Solo delle potenze coloniali all’apogeo potevano arrecare più danni al Medio Oriente di quanti ne aveva provocato l’Impero ottomano al crepuscolo. Sistemati comodamente a Parigi, a Sèvres e infine a Losanna nel 1923, i plenipotenziari europei suggellarono le rispettive sfere d’influenza nel Medio Oriente senza curarsi troppo dei popoli che laggiù ci vivevano da sempre. Come i curdi, presenti alle varie conferenze per perorare la nascita di un Kurdistan: inascoltati, finirono sudditi di quattro Stati diversi. O come gli abitanti della regione siro-palestinese, divisa tra Francia e Gran Bretagna in base a un’intesa concordata nel 1916 (in piena guerra!) fra due gentlemen poco noti, Mark Sykes e François Picot. Spartirsi la pelle dell’orso prima di catturarlo impediva ovviamente di esaminare in loco la sensatezza di quelle linee diritte tracciate su carte militari. L’intera regione continua a pagarne le conseguenze.
Nel 2006 il Segretario di Stato USA Condoleezza Rice – tanto esperta di URSS quanto digiuna di Medio Oriente – interpretava l’aggressione israeliana al Libano di quell’estate come “le doglie del parto di un nuovo Medio Oriente che sta nascendo”. Negli anni l’illusione di un Greater Middle East a trazione statunitense si è infranta contro la dura realtà: una realtà troppo complessa per essere gestita dai disastrosi neocons di Bush Jr. A fortiori, sarebbe poco serio prevedere ora se la Siria eviterà di smembrarsi, se i curdi avranno finalmente uno Stato tutto loro, se gli alawiti dovranno rifugiarsi sui loro monti a ridosso di Latakia, se i nuovi governanti a Damasco sapranno costruire un moderno sistema federale. L’unico fatto certo è che, intanto, aerei israeliani bombardano impunemente la Siria e le loro truppe occupano altre terre aldilà del Golan per non restituirle mai più, in spregio alle Nazioni Unite.
Chi di noi conobbe la Siria negli anni Sessanta non dimentica l’atmosfera di fiducia che vi si respirava: fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” promesse dal partito Ba’th giunto al potere nel 1963. A noi studentelli spiegarono che Ba’th significava Risorgimento (istintivo per noi collegarlo al nostro). L’altra parola imparata subito fu al-Ishtiràkìya al-‘Arabìya (socialismo arabo), per distinguerlo dal socialismo europeo di stampo marxiano. La terza fu qawmiyya (nazionalismo), comprensibile dopo secoli di servaggio ottomano e coloniale. Il termine che invece ignoravamo era corto ma pesante: qam’ (repressione). Col senno di poi sarebbe stato bene memorizzare anche quello, perché anni dopo avremmo udito increduli le testimonianze dei siriani scampati alle torture di una sadica mukhàbaràt attiva nelle carceri di Sednaya e di Tadmor, a un tiro di schioppo da Palmira, affollata di turisti in ammirazione delle rovine.
Le frontiere in Medio Oriente sono quasi tutte innaturali. Per millenni la via principale per raggiungere dal mare Damasco e Baghdad partiva da Tiro (in Libano), traversava il nord della Galilea (ora Israele), risaliva le colline del Golan (siriane ma occupate da Israele) per scendere a Damasco e oltre. Quella era la vera “autostrada” est-ovest. E oggi? Fra i libanesi resta vivo il ricordo dei viaggi in auto o in treno da Beirut a Haifa, a Giaffa, a Gaza fino a Suez senza neppure un passaporto; chi tentasse di farlo oggi non andrebbe lontano. La frontiera attuale tra Libano e Israele non esiste in natura. Si può partire dalla spiaggia di Naqura e percorrere chilometri fino al monte Hermon senza incontrare ostacoli orografici. Solo la vetta di quel monte biblico, a 2800 metri d’altitudine, segna un confine naturale: è il punto dove si incontrano (e si scontrano) Siria, Libano e Israele.
Vivendo con i caschi blu dell’UNIFIL, a me è capitato di superare la Linea Blu senza rendermene conto (e mi andò bene solo perché mi trovavo sulle pendici disabitate del monte Hermon). A dire il vero, ero salito spinto dalla curiosità: volevo verificare la diceria secondo cui libanesi, israeliani e siriani si dedicavano in omertosa sicurezza a un traffico redditizio. È noto che fino al 2000 gli israeliani occupavano una fascia del sud del Libano. Lì entravano da Israele merci di buona tecnologia (computer, cellulari, ecc.), prontamente caricate su dei muli sotto gli occhi (chiusi) degli occupanti. I muli s’incamminavano in fila indiana lungo il fianco del monte Hermon fino a scollinare in Siria, dove erano attesi dai siriani che scaricavano la soma e ricaricavano i muli con prodotti locali, in genere droga. Poi gli animali tornavano indietro e qualcuno intascava lauti profitti rifornendo gli israeliani di sostanze che gli stessi alti comandi permettevano ai soldati di consumare. Un baratto perfetto. In tanti anni non si registrò un solo incidente, neppure durante le giornate di fuoco tra Israele e Hezbollah. Quei muli li vidi io stesso: ora si godono il meritato riposo.
Nei momenti di tregua fra Libano e Israele si può camminare lungo questo confine artificiale fino a una postazione sovrastante il villaggio israeliano di Metulla. A poca distanza scorgevo contadini coltivare campi ben curati. Ogni tanto vedevo uscire da casa il sindaco: un viso abbronzato e apparentemente pacifico. David Azulai – questo il suo nome – un anno fa è stato invitato da una radio locale a dire la sua sui massacri di Gaza. Ha risposto così: “La striscia di Gaza dovrebbe essere svuotata e rasa al suolo, proprio come Auschwitz… E tutti i rimanenti palestinesi dovrebbero essere trasportati in Libano, dove esistono già campi profughi sufficienti ad accoglierli” (verbatim).
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