Molte analisi della sconfitta del PD nella recente tornata elettorale condividono un tratto, talvolta esplicito, talvolta sottointeso: quel partito non rappresenta più le classi sociali da cui origina, cioè quelle cosiddette “popolari”. Da questa constatazione discendono fantasie come quella di “ripartire dal cuore” (Concita De Gregorio), di “tornare a sorridere” (Francesco Piccolo), trovare “un nuovo lessico” (Massimo Recalcati), perché, appunto, “la politica è parlare al popolo” (Michele Serra). L’entità sottesa a queste enunciazioni è verosimilmente un gruppo dirigente che avrebbe sbagliato qualche valutazione o tralasciato qualche importante aspetto a causa di qualche omissione o qualche abbaglio. Quel “non rappresentare” evoca l’immagine di un pittore che, nel suo affresco, abbia dimenticato qualche figura; quel “[non] parlare al popolo” assume, come soggetto implicito della costruzione infinitiva, un oratore la cui prosa risulti carente o inefficace. Si evocano insomma situazioni in cui c’è qualcuno che fallisce la sua azione, situazioni in cui un agente (la dirigenza politica) e un paziente (il “popolo”) sono entrambi costituiti nei loro specifici ruoli. Si tratta allora di rendere efficace l’operato del primo sul secondo. Sullo sfondo di questo pensiero, emerge, neanche tanto in filigrana, la figura della politica come fatto comunicativo e persuasivo, come marketing del prodotto ideologico di gruppi di interesse e di potere. Si riafferma cioè, nei discorsi della sinistra sulla sinistra, tutta l’egemonia della cultura aziendalistica berlusconiana.
Eppure, la Costituzione italiana, la “più bella del mondo”, quella che la sinistra vuole difendere da attacchi veri o presunti, dice una cosa molto precisa: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (Art. 49). Il soggetto attivo di questo enunciato è proprio quel “popolo” di cui si parla, e l’azione non è quella di rappresentare qualcosa o di inventare sloganpubblicitari, ma di determinare la vita politica, cioè di esserne “causa diretta e immediata” (Treccani). Non c’è dunque alcun gruppo dirigente di partito in cerca di rappresentazioni, ma sono i cittadini che rappresentano sé stessi nei partiti, esercitando il diritto soggettivo (quasi un dovere morale, per i Costituenti) di dare forma alla società.
Soffermiamoci su questo associarsi dei cittadini e su questo loro determinare le scelte politiche, che sono la ragion d’essere dei partiti nella democrazia che la Costituzione ci consegna. Chiunque voglia sinceramente porsi il problema di come favorire forme associative e offrire strumenti per determinare le scelte politiche, non può far finta che non esistano i mezzi che le tecnologie della comunicazione sono andate sviluppando fin dal secolo scorso. Di fatto, le persone usano già da tempo piattaforme sociali come Twitter e Facebook per fare, bene o male (o molto male), politica. Con l’eccezione del Movimento 5 Stelle, tuttavia, queste pratiche, nei partiti italiani, sono pressoché assenti (ne parla Paolo Gerbaudo ne “Il partito piattaforma”, Fondazione Feltrinelli, 2018). Il Partito Democratico, appunto, non fa eccezione, anzi si distingue per una strenua (ancorché passiva) resistenza all’introduzione di strumenti partecipativi abilitati dalle tecnologie.
Eppure, già negli anni ’90 i DS avrebbero potuto accedere alle competenze e all’impegno di associazioni come “La città invisibile” e “Network”, quest’ultima cooptata come “area tematica” e neutralizzata con la tecnica “embrace, extend and extinguish” con cui certe grandi corporation sopprimono le innovazioni sociali percepite come pericoli. Nel 2006, per formare 360 giovani sui temi delle politiche europee del PD, il partito non trovò affatto anacronistico caricarli su un treno, pensando forse allo sketch propagandistico (un po’ retrò) più che allo sviluppo di una comunità intelligente, connessa e creativa. Quando Bersani, all’ombra di mille fronde interne, riuscì a varare la sua “Officina politica” (2011) e “Finalmente Sud” (2012), l’idea di dotare le giovani speranze del partito di una piattaforma telematica sociale che potesse connetterli da Bolzano a Palermo in effetti affiorò, ma non abbastanza da venire a galla. Alcuni di quei giovani aprirono gruppi Facebook che ancora oggi sono lì a languire. Nel 2019 Zingaretti annunciò una “Pd App”, che avrebbe dovuto dar vita ad un partito “aperto, non gerarchico, connesso”, una community orizzontale capace di dissolvere le correnti. La app alla fine non si vide, in compenso le correnti trascinarono via Zingaretti. Le Agorà di Letta, infine, sono un flusso di informazione che parte da circoli isolati e finisce in una centrale dirigente, da cui non si sa bene cosa torni.
Quando oggi si dice, come Occhetto, che il PD è “antipatico”, piuttosto che unirsi distrattamente alla litania del “capire chi debba rappresentare”, ci si dovrebbe soffermare su quel sentiment e vedere cosa c’è dietro. Un aggettivo più preciso e pregnante, capace di uscire dalla vaghezza del gusto e approdare a qualche esito concreto, potrebbe essere “inautentico”. Così come la verità è la corrispondenza tra detti e fatti, l’autenticità è la corrispondenza tra immagine e sostanza. Come non osservare, nel PD, lo scollamento tra l’immagine della democrazia insita anche nel nome e la soppressione sistematica di qualsiasi tentativo di sviluppare la partecipazione politica con un uso consapevole dei mezzi che contemporaneità ci consegna?
Non si tratta di immaginare una soluzione tecnologica al problema della partecipazione politica: dalle “nuove antenne” possono ben uscire le “vecchie sciocchezze”, come diceva Brecht. Si tratta piuttosto di realizzare le finalità sociali con i mezzi oggi a disposizione. Ma chi è il soggetto che deve realizzare le proprie finalità? Questa individuazione è il requisito fondamentale del discorso sul cambiamento possibile. La discussione che si sta sviluppando presuppone più o meno esplicitamente che questo soggetto sia “il partito”, questo inteso come insieme dei gruppi dirigenti. Sono loro, riuniti in congresso, a dover “trovare una identità” e “capire chi rappresentare”. Ma questo discorso non fa che confermare le cause all’origine della sconfitta. Non sono infatti i dirigenti a dover capire quale “popolo” rappresentare; è questo, semmai, a dover scegliere chi debba farsene interprete. Rimanendo dentro l’inversione berlusconiana del paradigma democratico, nessun cambiamento è possibile per il PD.
Qualcuno deve “aver la forza di indurre il momento alla sua crisi”, per dirla con Eliot, ed è difficile pensare che questo si trovi “al livello in cui si è generato il problema”, per dirla con Einstein. Tuttavia, l’auspicio è che si faccia strada la consapevolezza che l’unica via d’uscita dall’inautenticità passa per una nuova legittimazione da parte delle comunità che abitano ancora il maggior partito della sinistra italiana. Questa legittimazione certamente non viene da un voto richiesto di tanto in tanto con toni emergenziali, ma può solo scaturire dalla partecipazione attiva, informata e potente alla vita dell’organizzazione. Oggi, questo tipo di partecipazione non è pensabile senza i mezzi e le pratiche della rete, condizioni non sufficienti, ovviamente, ma necessarie.
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