Signor Presidente, il disegno di legge elettorale mi scaraventa in un paradosso. Da un lato condivido tutto e dall’altro non condivido niente. Siamo alla fine della legislatura e c’è in aula una proposta per superare il Consultellum, che è la soluzione peggiore non solo per le sue gravi anomalie ma per la definitiva delegittimazione del Parlamento. Se lo scenario fosse solo questo non potrei che votare a favore. Ma non riesco a non domandarmi: come siamo arrivati fin qui? E soprattutto con quali forzature istituzionali? E quali inganni contengono queste norme? La legislatura si chiude come si era aperta, con strappi inusitati allo stile repubblicano. La legge elettorale andava approvata subito dopo la sentenza della Corte sul Porcellum, concludendo nel 2014 la legislatura per restituire la parola agli elettori. Invece, in contrasto con il buon senso prima che con le buone regole, si affidò l’arduo compito di riscrivere la Costituzione a un Parlamento eletto con legge incostituzionale. È stato l’inizio di tutti gli errori successivi e ne portano la responsabilità in tanti, sia chi comanda adesso nei partiti sia chi allora ne era a capo. Oggi non si può accettare il voto di fiducia sulla legge elettorale. Non si invochi il caso della legge truffa, perché allora il presidente del Senato respinse la richiesta del voto di fiducia e poi si dimise dalla carica. Era un vecchio liberale come se ne trovano pochi oggi in Italia. L’altro precedente è l’Italicum, che meritava solo l’oblio, almeno per un senso di pudore. Sono caduti tutti i freni inibitori: anche la mozione parlamentare contro la Banca d’Italia conferma che perfino i propositi più sconvenienti possono essere messi ai voti. Ormai si può fare tutto, se è funzionale a uno scopo. Il ceto politico, in gran parte, non è più capace di darsi liberamente dei limiti, di fermarsi prima di apparire sguaiato, di evitare ciò che è inopportuno anche se non è vietato. Le pulsioni politiche perdono ogni riguardo, svestendosi delle forme istituzionali. Se manca il senso del pudore, si rischia di perdere anche il dovere della responsabilità. Il limite della politica è l’essenza di ogni Costituzione. Il voto di fiducia, cioè l’atto politico più solenne della dialettica parlamentare, è stato banalizzato in questi anni per svilire la vita parlamentare. Ormai viene usato quasi settimanalmente nella legislazione ordinaria, per imporre un monocameralismo di fatto, senza ragioni e senza garanzie. Però non si era mai arrivati a utilizzarlo in accordo con parte dell’opposizione per ratificare un’intesa raggiunta dai capi partito fuori dal Parlamento, senza un’adeguata istruttoria nei gruppi e nelle commissioni parlamentari. Non si era mai arrivati a utilizzarlo per una banale questione di agenda extraparlamentare, per l’ossessione di concludere prima delle elezioni siciliane. Il voto di fiducia oggi qui non delimita il confine tra maggioranza e minoranza ma mostra la frattura tra i parlamentari chiamati solo a ratificare e i capi-partito di maggioranza e di minoranza che decidono da soli. Questi hanno anche il vezzo di scrivere nella legge elettorale un inedito status di capo partito, fino a insidiare le prerogative del Quirinale sull’incarico di governo. Promettono la potenza della decisione, ma rappresentano solo l’impotenza di una politica ormai sradicata dalla società. Dovrebbero essere leader forti – così si sono raccontati in questi anni – sembravano capaci di grandi imprese, protesi verso plebisciti popolari, eppure non riescono neppure a convincere i propri parlamentari. Ricorrono ai vincoli di legge perché hanno desertificato la democrazia interna dei loro partiti. Oggi mi si chiede disciplina, ma come senatore ho potuto seguire solo sui giornali il dibattito della legge elettorale. Il Gruppo a cui appartengo, ma credo valga anche per altri, non è mai stato riunito se non per ratificare l’esito finale; in altri tempi i senatori sarebbero stati coinvolti in sede politica anche se la legge fosse stata incardinata alla Camera. Per la prima volta in epoca repubblicana il Senato non è messo in grado di discutere ed emendare una legge elettorale secondo procedure normali. Se le cose seguiteranno così, si finirà per dare ragione a chi propose di delegare l’attività legislativa alla riunione dei capigruppo. Con la stessa logica fu approvato il Porcellum per affidare ai capi-partito la nomina dei parlamentari sottraendo di fatto la scelta agli elettori. Eppure – mi rivolgo ai senatori della destra – devo riconoscere non senza sofferenza che quella di Berlusconi fu un’invenzione lungimirante, perché tracciò una via che nessun’altra forza politica seppe poi abbandonare. Tutti i disegni di legge elettorali arrivati all’esame dell’aula in questa legislatura, anche il finto-tedesco condiviso dai Cinque Stelle, hanno avuto un unico punto fermo: l’indebolimento del potere degli elettori nella selezione degli eletti. Per tutto il resto, invece, sono cambiate rapidamente le soluzioni, perfino su un tema dirimente come il rapporto tra maggioritario e proporzionale. Quell’innovazione tanto lungimirante negli effetti quanto sciagurata nei contenuti, all’inizio, venne coperta di insulti. Finì però per essere messa in pratica anche dagli oppositori, perché coglieva una tendenza strutturale della politica del nostro tempo. Il leader mediatico cerca una legittimazione diretta con il proprio popolo e non può tollerare l’esistenza di un altro canale di legittimazione tra eletto ed elettore. Non sarà un caso se le principali personalità politiche italiane, in varie forme, hanno mostrato un’idiosincrasia per la libertà di mandato dei parlamentari suggellata dall’articolo 67 della Costituzione. L’uomo solo al comando ha bisogno di un Parlamento debole e screditato. Viene dall’alto, non dal basso, la corrosione populistica delle istituzioni. Il Porcellum è l’evento politico più importante della politica italiana di questo inizio secolo. Ha spezzato la relazione eletti-elettori che si alimentava, pur con tanti limiti, nei collegi del Mattarellum. Da quel momento si è accentuata la separazione della classe politica dal paese reale, è iniziata la polemica sulla Casta che ha portato poi a destrutturare il breve bipolarismo della seconda Repubblica. Non è colpa solo della legge elettorale, ma certamente essa ha fatto da catalizzatore della crisi politica italiana. Sarebbe il tempo per una svolta, e invece si prosegue nella vecchia strada. Di più, gli elettori sono ingannati tre volte. Il primo inganno è nell’incatenamento del voto tra uninominale e proporzionale. Sostenendo il candidato di collegio l’elettore è costretto a votare alcuni partiti senza averli scelti. Inoltre, capiterà a molti elettori di votare il candidato uninominale e di trovarsi poi rappresentati in Parlamento da un esponente designato dai capi partito. Il secondo inganno è nella coalizione che serve solo a raccogliere voti ma non diventerà mai un’alleanza di governo. Si promuovono tante liste di ambito locale o su argomenti particolaristici che andranno a rafforzare i consensi del leader, anche senza un programma di coalizione. L’esito sarà un Parlamento più frammentato e più ingovernabile. Il terzo inganno è nel votare senza poter conoscere tutti gli effetti del voto, a causa di meccanismi aleatori come le pluri-candidature e la ripartizione del voto uninominale sulle liste dei partiti. Inoltre, le norme sono tanto confuse da prevedere perfino che l’Ufficio elettorale possa dotarsi di esperti per interpretarle. Le regole elettorali dovrebbero essere facilmente comprensibili per i cittadini. Non posso approvare questa legge che conserva la politica italiana nella palude dell’ultimo decennio. Per uscirne bisognava cancellare per sempre la logica del Porcellum, delle liste bloccate e anche delle preferenze. Si doveva ricostruire un rapporto diretto tra eletti ed elettori, collegando ogni deputato a un collegio piccolo come un quartiere di città o una unione di comuni. Su questa base sarebbe tecnicamente possibile un mix accettabile tra maggioritario e proporzionale. Un’assemblea di oltre 600 deputati legati a piccoli collegi sarebbe una Camera stimata dai cittadini, sovrana nella politica nazionale, autorevole tra le istituzioni europee. Sarebbe l’incipit di una nuova stagione della democrazia italiana.
Esemplare.
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