Le annunciate dimissioni del ministro della Difesa britannico Ben Wallace, colpevole di aver detto a Zelensky quello che pensa la gran parte di coloro che gli regalano le armi: “Diteci almeno grazie”, sono il segno di come la questione ucraina sia divenuta un nodo gordiano.
Non è stato solo Putin a illudersi di poter tornare con una rapida sortita a dominare ‘la piccola Russia’, come per secoli erano indicato le terre di frontiera dell’impero zarista. Anche Bobo Johnson, l’ex premier inglese con il suo strabordante surplus di odio anti Urss e anche Antony Blinken, il Segretario di Stato statunitense, il cui avo proveniva dallo shetl Blinki ucraino, si illusero e convinsero Biden che l’ennesima partita con l’ex Urss era di breve durata. Che la guerra per procura tra USA e Russia sul campo di battaglia ucraino, sarebbe durata poco e che questa volta Putin avrebbe accettato un qualche compromesso con la NATO, sempre più vicina. Grazie anche alle sanzioni, e con l’espulsione di qualsiasi cosa odori di russo dalla parte di mondo che vuole ignorare la storia.
Quando nel 1991 l’Ucraina si staccò dall’Urss, ben presto riemersero i contrasti tra russofoni e russofobi, la ripresa più o meno informale delle politiche nazionaliste degli anni 20/40, con la rilegittimazione dei capi popolo antisovietici, il distacco tra le due chiese ortodosse, l’ostracismo per la minoranza cattolica uniate.
Con la Russia post-sovietica in comune vi era il fenomeno dei baroni dell’economia i quali avevano privatizzato le industrie, le ricchezze naturali, moltiplicato la corruzione: erano il potere. Gli oligarchi ucraini vivevano le controversie politiche, culturali, religiose come epifenomeni popolari, non rilevanti per i propri interessi economici e per ciò stesso aspiravano a poter contare su un politico in grado di essere loro portavoce e nel giro di pochi anni ne fecero eleggere ben quattro, chi più, chi meno filo Russia.
L’occasione per voltare le spalle a Mosca si creò a Kiev nel 2014, con la cacciata a furore di popolo dell’ultimo presidente ucraino fedele al Cremlino. Risale a quella occasione, l’interessamento concreto statunitense nelle vicende dell’Ucraina, un paese che per via dell’emigrazione ebraica degli inizi del secolo, riattivatasi negli anni Settanta, disponeva di una lobby al Congresso e di prestigiosi intellettuali nei media e nella diplomazia.
Nella piazza Maidan di Kiev erano presenti gli studenti a svolgere in gran buona fede il proprio ruolo di attivisti in rivolta contro il potere, e poi vi erano squadre di estrema destra, ben inserite nello spettro politico ucraino, e infine osservatori stranieri, intellettuali europei e presenze statunitensi non ufficiali. Pare vi fosse persino Biden e altre note figure politiche.
A piazza Maidan tornarono visibili le faglie divisive originarie, profonde, che venivano dal passato: in primo luogo la divisione del paese tra i territori legati a Mosca e quelli confinanti con la Polonia, ostili a Mosca; la presenza di movimenti che si richiamavano a personaggi come Petljura negli anni Venti e a Bandera negli anni Quaranta, nemici in armi contro il potere sovietico; il ricordo della carestia conseguenza della collettivizzazione; il collaborazionismo contadino nell’eccidio della comunità ebraica.
In epoca sovietica le faglie erano state ufficialmente date per superate, grazie all’industrializzazione e all’urbanizzazione del paese, vanto dei tre segretari generali del Pcus, ucraini come Kruschev, Brezhnev e Cernenko, legati alla loro terra, alla sua trasformazione in una delle più industrializzate e ricche repubbliche sovietiche.
Quando nel 2023, i mass media commentano le bombe che da quasi due anni distruggono ponti, fabbriche, edifici, paesi e città, come atti di ferocia russa – e tali sono – per i russi sono vendette: noi le abbiamo costruite e noi possiamo distruggerle. La diffidenza nei confronti dei politici e degli oligarchi ucraini ha la sua origine in quel precedente del “tradimento” popolare con il pane e il sale offerto ai nazisti e dopo il 1991 nell’orientamento verso il sistema di vita di Londra, Roma, Parigi che le badanti ucraine avevano appreso e poi diffuso nelle loro famiglie, nei loro villaggi e che il governo degli oligarchi ha fatto proprio.
Come ormai tutti sanno, nel 2019 fu eletto alla massima carica con il 73% dei voti, l’attore ebreo Zelenskyi, voti procuratigli in parte da un potente oligarca e in parte da sé stesso per essere divenuto popolare grazie a una serie televisiva di gran successo. Rimane senza risposta la domanda su una tale scelta, in un paese tradizionalmente e profondamente antisemita, se non appunto come prova dello scarso peso per il ruolo della politica, che poteva essere appaltata da un oligarca persino a un ebreo di professione attore.
L’intervento di Putin ha trasformato il presidente attore in un politico all’americana con più parti da svolgere: il ruolo di capo popolo di un paese proditoriamente invaso, che specialisti di gran valore gli hanno ritagliato su misura delle sue capacità di attore, che dinanzi alla distruzione del paese, se ne indigna ogni sera, in attesa di un copione deciso altrove.
Difatti la partita è tra USA e Russia, e il paese Ucraina funge da campo di battaglia, con i suoi soldati, il suo popolo, intrappolati in un conflitto deciso in due diversi luoghi di potere per uguali motivi di politica di potenza.
Nel 1991 con la fine dell’Urss e le politiche di Yeltsin che aveva aperto agli specialisti americani le città ‘chiuse’ dove si produceva il tesoro strategico-militare, era stato globalmente chiaro chi fosse il vincitore. Con Putin al governo quel tesoro non solo non è stato svenduto insieme ai suoi scienziati, bensì è stato ampliato, e tecnologicamente innovato.
La sfida è ricominciata come durante la guerra fredda, non più ispirata da ideologie alternative bensì dalla politica di potenza come si fosse nel 1870, con la Francia e la Germania l’una contro l’altra, a contendersi l’Alsazia e la Lorena, ma più concretamente per l’egemonia politica in Europa, nel Medio-Oriente, in America Latina.
La sfida appare impari perché la Russia, per il livello della sua economia e della sua popolazione di soli 140 milioni, non è l’Urss in grado di stringere accordi con gli USA per il reciproco controllo strategico-nucleare.
Su tale presupposto vanno viste le iniziative degli USA nei confronti della Russia post-Urss.
La prima risale alla Conferenza di Rambouillet del 1999 quando furono decisele mosse contro gli ultimi clientes di Mosca. La frantumazione della Jugoslavia con le guerre nei Balcani è un avvertimento a Mosca affinché non abbandoni il sentiero di compromessi e acquiescenza, intrapreso da Yeltsin.
La seconda iniziativa è stato aprire le porte della NATO e dell’Unione Europea
ai paesi centro orientali, che a Yalta erano stati attribuiti al “cortile sovietico”, un po’ come molti paesi dell’America latina sono in appalto a Washington.
Che le porte della NATO sarebbero rimaste chiuse ai paesi del disciolto Patto di Varsavia era stato poi promesso verbalmente a Gorbachev, ma il clima mutò con l’arrivo di Putin al Cremlino.
La Russia post sovietica ha vissuto come un affronto la decisione statunitense e europea di inglobare nella NATO le ex repubbliche del Patto di Varsavia, in un contesto geopolitico, segnato dal Papa polacco, antico avversario dell’Urss, e dal Segretario di Stato USA, la praghese Madeleine Albright – cui si deve la definizione degli Stati Uniti “come la nazione indispensabile” al bene dell’intero mondo.
Alla conferenza di Monaco del 2007 le parole del Presidente russo sull’obsolescenza storica di un dominio unipolare, rilegittimarono le mai sotterrate diffidenze di Washington nei confronti della Russia ex Urss.
La quale stava proprio allora paradossalmente considerando l’ipotesi di un avvicinamento all’universo Europa. Un’ipotesi che andava contro gli interessi statunitensi, perché Mosca a Bruxelles avrebbe dato all’Unione Europea un ruolo politico-militare inaccettabile. La spinta avversa all’ipotesi venne platealmente dai paesi dell’ex Patto di Varsavia, un vero schiaffo per Mosca che reagì chiudendo le porte a Bruxelles e in contemporanea usando la Georgia e la Siria come prove del suo esistere nelle relazioni internazionali.
L’intromissione russa nel rapporto tra l’Iran e Washington, il suo penetrare nei conflitti medio-orientali, erano una sorta di memento geopolitico indirizzato all’élite internazionale.
L’assunto è che, avendone i mezzi, si possono giocare partite che attestano il ritorno della Russia come potenza strategico-militare. I ‘mezzi’ erano un apparato strategico sofisticato in grado di far concorrenza alla super potenza che si ritrovò anni dopo la fine dell’Urss, a doversi confrontare nuovamente con Mosca. Il confronto riguardava lo scenario medio-orientale da parte russa, i paesi dell’Europa dell’est e i paesi baltici da parte statunitense.
Il confronto è stato vissuto come una provocazione dagli USA, convintisi di aver conquistato definitivamente il loro primato non solo per la scomparsa dell’Urss ma anche per la misura delle sue spese militari, superiore al complesso di quelle del mondo intero: 750 basi sparse nel pianeta, il Pentagono prima industria del paese, e infine il settore informatico all’avanguardia.
Per chiudere definitivamente la partita con la Russia, il conflitto Mosca-Kiev è stato visto dalla Casa Bianca di Biden, quasi come un regalo. E molti regali sono stati fatti all’Ucraina perché i suoi soldati vincessero la sfida del Cremlino anche a nome dei democratici USA. Le strategie di politica di potenza sono chiare e ormai coinvolgono governi e paesi che non hanno alcun legame con la questione ucraina ma ne hanno con i due attori protagonisti dello scontro in atto. A stare nei rifugi – come negli anni quaranta del Novecento – sono gli strati della popolazione ucraina troppo povera per mettersi in salvo, succube dell’ambizione di un ex attore e di un anzianissimo politico che vuole vincere le prossime elezioni, e di un russo di Pietroburgo offeso dalle pretese della ‘piccola Russia’.
Il ministro britannico dimissionario forse potrebbe suggerirci come sciogliere il nodo gordiano prima di ritirarsi nella pacifica campagna inglese.
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