a
Quando la riflessione filosofica è condotta, secondo il modello platonico, in forma di dialogo, il ragionamento si muove intrecciando voci diverse, ovvero accosta l’argomento da angolazioni distinte. Formula chiarimenti ed elabora precisazioni, mette capo a notazioni che via via risultano condivise e, da ultimo, circoscrive entro un coerente assetto teoretico le molteplici acquisizioni parziali.
Avviene così che il genere dialogico, mentre ci rivela la tessitura composita e plurale del ragionare col dar conto dei diversi convincimenti, dei punti di vista, delle opinioni, delle affermazioni e delle certezze sottoposte a circostanziate valutazioni, si presenta altresì come un ordinato decorso (metodo), o si dica un esame critico in atto, inteso a metter capo a giudizi formulati su argomentazioni sensate e su pareri fondati.
Il procedimento filosofico si compone, allora, come un’azione che viene svolgendosi sotto i nostri occhi, alla quale noi assistiamo, quasi diretti ‘spettatori’ (dunque consapevoli testimoni) e che ci coinvolge come ascoltatori, attenti al tenore delle varie voci, agli argomenti e ai pareri espressi.
Nella forma del dialogo si rappresenta dunque un procedere drammatico del filosofare, vi si affermano toni e declinazioni modulate secondo un andamento ‘teatrale’, dove, dicevamo, un concetto, una presa di posizione, un giudizio, un paragone sono, diresti, come avviene delle personae sulla scena, rivestiti d’un loro riconoscibile carattere.
Così il testo filosofico in forma di dialogo prende avvio dall’identità degli interlocutori e ci inserisce nel ritmo che è dato dal succedersi delle domande e delle risposte, dal vicendevole scambio delle obiezioni e delle argomentazioni articolate nelle parole pronunciate dai protagonisti.
In ogni caso, il dialogo filosofico umanistico che si attiene al classico modello platonico è ‘ambientato’, ha la sua scena: ci vien descritto il luogo nel quale si svolge e la durata dell’interlocuzione. E non parrà incongruo sostenere che le opinioni, i giudizi, le tesi e le convinzioni espresse, traggano proprio da quel preciso contesto di tempo e di luogo, la loro legittimazione teorica, e che le resultanze teoretiche si affermino con il timbro (flatus) non equivoco di una delle conosciute voci.
Una scrittura che ambisce aderire al parlato, nel presupposto che nella frase, per come e quando è detta e pronunciata, la parola acquisti il suo senso, mostri la sua valenza teoretica fino a condursi, allora a concetto, fino a conseguire il suo rango di idea, in una dinamica di trapassi dall’effimero al costante, dall’eventuale al paradigmatico. ‘Metamorfosi’ che non comporta come necessaria conseguenza, illico et immediate, un passaggio dal detto al fatto.
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Cedo a queste sommarie (e scolastiche) notazioni nel soffermarmi su alcune pagine d’apertura del Liber Primus e del Liber Secundus di Utopia de optimo reipublicae statu, licenziate da Thomas More a Lovanio nel 1516. [1] Osservazioni tutt’altro che nuove, anzi scontate, che, tuttavia, mi autorizzano a prendere qui in considerazione l’identità di colui che narra dell’isola di Utopia (sola voce del Liber Secundus), quale da More viene tratteggiata. E volgermi poi – e di conseguenza – a riflettere sulle prime pagine del sermo, sulle parole della storia che racconta. Accolgo così una sottolineatura sulla quale più di una volta More insiste nel delineare il volto insieme alla voce di Raphael Hythlodaeus, come quando confessa: “mi avete recato il più straordinario piacere, signor Raphael mio, ve lo assicuro; tanta è la saggezza e la festevolezza insieme di tutte le vostre parole (ita sunt abs te dicta prudenter simul et lepide omnia)”.
E se Raphael è il nome dell’arcangelo che nel libro biblico rende a Tobia la vista – dunque ‘fa vedere’ – si sa che quel nome di erudito conio umanistico, Hythlodaeus, allude al “parlare” al “proferir parole”, al “dar voce”, fino all’“affabulare ciarle”. E il perfetto racconto della città destituita d’un luogo ‘geografico’, nel momento medesimo in cui la si viene istituendo e la si descrive con minuzia lenticolare secondo una precisa ‘topografia’ ideale, è appunto, dichiara More, sermo. Sermo, precisamente “parlamento” (termine perspicuo e puntuale, rispetto ad altre rese in italiano, quali, ad esempio “relazione” nella versione del 1942 di Tommaso Fiore; o “discorso”, adottato nel 1993 da Domenico Magnino) per come sermo è felicemente volto in parlamento, appunto, nella prima traduzione italiana, quella di Ortensio Lando apparsa a Venezia del 1548.
Parlamento che è da connettere, del pari, con i tratti d’una figura, con il riconoscibile aspetto cioè, di colui che quel parlare, quel concludente discorrere intraprende: “un forestiero (hospes quidam), già vólto a invecchiare (vergens ad senium aetatis), dalla faccia adusta, dalla barba lunga, che con una certa trascuratezza si lasciava pendere da una spalla il cappotto e al volto e al portamento si dimostrava un padrone di mare (qui mihi ex vultu atque habitu nauclerus esse videbatur)”.
“Vedi costui?” dice a More il giovane amico Pietro Gilles, “nessuno, tra i mortali tutti, oggi vive che ti possa narrare ampiamente di uomini e di terre sconosciute (qui tantam tibi hominum terrarumque incognitarum narrare possit historiam), e dell’ascoltare di quelle cose (quarum rerum audiendarum) ti so avidissimo”. E More: “Non mi sono sbagliato, a prima vista mi sono accorto che è un padrone di nave”. “Ti sei sbagliato, e non poco – replica Gilles – è andato per mare, certo, ma non come Palinuro, sibbene come Ulisse, anzi come Platone (navigavit quidem non ut Palinurus, sed ut Ulysses: imo velut Plato)”.
Il navigare di Raphael Hythlodaeus non è quello di un nocchiero che conduca la nave alla sua destinazione lungo un percorso segnato nelle carte. Egli veleggia tenendo la rotta che sta nella bussola delle sue parole, orientata nella sua visione, senza altro riferimento o punto, come la nave che incrocia nell’alto del mare da che è ormai dileguata l’ultima vista di terra ferma e senza un riconoscibile indizio che ne appaia sul lontanissimo dell’orizzonte.
Utopia si delinea incerta e in crescendo, si fissa in tratti di più in più netti quale veduta o, meglio, formulazione dello sguardo di Hythlodaeus che trascorre tutt’attorno il mare in assenza di confini che lo distinguano dalle vastità del cielo. Utopia è dare avvio al corso della voce per comporre una narrativa capace di segnare un margine di senso, capace di circoscrivere quanto affiora, quel che emerge dalle acquisite consapevolezze interiori. È disposizione ordinata di desideri, di fantasie, di predilezioni e di convincimenti perseguendo la consistenza e la tenacia che è propria delle figure retoriche, a che mettan capo a costrutti compiuti, cioè perfecti. Utopia è il punto di confluenza tra rammemorazioni e invenzioni, tra segni (o tracce pregresse) e disegni (o prospezioni), visione rivelata a mezzo della voce in forma di parola.
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More, nel Liber Secundus non ricorre, abbiam detto, alla modalità della conversazione con Raphael. Si attiene alla mera dimensione dell’ascolto, propria di chi si astiene dall’interloquire e di chi si dispone, invece, a recepire dalla voce del narratore il racconto senza interruzioni e nella sua interezza: “pregammo Raphael di ammannirci ciò che aveva promesso (ut praestet quod erat pollicitus). Egli dunque, quando ci vide tutti attenti e bramosi di ascoltare (ubi nos vidit intentos atque avidos audiendi), raccoltosi per poco in silenzio e meditabondo, incominciò così (hunc in modum exorsus est)”.
Le parole d’esordio di Raphael descrivono la forma di Utopia. “La isola degli Utopii, larghissima (nam hac latissima est), nel suo mezzo si stende dugentomila passi e per lungo tratto non si stringe molto, ma ver la fine d’amendue i capi si va ristringendo, i quai piegati in cerchio di cinquecentomila passi, fanno l’isola in forma de la nuova luna (insulam totam in lunae speciem renascentis effigiant)”.
Il contorno dell’isola compone dunque il disegno falcato del crescente al primo quarto, effigie d’una ‘luna renascens’. Un emblema che condensa e racchiude essenziali e costitutivi elementi della speciale perfezione di Utopia: la modalità intima del suo esser compiuta. Ci rivela la figura stemmatica che definisce il fondamento di quell’ottimo stato riferendolo a un dato instabile, a un connotato che si mantiene mobile:
[…] più volte osservando la inequale
luna, or con corna or senza, or piena or scema,
girar il cielo al corso naturale;
[…] e vederla
come si accresca e come in sé si prema
così Ludovico Ariosto, nella Satira terza. [2]
Tale la perfezione nell’imperfezione propria del corpo lunare: adeguamenti, proporzioni, armonie certificate, volta a volta, in un procedere mutevole, scaturite dalla mobile regola delle sue vicendevoli, alternate fasi.
Raphael si appresta a narrare delle istituzioni, delle norme e delle consuetudini di quella repubblica, della secolare costanza dei suoi equilibri interni e in esordio dice che tutto quel bilanciato impianto poggia su fondamenti discontinui, sulla impermanenza e la variazione. Un avvertimento preliminare che vale: quanto verrò esponendo è relativo a una fase di transito, è l’aspetto di simmetrie quali coincidono in un determinato momento. Come dire: nella durata del sermo acquistano campo e senso le combinazioni coerenti e coese, di piena compiutezza – perfectae – quelle che è la narrazione medesima a impostare, compattare, rilevare e coordinare.
Gli ascoltatori sappiano allora che la configurazione di Utopia nella sua interezza, dalla prima all’ultima affermazione relativa al suo stato, partecipa d’una perfezione labile che ripete quella della luna che “rinasce”, ovvero si compie, ogni volta, nuova.
Accade allora che il parlamento di Utopia di Raphael sia condotto secondo un punto di osservazione e un orientamento irripetibili e si snodi e svolga ora, noi presenti all’ascolto, diverso da ogni possibile (e auspicabile) altro sermo che potrà altra volta, in altro luogo, essere articolato, diverso anche quando sia attinente e consideri gli stessi temi ed i medesimi ragionamenti che una nuova voce e nuove parole comporranno.
L’Utopia di Raphael si acquisisce nell’ascolto attento e partecipe, ovvero assumendone integralmente i vincoli che la connettono, accessibile solo se assunta iuxta sua propria principia. Raphael racconta che bassi fondali, scogliere “celate a fior d’acqua” e secche rendono l’accostamento e l’approdo alla terra di quella repubblica pericolosi e destinati a fallimento. Unicamente gli abitanti di Utopia conoscono i transiti e i passaggi sicuri in quello specchio di mare (canales solis ipsis notis), così che “non senza ragione un forastiero, soltanto con la guida di un pilota del paese, può penetrare sin dentro all’insenatura (atque ideo non temere accidit uti exterus quisquam hunc in sinum, nisi Utopiano duce, penetret)” di quella intatta e intangibile, “ottima” repubblica.
Un avviso quale potrebbe leggersi in un portolano, ma, sotto specie di metafora, l’ascoltatore è avvertito: solo nel rispetto delle connessioni e solo a proporzione delle misure che ne modulano i percorsi e i costrutti è consentito entrare e, poi, muoversi con agio per i campi e le città di Utopia.
Ovvero: le regole, le norme, le convenzioni e i costumi dell’isola sono detti una volta per sempre, non si revocano in dubbio, non sono suscettibili di discussione: semplicemente, se ne prende visione e se ne dà atto. Ovvero si ascoltano, secondo la modalità impressa da More, senza obiettare o eccepire. Contraddire Utopia, comporta il concepirne ed il narrarne una nuova e diversa.
Per questo, esaurite tutte le parole che afferiscono a Utopia e che la configurano compiutamente, una volta denominati minutamente ogni suo tratto e luogo, allorché la voce del narratore tace, non per caso Moro, nella breve pagina conclusiva dell’opera, scrive: “quando Raphael ebbe ciò esposto (recensuit), mi vennero in mente, fra i costumi e le leggi di quel popolo, non poche disposizioni che parevano quanto mai assurde (quanquam haud pauca mihi succurrebant quae in eius populi moribus legibusque perquam absurde videbantur instituta)”.
Pure More non manifesta alcuna obiezione. Al contrario, loda le istituzioni di quei popoli (illorum institutiones) e loda “il suo parlare (et ipsius oratione laudata)” dicendo che “ad altro tempo potressimo de le istesse cose pensare e ragionare (praefatus tamen aliud nobis tempus, iisdem de rebus altius cogitandi, atque uberius cum eo conferendi fore, quod utinam aliquando contingeret)”.
Dello stesso tema, dunque, iisdem de rebus, (cioè del de optimo reipublicae statu, “de l’ottimo stato de la republica”) e in altra occasione, aliud tempus, e con profitto, atque uberius, si avrà modo di pensare (cogitare).
È che l’ottimo quando lo si configuri e come tale lo si presenti, id est perfectum, non è passibile di alcuna sensata aggiunta o d’una chiosa che possa dirsi illuminante: ogni addizione o supplemento ad Utopia è meramente pleonastico. Ove fosse suscettibile di commento, l’optimus status regredirebbe da superlativo assoluto al rango di un ottativo: Utopia un desiderio, un auspicio che rimanda a un futuro compimento.
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Il testo di More non solo non si intende, ma si fraintende senza rimedio, se non si è avvertiti e non si tiene conto delle complesse relazioni che gli umanisti europei indagano e sceverano entro la tradizione filosofica platonica allorché ragionano, per limitarci alle questioni qui sommariamente toccate, di parola e verità – da un lato – e – da un altro lato – di parola e realtà. Il racconto di Raphael mostrerebbe che la verità è attestata in ciascuna parola per il mero fatto d’essere stata, quella parola, pronunciata e accolta, non proiettata nell’avvenire, ma, qui e ora, assimilata e fatta propria.
Non v’ha dubbio che More fa tesoro con sapienza delle riflessioni sulle virtù ‘veritative’ proprie del narrare. Una tematica che, tra altri molti, condusse ad estrema conseguenza un antico autore, assai caro a lui e ad Erasmo: Luciano di Samosata. Si torni alle rutilanti ed attraenti pagine della sua Storia vera: vera perché, semplicemente, raccontata, riferita, detta. E sappiamo che gli utopiani “sono presi anche dalla grazia e dalle piacevolezze di Luciano (Luciani quoque facetiis ac lepore capiuntur)”, come non manca di rammentarci Raphael. Così Utopia, in quanto detta, è vera della verità delle parole proferite se la verità del racconto sta a sé e non risiede in una sua qualsivoglia effettuale attuabilità e realizzazione di fatto. Vere, allora, di Utopia, le insenature turchine e i gialli campi di grano; vere le sue cinquantaquattro linde e ben disegnate città; vere le consuetudini e le regole alle quali i suoi sobri e felici abitanti si attengono e vero il costrutto politico-statuale che da mille settecento sessanta anni afferma “l’ideale di richiamar tutti i cittadini, quanto più tempo è possibile, per quel che consentano le necessità pubbliche, dalla servitù del corpo al culto e alla libertà dell’anima (“ab servitio corporis ad animi libertatem cultumque”). In ciò infatti consiste, secondo loro, la felicità della vita”.
Le letture ingenue e più frequenti di Utopia – e i numerosi luoghi comuni che han generato – sono, per lo più, rivolte a valutare quanto auspicabile – realistica o illusoria – sia l’attuazione di quella repubblica o, al contrario, quanto sia da evitarsi e come quel sistema debba, nei medesimi principi, esser combattuto. Utopia: un dispositivo, un congegno da applicare o annullare. Tale il secolare maggior contendere intorno all’opera di More.
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L’argomento che More affida al parlamento di Raphael è: come alleviare l’onere della fatica materiale intesa al benessere fisico per afferire alla coltivazione delle libertà dello spirito, dell’anima. Il corpo e l’anima di ciascuno di noi, vivi in questo mondo. Qui sta il nesso che àncora e lega la parola vera di Utopia alla effettuale realtà che ciascun uomo è.
More mostra così di aderire fedelmente al lascito de La Repubblica di Platone (in Utopia, informa Raphael, è presente la maggior parte dell’opera sua, Platonis opera pleraque) che vuole l’uomo “assennato, l’uomo consapevole”, tenere nel corso della propria vita in pregio ed alimentare con scrupolosa cura “le discipline” (mathémata) che elevano l’anima: “con l’intelligenza, temperanza e giustizia”, in un corpo “che con la salute prende vigore e bellezza”. Vive dunque la propria vita “intento a realizzare l’armonia nel corpo per creare il perfetto accordo nell’anima”.
Questo uomo reale, questo concreto singolo uomo che io sono, è chiamato da Moro (e da Platone) a fondare se stesso come Utopia, ovvero ad esercitare entro di sé la cittadinanza d’uno stato.
Dice Glaucone a Socrate: “ti riferisci a quello stato (polis) di cui abbiamo discorso ora, mentre lo fondavamo: uno stato che esiste solo a parole (en lógois), perché non credo che esista in alcun luogo (oudamòu) della terra”. E Socrate: “ne esiste un modello (paràdeigma), per chi voglia vederlo e con questa visione fondare la propria personalità. Del resto non ha alcuna importanza che questo stato esista oggi o in futuro, in qualche luogo, perché (l’uomo reale, vivo) svolgerà la sua attività politica soltanto in questo, e in nessun altro”. [3]
Note
[1] Tengo alla mano il testo latino Utopia. De optime reipublicae statu dato in appendice alla traduzione italiana di Domenico Magnino, Milano, Berlusconi, 1993. Per la traduzione cinquecentesca del Liber Secundus mi avvalgo di Thomas More, Utopia. Libro II, testo latino a fronte con la traduzione di Ortensio Lando, a cura di Antonio Casu, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019. Tengo inoltre presente la traduzione di Tommaso Fiore, Moro, L’Utopia o la migliore forma di repubblica, versione e saggio introduttivo di Tommaso Fiore, Bari, Laterza, 1970. Mi sia concesso di non fornire in nota i puntuali rimandi delle citazioni dal testo di More che riporto.
[2] Satira Terza, vv. 214-219, stilata nel maggio del 1518, in Ludovico Ariosto, Orlando furioso. Le Satire, i Cinque Canti e una scelta delle opere minori, a cura di Carlo Muscetta e Luca Lamberti, Torino, Einaudi, 1962, vol. II, p. 1446.
[3] Plato, Resp. 591c-592b, passim. Cito da Platone, La Repubblica, traduzione di Franco Sartori, introduzione di Mario Vegetti, note di Bruno Centrone, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 639-641
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