica di Tel Aviv, caratterizzato da scelte e azioni che si pongono non solo al di là di ogni etica ma anche al di fuori del diritto internazionale.

La corsa al vaccino

Come è riuscito un Paese con poco più di nove milioni di abitanti ad accaparrarsi un numero di dosi così elevato da creare addirittura delle eccedenze? La risposta, secondo un recente articolo del Financial Times, starebbe nelle “17 conversazioni tra Albert Bourla, amministratore delegato della Pfizer, Benjamin Netanyahu […] e Yuli Edelstein, ministro della salute (israeliano).” I due politici, prosegue il FT, “hanno promesso di dare il via a una delle campagne vaccinali più veloci al mondo e di condividere i dati del suo impatto sulla pandemia, a patto che le dosi venissero elargite in grandi quantità e senza interruzioni.”

Non basta, però, la condivisione dei dati sanitari e la possibilità, pur allettante per la Pfizer, di disporre di un terreno sperimentale su scala statale: il primato di Israele si poggia anche sulla disponibilità, da parte di Tel Aviv, a pagare sino a 28 dollari a dose, oltre il 40% in più rispetto agli Stati Uniti e all’Unione Europea. Nelle dinamiche di libero mercato in cui anche il vaccino anti-COVID19 è inserito, la combinazione dei due fattori è risultata vincente, almeno dal punto di vista di Israele.

La corsa all’accaparramento di più dosi possibili non è sicuramente ascrivibile solo a Tel Aviv: tutti i Paesi ricchi hanno proceduto incuranti delle esigenze dei Paesi più poveri, andando ad accentuare il divario strutturale già esistente. Il caso di Israele, però, presenta elementi di originalità, perché a essere esclusi dalla campagna vaccinale sono stati i palestinesi, sia coloro che vivono nei territori occupati – soggetti a occupazione militare – sia quelli che vivono a Gaza, in un regime di blocco totale. Questa sostanziale apartheid vaccinale è stata tanto più evidente quando si è deciso di provvedere alla vaccinazione dei coloni, che vivono in insediamenti illegali sul territorio occupato, e non dei nativi palestinesi residenti all’interno degli stessi confini.

Gli obblighi dell’occupante

Come ricordato da vari appelli rivolti a Tel Aviv da parte di organizzazioni umanitarie, personalità politiche di rilievo e dalle stesse Nazioni Unite, Israele ha l’obbligo di garantire anche la vaccinazione per la popolazione soggetta a occupazione, come previsto dall’Articolo 56 della IV Convenzione di Ginevra che stabilisce, per la forza occupante, il dovere di assicurare l’adozione e l’applicazione delle “misure profilattiche e preventive necessarie per combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemie”.

La risposta israeliana a queste critiche è stata duplice e, come sempre, ben organizzata nella modalità di comunicazione: da una parte, si è ricordato come Israele sia stato disposto a vaccinare i palestinesi residenti sul suo territorio e a Gerusalemme Est; dall’altra, si è fatto appello agli Accordi di Oslo, siglati nel 1993 tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Gli accordi prevedevano, infatti, l’istituzione di un Ministero della Salute presso l’allora neonata Autorità Nazionale Palestinese e questo basterebbe, secondo i sostenitori di Israele, a deresponsabilizzare Tel Aviv da ogni incombenza.

Da un punto di vista strettamente logico, il primo punto costituisce, di fatto, un’autorete: sottolineare che Israele proceda “anche” alla inoculazione nei confronti dei cittadini arabi israeliani, per dimostrare una presunta magnanimità, non fa che evidenziare quel sistema di apartheid sostanziale in forza del quale la minoranza palestinese, che costituisce il 20% della popolazione totale dello Stato, è considerata in modo diverso proprio a causa della propria appartenenza etnica.

D’altra parte, la natura prettamente ebraica dello Stato di Israele e la supremazia di una classe di cittadini rispetto a un’altra è stata messa a sistema e istituzionalizzata nella cosiddetta Legge dello Stato-Nazione, promulgata nel luglio del 2018, che definisce esplicitamente Israele lo Stato-Nazione del popolo ebraico, relegando persino la lingua araba da nazionale a “speciale”. Di recente, poi, l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’tselem ha pubblicato un importante report in cui, per la prima volta, si fa esplicito riferimento alle politiche di apartheid non solo nei territori occupati, ma anche “dal Fiume Giordano al Mar Mediterraneo”.

Per quanto riguarda la seconda obiezione, le principali organizzazioni dei diritti umani, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, oltre a esperti delle Nazioni Unite, hanno condannato la politica israeliana, facendo appello, oltre al già citato Articolo 56 della IV Convenzione di Ginevra, anche all’Articolo 43 della Convenzione dell’Aia del 1907, il quale stabilisce che, “l’autorità del potere legale essendo passata di fatto nelle mani dell’occupante, questi prenderà tutte le misure che dipendano da lui per ristabilire ed assicurare, quanto è possibile, l’ordine pubblico e la vita pubblica, rispettando, salvo impedimento assoluto, le leggi vigenti nel paese.”

La macchina della propaganda israeliana, la famosa hasbara a cui si è già accennato, ha provato a obiettare anche facendo leva sulla solita accusa di antisemitismo, stavolta rivolta addirittura a organizzazioni non governative che hanno fatto della lotta alle discriminazioni e al razzismo, in ogni sua forma, un caposaldo. Ad esempio, in una nota del 23 febbraio scorso al Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU, la ben nota United Nations Watch – il cui scopo sarebbe proprio la lotta al presunto antisemitismo delle Nazioni Unite – scrive che, anche qualora la Convenzione di Ginevra fosse applicabile, “Israele non sarebbe obbligato a finanziare e a provvedere le dosi di vaccino anti COVID-19 ai Palestinesi, ma solo ad assicurare che il governo locale abbia un sistema sanitario efficiente”. Questo fa il paio con le parole dello stesso ministro della salute israeliano che, ai microfoni di Sky News, ha dichiarato che “(i palestinesi) devono imparare a provvedere per loro stessi”.

Tuttavia, queste osservazioni sono contraddette proprio dagli stessi accordi di Oslo che, volendo istituire una forma di cooperazione tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Israele, stabiliscono che le due parti debbano “scambiarsi informazioni riguardanti le epidemie […] e cooperare nel contrastarle”. Come scrive Marco Longobardo, docente di Diritto Internazionale all’Università di Westminster, “coerentemente con il dettato dell’Articolo 47 della IV Convenzione di Ginevra, gli Accordi di Oslo non possono derogare alla protezione offerta dalla Convenzione stessa, e pertanto deve concludersi che Israele mantiene le sue responsabilità, come previsto dall’Articolo 56.”

Pur volendo esulare dall’apparato di norme e prescrizioni del diritto internazionale, le “raccomandazioni” israeliane sembrano collidere con le azioni concrete messe in campo da Tel Aviv: anziché agevolare le operazioni palestinesi tese a contrastare il dilagare della pandemia, la forza occupante ha provveduto, in più occasioni e sin dalle prime fasi, a demolire centri dedicati allo screening o alla quarantena eretti dalle autorità locali; ha proseguito con la pratica dei raid notturni in West Bank e delle campagne di detenzione, senza curarsi delle minime prescrizioni di distanziamento sociale; ha incrementato le demolizioni di strutture civili palestinesi, particolarmente nella Valle del Giordano, e così via.

Anche quando, poi, l’Autorità Nazionale Palestinese ha stipulato un accordo con la Russia per la distribuzione del vaccino Sputnik V nei territori e a Gaza, Israele ha tentato di ostruire il passaggio delle prime dosi, destinate al personale sanitario della Striscia.

Combattere l’apartheid

L’apartheid sanitaria, di cui oggi si parla su scala globale in riferimento specifico alla distribuzione dei vaccini, non è un fatto nuovo per i palestinesi, che da anni sono soggetti a misure restrittive che, in nome della “sicurezza”, impediscono di fatto l’accesso alle cure mediche. La crisi sanitaria mondiale legata alla pandemia ha solo portato all’attenzione generale il problema dell’accesso alle cure per il popolo palestinese sotto occupazione e ha esacerbato situazioni già drammatiche.

Ai pazienti oncologici letteralmente intrappolati nella Striscia di Gaza, che attendono il permesso da parte dell’esercito israeliano per accedere alle cure; ai lavoratori della West Bank che, ogni giorno, sono costretti dalle circostanze a valicare i confini e a costruire, materialmente, quegli stessi insediamenti che divorano la loro terra; ai prigionieri politici illegalmente detenuti su territorio israeliano, l’accesso ai diritti fondamentali, tra cui anche quelli sanitari, è precluso dall’occupazione militare israeliana.

È necessario che la lotta alle ingiustizie globali e a un modello di sviluppo sbagliato passi anche per Ramallah e Gaza. È indispensabile rovesciare la narrazione che vede Israele come “modello vincente” e spingere affinché il governo di Tel Aviv venga messo, in modo inequivocabile, di fronte alle sue responsabilità, per l’apartheid sanitaria attuata durante la crisi pandemica e per il soffocante regime di occupazione e segregazione razziale che, in caso contrario, non lascerà scampo ai palestinesi neanche quando il COVID-19 sarà alle nostre spalle.

Romana Rubeo è una giornalista italiana, caporedattrice del The Palestine Chronicle. I suoi articoli sono apparsi in varie pubblicazioni online e riviste accademiche. Laureata in Lingue e Letterature Straniere, è specializzata in traduzioni giornalistiche e audiovisive.

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2 commenti a “Rovesciare la narrazione: cosa si nasconde dietro il “modello israeliano””

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