Do per acquisite le previsioni catastrofiche su ciò che ci aspetta se si continuerà a non far nulla per arrestare o, meglio, governare il cambiamento climatico. In questa sala e nemmeno fra chi ci ascolta streaming, penso non ci siano negazionisti. Né voglio concentrare il mio intervento sulle responsabilità dei ritardi accumulati, tutti ampiamente conosciuti. Comunque rimando le e gli eventuali dubbiose/i alle immagini delle devastazioni verificatesi nelle Marche, a quelle più recenti di Ischia, per non parlare del Pakistan, che esprimono meglio delle mie parole ciò che potrà accaderci se la nostra iniziativa non produrrà una nuova classe dirigente che metta in campo politiche capaci di ridurre le emissioni climalteranti e governare il clima.
La recente ed ennesima Cop tenutasi a Sharm el- Sheikh sconforta, i cosiddetti potenti della terra di fatto non decidono nulla di utile e sembrano ignorare che le emissioni di gas serra continuano ad aumentare, una prova evidente del fallimento degli obiettivi decisi nelle precedenti Cop. Nonostante il susseguirsi di eventi estremi in tutto il pianeta si continua solo a fare chiacchere e a diffondere pubblicità ingannevole ed eco-fuffa che quotidianamente ci viene propagata dal sistema mediatico e dalle televisioni.
Tenterò quindi di concentrare il mio intervento su cosa concretamente si può fare per cercare di invertire la rotta e tentare di realizzare l’obiettivo di contenere la crescita della temperatura a un grado e mezzo entro il 2050.
Dico subito che non possiamo permetterci di fallirlo. Il prezzo sarebbe la totale ingovernabilità del clima, come ci ripete nei suoi vari rapporti la comunità scientifica. Parlo di governabilità perché in realtà questa è la posta in gioco. Contenere l’aumento delle temperature in un grado e mezzo nel 2050 non significa che non avremo guai, ma solo essere in grado di ridurre al minimo le conseguenze degli stessi.
Che fare dunque e con quali forze? Non sto ovviamente proponendovi un impegno collettivo per la riconversione ecologica della società, obiettivo in questa fase totalmente irrealistico e predicatorio. Vi propongo solo alcune cose che è possibile fare e che potrebbero invertire la rotta e incamminare il paese nella direzione giusta. Sarebbe utopistico puntare ora sulla riconversione ecologica o transizione come la Commissione europea preferisce chiamarla.
Si tratta infatti di un obiettivo di lungo termine, non riducibile a una rivoluzione del modello energetico europeo. Strappare una uscita dal fossile e dal nucleare deve necessariamente trascinare con sé cambiamenti più generali e complessi; dovrà investire e modificare gli stili di vita, il modo di consumare dissipativo che è in auge, il modello produttivo e agricolo del paese, gli assetti delle nostre città, la mobilità che dovrà diventare più intermodale e collettiva. Insomma una rivoluzione che dovrà ridurre il peso dei beni individuali e privilegiare l’offerta di beni collettivi. Serve gradualità ed è ovvio che la dimensione di questo progetto per essere efficace non può che essere planetaria o almeno per quanto ci riguarda cominciare a realizzarla a livello europeo.
Su quali obiettivi penso sia possibile operare e costruire un movimento capace di spingere l’Europa in questa direzione? Vedo tre cose su cui il movimento ambientalista europeo sta concretamente operando fin dalla proposta della commissione europea del progetto “Next Generation Eu” . L’ambientalismo, non solo quello associativo, ha lottato per fermare la proposta di tassonomia che inseriva gas e nucleare fra le fonti utili alla transizione. Poi con lo scoppio della guerra fra Russia e Ucraina ha chiesto un’accelerazione della scelta di un nuovo modello energetico rinnovabile.
Su entrambe, per l’incapacità di coinvolgere forze nella vertenza, l’ambientalismo ha perso: la tassonomia con gas e nucleare è stata approvata dal Parlamento europeo; la guerra ha avuto come prima conseguenza un pesante rallentamento del decollo delle fonti rinnovabili. Si discute solo di gas sebbene il suo prezzo sia elevatissimo e i costi per costruire una nuova infrastrutturazione per rigassificarlo siano altrettanto elevati. Qualcuno poi ripropone, malgrado due referendum, il nucleare.
La partita però non è chiusa definitivamente.
Vedo tre cose su cui provare a riaprirla costruendo conflitti e soprattutto sviluppando le alleanze sociali necessarie per renderli vincenti. Concretamente si tratta di lavorare per costruire tre vertenze: la prima per strappare l’approvazione di un piano di adattamento alle manifestazioni del cambio climatico; la seconda per accelerare la svolta europea e del nostro paese verso le energie rinnovabili, contrastando la scelta non solo italiana di puntare sul fossile; infine la terza per diffondere massicciamente le comunità energetiche rinnovabili.
Possono essere obiettivi comuni a tutto il territorio europeo e quindi l’ambizione che ci deve muovere è cercare di costruire una mobilitazione europea. Se questa è la dimensione a cui aspirare è evidente che le diverse realtà ambientaliste non bastano per realizzarla.
Su queste proposte è necessario far convergere il movimento sindacale, quello pacifista, i diversi femminismi, più in generale le reti diffuse di lotta presenti abbondantemente nella nostra società e in Europa.
Nella lotta contro i rigassificatori, che Legambiente sta sviluppando, percepisco nella popolazione una disponibilità che va colta e organizzata.
Noi siamo qui per ricordare il Social Forum a Firenze di vent’anni fa e anche in quello straordinario movimento all’inizio prevaleva la spontaneità, ma si seppe rapidamente ricomporsi nei social forum. Oggi non manca nella società europea e nemmeno in quella italiana una ribellione diffusa che però è frantumata e quindi c’è un lavoro per ricomporla in un movimento. Credo che le proposte che ho avanzato possano aiutare questa ricomposizione.
Proviamo dunque a unire queste diffusa domanda che sale dalla società costruendo una vertenza contro i vari governi che porti alla approvazione di un piano di adattamento europeo alle manifestazioni del cambiamento climatico. Penso al nostro paese e dico che non significa solo dare più efficacia alla protezione civile e al servizio di allerta rapido che però potrebbero salvare molte vite umane. Le ultime tragedie ci dicono che sostanzialmente si tratta di ripensare il nostro territorio per renderlo meno vulnerabile agli eventi estremi, impedendo concretamente ulteriore consumo di suolo, mappando le zone rosse cioè le aree a rischio, esposte a conseguenze drammatiche se colpite dalle piogge concentrate e violente che il cambiamento climatico ormai produce con regolarità; o le aree costiere in cui vive la maggioranza del popolo italiano che potrebbe essere travolto dal progressivo innalzamento dei mari. Tutto ciò non richiede solo opere di difesa, ma obbliga anche a coraggiose scelte di delocalizzazione, a diffondere servizi tecnici dello stato nelle aree a rischio per dare informazioni preventive alla popolazione. Questo piano è fermo in parlamento e va non solo approvato, ma migliorato profondamente.
Ancora più importante è costruire un grande e unitario movimento per dare corpo a una vertenza per una svolta energetica del paese che rompa con il fossile e ribadisca il no al nucleare. Una svolta che poggi su due pilastri fondamentali, da un lato sulla diffusione di politiche di efficienza energetica e usi intelligenti dell’energia e dall’altro sulle fonti rinnovabili.
Il paese non può avere prospettive se permane un patrimonio abitativo con consumi energetici insostenibili per riscaldarlo, illuminarlo e rinfrescarlo. Al suo miglioramento doveva provvedere il super bonus del 110% che purtroppo ha però fallito il suo obiettivo per il prevalere della speculazione di banche e costruttori che hanno impedito una sua diffusione nelle periferie e nel patrimonio pubblico più degradato, ma il dato più negativo è che dove è stato applicato si sono verificati numerosi incidenti mortali sul lavoro.
Si tratta poi di diffondere una cultura contro gli sprechi in generale e in particolare contro quelli energetici. Di lottare cioè contro usi poco intelligenti dell’energia, come ad esempio quello di bar ed esercizi commerciali che attivano i condizionatori per rinfrescare i locali e contemporaneamente lasciano le porte dei loro esercizi spalancate. Di questi sprechi l’Enea negli anni ‘90 del secolo scorso fece un elenco dettagliato e soprattutto il nostro paese è all’avanguardia nelle tecnologie di risparmio energetico che trovano mercato solo all’estero, dove forse sono più consapevoli che il miglior Kwh è quello che non è necessario produrre.
Va rilanciata la mobilitazione per fermare la scelta del gas, e in generale dei fossili, giustificata sia dal Governo Draghi che da quello attuale di destra, come emergenza strategica per non lasciare il popolo italiano al freddo nei prossimi due inverni e al caldo nelle successive due estati. Ovviamente essendo scelte, in palese contrasto con gli obiettivi climatici, vengono accompagnate da impegni molto vaghi a favore dello sviluppo delle energie rinnovabili. Basta uno sguardo a ciò che scrivono le pagine economiche dei giornali per capire che sia il governo precedente che quello in carica vogliono vincolare il paese al gas per altri 15 anni. Bisogna fermare questo progetto nefasto, contrapponendo la scelta di un salto di qualità nello sviluppo del solare e dell’eolico. Non servono soldi per realizzarlo, ma solo rimuovere tutte le barriere autorizzative che rendono proibitivo qualsiasi investimento nei grandi impianti eolici e fotovoltaici.
Confesso che, quando scoppiò il disastroso conflitto fra Russia e Ucraina, ho pensato, con molta ingenuità, che la necessaria rottura della dipendenza europea dai fossili russi per colpire l’invasore, avrebbe prodotto una accelerazione dell’obiettivo di un nuovo modello energetico rinnovabile. Mi ripetevo se non si accelera ora che il gas costa tantissimo, che bisogna comprare rigassificatori per distribuirlo a popolazione e imprese, sapendo che potrebbe compromettere gli obiettivi climatici, quando si pensa di farlo? Perseguire la sovranità energetica italiana ed europea sicuramente qualche sacrificio l’avrebbe comportato, non certo di lasciare al freddo e al caldo la popolazione, ma una visibile accelerazione avrebbe rafforzato e reso più credibile l’iniziativa diplomatica e di pace dell’Europa, avrebbe dato forza alle politiche di mitigazione del clima, soprattutto avrebbe dato al nostro paese e all’intera UE una opportunità di innovazione, di reindustrializzazione e di sviluppo dell’occupazione. E invece si è preferito favorire le grandi imprese energetiche, in particolare l’ENI, cercando nuovi fornitori di gas o petrolio, e investendo risorse ingenti nei rigassificatori. Era abbastanza scontato che scelte di questo genere sarebbero state accompagnate dall’invio di armi all’Ucraina indirizzando la soluzione della guerra verso un’unica soluzione, quella di una vittoria sul campo di chi è stato invaso. Si fatica a comprendere che una soluzione militare non può che alimentare i pericoli di una estensione della guerra, con un coinvolgimento della NATO.
Infine la terza opportunità di mobilitazione e conflitto è la grande occasione delle comunità energetiche rinnovabili e solidali.
Per noi ambientalisti è la strada migliore e più efficace per ricreare nella società un protagonismo diffuso della cittadinanza, rendendola protagonista delle scelte energetiche, con una partecipazione portatrice di solidarietà. Si tratta di un obiettivo perseguibile in tutta Europa essendo frutto di una direttiva europea che regola l’autoconsumo. L’Italia ha recepito questa direttiva, ma ne ha bloccato per anni l’applicazione non emettendo i decreti attuativi. Oggi finalmente il decreto è stato fatto. Non entro nei dettagli dico solo che come Legambiente stiamo preparando un vademecum sui vari passaggi necessari per costituire una comunità energetica che diffonderemo attraverso i nostri circoli in tutto il paese. L’obiettivo che l’associazione si è data è costruirne 1500 nei prossimi cinque anni. È abbastanza evidente che per realizzarlo non bastano i circoli di Legambiente: serve tanta informazione e partecipazione, serve un grande lavoro di formazione a cui far seguire la costruzione di sportelli informativi nei quartieri delle città, dei paesi e dei piccoli centri e nei borghi. Vanno cioè costruite alleanze con chi opera e vive in questi territori. Legambiente pensa di costruire un’alleanza in primo luogo con il sindacato pensionati, ma più in generale con le tante realtà associative che operano nei quartieri. Insomma bisogna raggiungere gli abitanti in carne e ossa, le imprese di un territorio, gli artigiani, i supermercati, le banche e convincerli della bontà di riunirsi in comunità per pagare meno la bolletta e diventare protagonisti delle scelte energetiche.
Questo è il “fare” che intendevo schematicamente proporre come militante di Legambiente che, con queste proposte, conferma la scelta associativa che da sempre la contraddistingue, di un ambientalismo non chiuso in se stesso, capace di farsi carico e dare risposte oltre che alla crisi ambientale a quella sociale e al crescere delle diseguaglianze. Sarebbe infatti vacuo proporre alla popolazione di lottare per una società sostenibile se non si fosse in grado di dimostrare che essa è elemento costitutivo per creare opportunità di lavoro, soprattutto per produrre in modo più pulito e con minor fatica. Insomma rimaniamo convinti che ogni discorso sul nuovo modello di sviluppo che non fosse in grado di garantire conservazione e sviluppo dei livelli di vita raggiunti sarebbe insensato, viziato non solo di utopismo ma anche di privilegio.
Sono pienamente consapevole che questo “fare” di cui ho parlato è complicato e difficile da realizzare perché il suo decollo è condizionato da una guerra che non c’è volontà politica di fermare e soprattutto che se si estendesse chiuderebbe ogni discorso. Sono altrettanto consapevole che le difficoltà di far crescere uno stabile movimento di massa per la pace sono le medesime che si incontrano per dare gambe e protagonismo al progetto di riconversione ecologica della società, difficoltà accentuate dal procedere separati, come se pace e ambiente fossero obiettivi distinti riunibili solo in qualche appuntamento nazionale. Soprattutto manca a entrambi una soggettività politica di riferimento che faccia di pace e ambiente la propria priorità programmatica, il progetto di società per cui si batte.
Sono però altrettanto convinto che questa soggetto non si inventa a tavolino, può solo scaturire da una società vivace, ricca di conflitti e voglia di partecipazione. Per questo ho parlato di un possibile fare che ci aiuti a reagire alla sconfitta non solo elettorale, che non credo si superi con un azionismo cieco e inconcludente, ma con iniziative che inducano a pensare, ad approfondire, a elaborare in maniera collettiva, cioè come parte di esperienze di lotta.
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