Dopo due settimane di commenti l’analisi pare consolidata: il tornante delle elezioni continentali offre un quadro di persistente vitalità delle destre radicali. Vox in Spagna, AfD in Germania e il Rassemblement national in Francia, per citare i casi più illustri. Il risultato non stupisce, è fenomeno di lungo periodo: stante un astensionismo non meno inquietante che fisiologico, la crisi della democrazia trova sfogo soprattutto nelle elezioni di second’ordine come le europee, che ne rappresentano il catalizzatore meno rischioso, in termini di effetti diretti sulle politiche che le forze radicali (non) riusciranno a realizzare, e l’amplificatore più fragoroso.
Questo voto, si è detto e scritto, non influisce sull’equilibrio cristallizzato nel Parlamento europeo, che si regge sulla collusione tra le forze politiche centrali (popolari, socialisti e liberali) come garanzia dell’impalcatura intergovernativa su cui si reggono le istituzioni Ue. I partiti pivot hanno ancora la maggioranza, nonostante abbiano perso, rispetto al 2019, complessivamente 11 seggi, mentre conservatori e identitari ne hanno guadagnati 16. La destra identitaria di lotta e di governo guadagna posizioni in paesi membri di peso demografico e politico rilevante: Spagna, Francia e Germania, meno in Italia, dove Fratelli d’Italia perde consensi in termini di voti assoluti, che è ciò che conta.
In particolare, accade in Francia che le Europee 2024 abbiano fatto registrare il tasso di astensione più basso in trent’anni, in questo tipo di elezione. Parliamo pur sempre, tuttavia, di un 51,5% di partecipazione al voto, con relativa astensione al 48,5. Oltralpe si assegnavano 81 seggi. Più di un terzo (30) sono andati al partito “nazionale” che prima era anche formalmente dei Le Pen e si chiamava Front, ora ha un frontman di origini italiane, Jordan Bardella, e si chiama Rassemblement (gli equivalenti italiano “raggruppamento” e “raduno”, convincono poco, per non parlare di “assembramento”). C’è di più: altri cinque seggi sono stati ottenuti da un ulteriore partito di destra estrema, la lista La France fière guidata dalla nipote dei Le Pen Marion Maréchal ed emanazione del movimento Reconquête capitanato da Éric Zemmour, intellettuale che un tempo si sarebbe definito “sulfureo”. Si tratta, insomma, dell’affermazione più netta della destra radicale nella storia elettorale francese.
Focalizzando l’attenzione solo sul RN, già FN, si può intanto rilevare che in quarant’anni, dall’84 al ‘24, ha più che triplicato il proprio consenso elettorale nelle europee, passando da due milioni e duecentomila a oltre 7 milioni di voti. Nelle elezioni legislative del 2022 ha superato la soglia dei quattro milioni di voti e ottenuto oltre 80 deputati. Ha guadagnato l’accesso al ballottaggio delle presidenziali tre volte, una con papà Jean-Marie e due con Marine, che nel 2022 è stata scelta da 13 milioni di francesi nel turno decisivo, consenso corrispondente al 41% dei voti espressi. Tutti insieme questi dati fanno impressione. E non a caso si parla di exploit senza precedenti per la destra radicale e di terremoto nel sistema politico francese.
Il terremoto è stato accentuato dalla scelta di Macron di sciogliere l’Assemblea nazionale e indire nuove elezioni, chiamando a un referendum su se stesso e sulla democrazia, il cui esito oscilla tra la disfatta e il caos. L’ottavo presidente della Quinta repubblica è un’anatra zoppa: per lui è il secondo mandato; dunque, nel 2027 non potrà ricandidarsi all’Eliseo.
Il voto del 30 giugno e 7 luglio concretizza una eventualità non inedita nella Quinta repubblica, ma ancora mai verificatasi nel terzo millennio, ossia le elezioni anticipate. Sin dalla riforma entrata in vigore nel 2002, infatti, le legislative si sono sempre tenute poche settimane dopo le presidenziali. E con la scelta di far coincidere la durata dei due mandati, presidenziale e parlamentare, da allora le elezioni, che noi definiremmo “politiche”, si sono sempre tradotte in una cerimonia di ratifica del risultato presidenziale, che dotava il capo dello Stato di una maggioranza parlamentare utile a rendere il primo ministro, formalmente capo dell’Esecutivo, un suo commesso.
Il meccanismo ha funzionato, fino al 2017, anche grazie al sostegno di un sistema dei partiti stabile (pur in presenza di forze politiche leaderistiche e liquide). Nel 2017, un po’ meno nel 2022, si è visto che il flusso canalizzatore dell’Eliseo e lo spauracchio del Front national potevano sopperire anche alla polverizzazione dei partiti. Macron, in entrambi i casi, ha vinto sulle ceneri della dialettica destra-sinistra.
L’ultima voto anticipato, nel 1997, fu un boomerang per il presidente che lo aveva convocato. Chirac, fiaccato da anni di opposizione sociale e di guerriglia con l’ala liberale del suo partito, pensava di sbloccare la situazione in suo favore, forte di una maggioranza di partenza comunque amplissima, e invece si ritrovò con la gauche plurielle di Jospin a Matignon.
Gli eventi politici principali dopo lo scioglimento dell’Assemblea nazionale sono sostanzialmente due. Il dibattito sulle relazioni pericolose interne alle destre e, sul versante opposto, la costruzione di un nuovo Fronte popolare composto da socialisti, comunisti, verdi e gli insoumis di Mélenchon.
Eric Ciotti, il presidente del partito post-neogollista Les Républicains, denominazione dal sapore vagamente americaneggiante, non per niente voluta da Sarkozy, ha dichiarato esserci una compatibilità di fondo tra gollisti e lepenisti, in nome di valori tradizionali e idee di destra mai così forti in Francia, una affinità di umori tale da rendere auspicabile un’alleanza con il Rassemblement national al fine di arrestare la “minaccia degli insoumis”. Espulso dalla direzione del partito ma poi reintegrato nella sua carica dal tribunale di Parigi, Ciotti ha concluso con il leader lepenista Bardella un accordo che vede 59 candidati correre sotto le insegne LR-RN, lui in primis nella prima circoscrizione delle Alpi Marittime.
A sinistra, il Nouveau Front Populaire ha ripartito i candidati nei collegi tra le varie componenti in modo da evitare qualsiasi competizione a sinistra e catalizzare il voto gauchiste in funzione anti Le Pen e anti destra. I collegi dell’oltremare e quelli della Corsica non rientrano nell’accordo. Per il resto, la componente della France Insoumise ha 229 candidati, i socialisti – visto il buon risultato delle europee – ne hanno ottenuti 175, i verdi 92 e i comunisti 50. Già il dibattito impazza tra chi dovrebbe, in caso di vittoria, esprimere il primo ministro. Se i melenchonisti sostengono la linea di premiare la componente di maggioranza relativa all’interno della “coalizione”, gli altri ragionano sulla possibilità di sostenere un nome alternativo come emanazione del trio socialista-comunista-verde, ovviamente nel caso in cui queste forze politiche nel loro complesso avessero più seggi.
Un elemento rilevante, e rivelatore, nella sortita di Ciotti è il sentimento di paura del pericolo rosso, che viene agitato come movente per una saldatura tra le destre che finora non hanno mai collaborato in maniera strutturale a livello nazionale. Mélenchon è visto dalla destra come incarnazione di un male da scongiurare, come bersaglio di una caccia alle streghe che va ben al di là della reale pericolosità del personaggio.
Questa chiamata alle armi è significativa perché rivela l’eterno ritorno, ma stavolta su scala parossistica, del meccanismo che da sempre favorisce il successo della destra radicale lepenista. Il Front national diventa rilevante negli anni ‘80 nell’occhio del ciclone della reazione all’ascesa della sinistra socialcomunista, una rivolta disordinata che incanala mille rivoli e favorisce transazioni, permeabilità e transumanze tra le diverse destre francesi descritte da Rémond e Sternhell. Mai a livello nazionale e mai con continuità, ma in maniera ricorrente. Ora, con l’alleanza nazionale, per quanto parziale, tra gollisti e lepenisti, il cordone sanitario sembra essere caduto. Le destre sembrano essere sempre più vasi comunicanti di un insieme che si oppone con forza a un presunto pericolo rosso.
Il Front national, oggi Rassemblement, ha tratto linfa dalla presenza della sinistra al governo, attraverso la quale ha potuto catalizzare risentimenti e sostegno sia in senso orizzontale, dalla destra cosiddetta “rispettabile”, sia verticalmente, nell’elettorato. Jean-Marie Le Pen è arrivato al ballottaggio nel 2002 dopo cinque anni di governo Jospin. Marine lo ha fatto per la prima volta nel 2017 dopo il mandato di Hollande e i suoi governi socialisti. E nel 2022 ha potuto coagulare il risentimento anti-sinistra a quello anti-establishment, opponendosi a Macron. La rivolta contro la sinistra si è allargata, non solo in Francia, diventando un rigurgito contro le élites liberali, il mainstream, il politicamente corretto, la burocrazia e la finanza apolide.
Ora, nelle legislative del 30 giugno e 7 luglio, la terza via macronista, che in questi anni ha usato il gollismo e scampoli di socialismo come stampella, rischia di restare schiacciata tra i due blocchi di un bipolarismo redivivo. E Macron rischia di essere scalzato, nell’immaginario, da un nuovo enfant prodige, il ventottenne Jordan Bardella. Il candidato del RN a Matignon è un outsider perfetto: retroterra umile, figlio di immigrati italiani, cresciuto da genitori separati, con un’infanzia difficile. Si è iscritto all’università senza mai laurearsi, ha iniziato a far politica presto ed è entrato nella cerchia familiare dei Le Pen intessendo una relazione con una nipote di Jean-Marie e Marine, Nolwenn Olivier. Capolista del RN già alle europee del 2019, nel 2022 è diventato presidente del partito, che però resta egemonizzato da Marine Le Pen, probabile candidata alle presidenziali 2027 (nonostante dichiarazioni passate in senso opposto).
Lo scontro delle prossime legislative sembra, insomma, proporre una nuova versione del confronto bipolare che per decenni ha caratterizzato le vicende della Quinta repubblica. La novità consiste nel fatto che la radicalizzazione dei conflitti geopolitici, sociali, economici, perfino ambientali sembra aver prodotto una radicalizzazione delle istanze politiche e dei loro rappresentanti. A egemonizzare i campi non sono più i moderati socialisti e liberal-gollisti, bensì “le ali estreme”: la France Insoumiseda una parte e il Rassemblement national lepenista dall’altra. A uscire ridimensionata nelle sue pretese imperiali è la proposta centrista di Macron, che rischia di arrivare terza, senza una maggioranza e con un potere negoziale ridotto. Il gioco d’azzardo di Macron, insomma, può avere l’effetto paradossale di resuscitare la dialettica destra-sinistra e di sancire il ritorno della politica a discapito della tecnocrazia.
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