Articolo pubblicato su “il manifesto” del 16.02.2025.
Il discorso pronunciato da Giorgia Meloni all’Assemblea nazionale della CISL ha i toni di un discorso storico. Ha parlato con il suo solito stile comunicativo: assertivo e ipnotico. Giorgia Meloni dice le cose con una tale sicurezza e sicumera che bisogna davvero concentrarsi per rendersi conto degli slalom efficacissimi che compie tra i pezzi di realtà che nomina e quelli che nega o copre o fa sparire, da abile e appunto ipnotica prestigiatrice. Nel corso del suo intervento la Presidente, cambiando di volta in volta toni e linguaggi, ha tenuto insieme supposti successi del Governo, record raggiunti in tema di occupazione, promesse mantenute, inglesismi (reskilling e upskilling), denatalità, attacchi alle banche, lemmi gramsciani (l’ottimismo della volontà) e l’invito (forse futurista?) a «guardare in alto, guardare oltre». Questo pastiche in cui i comunicatori della Presidente sono ormai sempre più esperti è servito solo a presentare il gran finale: “Ricostruire la dinamica tra imprese e lavoro significa gettare le fondamenta di una nuova alleanza tra datori di lavoro e lavoratori, fondata sulla condivisione degli oneri e degli onori”. Prefigurando la sua immagine di sindacato ideale, perfettamente incarnato dalla CISL e dalla proposta di legge sulla partecipazione al lavoro che la CISL ha promosso, la Presidente del Consiglio ha dichiarato che è ora di “superare una volta per tutte quella tossica visione conflittuale che anche nel mondo del sindacato qualcuno si ostina ancora a sostenere”.
Che questo Governo abbia una certa ostilità nei confronti di tutto quello che si muove nella società generando dissenso è noto. Cos’è il ddl Sicurezza se non un gigantesco attacco frontale al conflitto sociale e alle forme attraverso cui classicamente si esprime? Ma definire “tossica” la visione di chi non ritiene pacificata o consociabile la relazione tra le imprese e il lavoro è un passo in più, questo sì un passo oltre. Meloni ha preso dal linguaggio comune una parola che è diventata di uso corrente per definire una relazione che si ammala, in cui una sostanza produce qualcosa di ingovernabile che porta alla ripetizione senza senso di una dinamica di potere e di sofferenza. Tossica: una parola che dal mondo degli stupefacenti è transitata dal linguaggio della psicopatologia quello del quotidiano, esaurendo efficacemente ed esaustivamente tutto l’arco delle complicazioni che possono sorgere in un legame d’amore. Meloni se ne appropria e con un’immagine accosta il conflitto a una dinamica che intrappola le parti immobilizzandole in azioni perverse. Basta andare sul web per trovare migliaia di coach e psicologi e psicologhe che insegnano a riconoscere una relazione tossica dai suoi sintomi, e una persona tossica dalla capacità che ha di rovinare la vita di chi gli sta intorno. Dicono anche come guarire da tutto ciò, chiudendo ogni contatto e andando oltre. La Presidente è riuscita ad accartocciare in una parola associata a un dolore personale impossibile da elaborare, la dinamica sociale portata avanti dall’intera storia dei movimenti. Non è un caso che elogiando il segretario uscente, Luigi Sbarra, Meloni abbia scelto di citare un passaggio in cui “Gigi” liquida il Novecento, un secolo caratterizzato da “pregiudizi, antagonismo e furore ideologico”, anticaglie che non servono a chi sa fare il sindacato del futuro, praticando l’accezione più nobile del termine “confronto”, dimostrando “buon senso”, e sapendosi guadagnarsi “il rispetto degli interlocutori”.
Visione tossica, furore, il conflitto sociale è ripetutamente ridotto all’eccesso e a uno stato di alterazione del senso di realtà e del limite. Quel “qualcuno” che se ne fa ancora interprete, anche nel sindacato è tutt’altro che un soggetto vago. Il riferimento è diretto è al segretario della CGIL, evocato tra le righe anche nel passaggio sulla “rivolta sociale”. E infatti Landini, chiamato in causa, le ha risposto via stampa sminuendo l’aggettivo e provando a condividerlo con “tutti i lavoratori tossici”. Ironico, ma Meloni fa sul serio e quando sceglie di duellare a distanza con il capo della CGIL evoca il fantasma di un’aggressività senza ragioni, la stessa che in molti casi si rivela distruttiva proprio nella dinamica tra i generi. Nell’intervento di Meloni non c’è nessuna attenziona al linguaggio inclusivo e, naturalmente, tutti i soggetti, compreso lei stessa, sono al maschile: lavoratori, operai, tecnici, professionisti, sindacalisti. Unica eccezione le “mamme lavoratrici”. Anche tutto il corredo valoriale non ha incrinature: coraggio, rispetto, onore, tutta roba da galantuomini, ma quando plana sul linguaggio pop le cose cambiano e mira bene il bersaglio.
Sui giornali in questi giorni sono in molti ad affannarsi a rimettere in fila lotte e democrazia, conflitti sociali e diritti, ma servirà del lavoro per raffreddare il pathos con cui Meloni – da Presidente del Consiglio e non da pasionaria di un partito di destra – è riuscita a rappresentare la dialettica tra le parti sociali come nociva al “bene dei lavoratori” e della Nazione.
Nel frattempo, ha fatto capire bene cosa intende lei per sindacato.
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