Cosa sappiamo
Secondo diverse inchieste, la televisione si conferma la principale fonte d’informazione per la maggioranza degli italiani. Non esistono rilevazioni sullo spazio che l’informazione televisiva nel suo complesso riserva alle questioni internazionali1. L’ultimo Rapporto dell’Osservatorio di Pavia, “Illuminare le periferie”2 ci dice però che, negli ultimi due anni, nei TG italiani del prime time un quarto delle notizie trasmesse hanno riguardato l’estero; di queste, però, la parte più consistente si riferiva all’Europa – che va ormai considerata dimensione domestica. Soltanto il 13% delle notizie riguardanti l’estero (3,2% del totale delle notizie) riguarda quella parte del pianeta che va dalla Mauritania all’Afghanistan – passando per il Corno d’Africa, il Golfo Persico e il Caucaso. Un’area che continua ad avere molti nomi, a seconda del baricentro geopolitico che l’ha definita: MENA (Middle East and North Africa), Grande Medio Oriente, Mediterraneo Allargato, WANA (West Asia and North Africa). Fra tutte, WANA è quella preferibile perché è l’unica che nasce all’interno di quest’area e, per questo, invisa alle diplomazie occidentali ed alle Organizzazioni Internazionali3.
Non si tratta solo di spazio d’informazione ma anche di contenuti. Attraverso telegiornali e all-news, questa regione del mondo entra nelle nostre case solo per i grandi avvenimenti, le catastrofi, gli assassini mirati e cose di questo genere. Al di là del valore professionale e umano di alcuni inviati e corrispondenti, è un’informazione puntiforme, episodica4, che non dà conto della sofferenza quotidiana delle popolazioni e del suo substrato politico, fatto di violenze tiranniche, di soprusi colonialisti, di governanti imbelli e corrotti, di trame internazionali, di domini imperialisti e neocoloniali. Allo spettatore italiano rimane solo l’idea di un’area dominata dai conflitti, dalla violenza, dal caos. Da dove nasce il caos, come siamo arrivati a tutto questo, chi ne è responsabile, come se ne può uscire? Sono le domande alle quali non è solo l‘informazione a non dare risposte, ma è soprattutto la politica, italiana ed europea. E non a caso; perché rispondere a queste domande significherebbe ammettere che ciò che accade in quest’area è semplicemente il riflesso della propria insipienza, del meschino perseguimento dell’interesse particolare, della totale ed eterna subordinazione alla potenza imperiale.
C’è da chiedersi quanto questa consapevolezza sia presente nella sinistra italiana ed europea. Se essa fosse radicata e diffusa, come dovrebbe essere, le conseguenze sarebbero evidenti nelle politiche perseguite, non soltanto nelle relazioni internazionali ma anche nelle politiche domestiche. Non c’è solo la disaffezione allo studio e alle analisi scientifiche ma anche la rinuncia all’uso delle “parole di verità”. Dopo anni e anni di revisionismo culturale, c’è ormai una sorta di autocensura ad applicare categorie marxiane all’attualità internazionale o usare termini quali “imperialismo”. Indipendentemente da ciò che si pensa, sono cose che è meglio non esplicitare perché dai più considerati luoghi comuni, ferri vecchi di un ideologismo superato. E però, non si considera il danno pedagogico e, quindi, politico che questo atteggiamento produce.
Potenza egemonica
Tutto questo per dire che non ci possono essere reticenze nell’affermare che la politica imperialista e di potenza degli Stati Uniti è largamente responsabile dell’esplosione e disintegrazione della regione WANA, anche se non è la sola responsabile. È una storia che comincia da lontano, dopo la fine della Seconda Guerra mondiale: sul piano politico con il ruolo determinante degli Stati Uniti nella creazione di Israele, sul piano economico con l’imposizione degli interessi americani sul petrolio e su quello strategico con l’intervento americano nella crisi di Suez del 1956, che mette fine al predominio nella regione degli imperi coloniali di Francia e Gran Bretagna.
Per tutta la durata della guerra fredda, gli Stati Uniti impongono il loro ruolo egemonico nella regione, nonostante il sostegno sovietico ad alcuni regimi nazionalisti arabi: Siria, Iraq, Yemen, Egitto (fino a Sadat), Algeria. L’obiettivo è quello del “contenimento”, cercando di evitare lo scontro frontale con i sovietici. Quando, però, gli interessi petroliferi americani vengono messi in discussione gli Stati Uniti entrano in gioco pesantemente. Prima di Suez, era successo nel 1953 con il colpo di stato in Iran, ordito da USA e Gran Bretagna, per eliminare Mossadeq che aveva nazionalizzato i giacimenti petroliferi. Avvenne nuovamente nella dimenticata crisi libanese del 1958, con lo sbarco a Beirut della spedizione militare inviata da Ike Eisenhower, per reprimere i moti popolari che minacciavano di portare il Libano nel campo del nazionalismo nasseriano5.
Le responsabilità americane nello scoppio dei conflitti che hanno insanguinato in quegli anni il Medio Oriente sono pesanti anche quando giocano dietro le quinte. Forse, nel 1967, non ci sarebbe stata la Guerra dei Sei Giorni senza il via libera USA a Israele. E nemmeno quella del Kippur, nel 1973, se, forte del sostegno americano, Israele non si fosse rifiutato di restituire i territori occupati nel 1967 – come pervicacemente continua a fare da più di cinquant’anni. Certo, nell’accensione di questi conflitti, anche gli errori, i calcoli sbagliati dei regimi arabi e del loro paladino sovietico, hanno avuto il loro peso. Ma non vi è dubbio che con il conflitto arabo-israeliano s’inaugura per gli Stati Uniti la stagione delle “guerre per procura”; la più famosa delle quali è quella che dal 1975 al 1990 ha devastato il Libano. Seguita poi da quella combattuta contro i sovietici in Afghanistan, dal 1979 al 1989, attraverso i Mujaheddin, reclutati dagli americani, con i soldi dell’Arabia Saudita e il Pakistan come base operativa. La guerra Iran-Iraq (1980-1988) fu l’ultima di queste “guerre per procura” del periodo dell’egemonia americana durante la guerra fredda6.
Dalla decolonizzazione al neocolonialismo
Egemonia non significa presenza esclusiva. Negli anni della guerra fredda, oltre, ovviamente, ai sovietici, nella regione WANA c’erano anche gli europei. L’estromissione di Francia e Gran Bretagna in quanto potenze imperiali, avvenuta con l’intervento americano nella crisi di Suez, trovava già questi due paesi provati dal processo di decolonizzazione, segnato non soltanto dall’indipendenza delle ex colonie ma dall’ascesa dei regimi nazionalisti arabi che comunque avevano connotazioni diverse: dal panarabismo nasseriano al ba’thismo siriano e iracheno e al socialismo algerino7.
Le ex potenze coloniali suppliscono alla perdita delle colonie con una nuova politica, il neocolonialismo. Invece dell’amministrazione diretta e della presenza militare, la dipendenza delle ex colonie viene assicurata, sul piano strategico dalla vendita delle armi, su quello economico dallo “scambio ineguale” – attraverso l’interscambio commerciale, e con il drenaggio di ricchezza tramite l’indebitamento (si calcola che in quegli anni un terzo dei debiti servisse all’acquisto di armi) – e, sul terreno culturale, dalla colonizzazione linguistica, la cooperazione allo sviluppo e le ONG8. Durante la guerra fredda, la Francia diventa il primo paese europeo esportatore di armamenti nella regione, superando la Gran Bretagna e, di gran lunga, Germania Federale e Italia.
Entra in gioco la Comunità Europea
Dalla metà degli anni ’70 fino al 1995, una parte di questa politica neocoloniale viene caricata sulle spalle della Comunità Economica Europea, con la “Politica Globale Mediterranea” (aggiornata nel 1992 con la “Politica Mediterranea Rinnovata”). Si chiamava globale perché coinvolgeva l’insieme dei Paesi del sud e dell’est del Mediterraneo, i cosiddetti Paesi Terzi Mediterranei (PTM)9. In realtà si trattava di Accordi bilaterali di cooperazione, finalizzati a facilitare l’accesso nel Mercato Comune dei prodotti dei PTM, con lo scopo di alleggerire le loro bilance commerciali in modo da favorire le esportazioni delle ex potenze coloniali. Se le arance marocchine possono essere più vendute in Germania, Regno Unito e anche Italia, il Marocco avrà più soldi per acquistare prodotti francesi, dal momento che le sue maggiori importazioni provengono dalla Francia. Il risultato è stato che alla fine di questa politica “europea” i disavanzi commerciali (escluso il petrolio) di questi Paesi con la CEE sono notevolmente aumentati. Gli Accordi comprendevano anche dei Protocolli finanziari con dotazioni ridottissime per aiuti allo sviluppo che – come gli aiuti previsti dalla Convenzione di Lomé, per i Paesi ACP (Africa, Caraibi, Pacifico)10 e per quelli della Banca Mondiale – finivano regolarmente nelle casse delle imprese europee realizzatrici dei progetti.
Un’alternativa “troppo” radicale
Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, furono formulate pesanti critiche a questa Politica comunitaria da parte del Parlamento Europeo, del Comitato Economico e Sociale e dei sindacati europei. Le proposte che scaturivano da queste critiche riflettevano lo “spirito del tempo”: era appena caduto il muro di Berlino, il Mediterraneo diventava l’unica vera area di prossimità dell’Europa e la globalizzazione entrava nelle analisi economiche e politiche. Si proponeva pertanto di sostituire l’ormai superata Politica Mediterranea con la costruzione di un’area strategica geo-economica e geopolitica che, superando l’impianto bilaterale degli Accordi, mettesse insieme Comunità Europea e Paesi mediterranei uniti dalla volontà comune di giocare un ruolo nella globalizzazione, di riequilibrio tra l’area americana e quella asiatica. Superando le nozioni di aiuto allo sviluppo e, anche, quella di cooperazione, le relazioni interne a quest’area strategica euro-mediterranea, avrebbero dovuto essere regolate dal “co-sviluppo”11 e dall’integrazione economica.
“Co-sviluppo” significava mettere in atto politiche di convergenza cioè di cambiamento, da parte europea e da parte di ciascun paese, delle proprie politiche macroeconomiche, microeconomiche, ambientali, sociali in modo da renderle funzionali al perseguimento di obiettivi comuni di sviluppo. Proposte troppo ardite per essere accettate, da una parte e dall’altra. Perché, se per i Paesi Mediterranei questo significava, per esempio, democratizzare l’economia e la società, per la Comunità Europea, per esempio, significava rifondare la Politica Agricola Comune; cosa assolutamente impensabile per alcuni Stati membri, a cominciare dalla Francia.
Narrazione nuova, sostanza mainstream
L’esigenza di un tangibile cambiamento della politica mediterranea fu, comunque, avvertito dai Governi europei e dalla Commissione. Si arriva così, nel dicembre 1995, alla Conferenza di Barcellona che lancia il Partenariato Euro-Mediterraneo (PEM), chiamato, poi, anche Processo di Barcellona. La narrazione e la simbologia (Yasser Arafat allo stesso tavolo con Ehud Barak12) che incorniciano il varo del PEM sembrano aver raccolto il senso delle proposte di rifondazione della politica precedente. I processi di globalizzazione e di regionalizzazione che modificano sempre più l’economia internazionale, sembrano aver convinto i Governi europei a giocare la carta di un’area strategica propria: l’Euro-Mediterraneo.
In realtà, l’unica cosa concreta della Dichiarazione di Barcellona sono gli Accordi di Associazione – tuttora funzionanti – che stabiliscono Zone di Libero Scambio tra l’Unione Europea e ciascun Paese Partner Mediterraneo (PPM). A parte il permanere della criticata bilateralità degli Accordi – in luogo di una sola Convenzione come fatto con i Paesi ACP – il libero scambio non è certamente lo strumento più idoneo a raggiungere gli obiettivi del Partenariato destinati a rimanere pure enunciazioni: prosperità condivisa, sviluppo socioeconomico sostenibile ed equilibrato, miglioramento delle condizioni di vita, occupazione, ecc.
È difficile pensare che i Governi dei Paesi Mediterranei non si rendessero conto che il libero scambio non avrebbe fatto altro che peggiorare la loro situazione. Ci sono due spiegazioni possibili. Una, culturale: il Partenariato Euro-Mediterraneo si collocava nel maistream del “pensiero unico” delle liberalizzazioni del commercio e della finanza. Non bisogna dimenticare che, qualche mese prima di Barcellona, era stato istituita l’Organizzazione Mondiale del Commercio. La seconda spiegazione, politica: al di là della subalternità alle vecchie potenze coloniali, l’Unione Europea, con Jacques Delors, aveva acquistato prestigio e capacità attrattiva; una zattera cui valeva la pena aggrapparsi.
Desistenza
La verità è che l’Unione Europea è incapace di proporre agli altri Paesi qualcosa che non sia il proprio peccato originale: l’approccio mercatistico con cui essa stessa è nata. Lo stesso che, in quegli stessi anni, l’UE aveva iniziato ad applicare ai Paesi dell’Europa dell’Est, che per adeguarsi a tutte le regole del Mercato Interno rimasero fuori dalla porta dell’Unione per più di dieci anni, entrando prima nella NATO che nell’UE, con tutte le conseguenze che ancora oggi l’Europa sta pagando.
La parte più deludente della Dichiarazione di Barcellona – e, di conseguenza dell’attuazione stessa del Partenariato – fu quella relativa al “Partenariato politico e di sicurezza: costituzione di un’area comune di pace e stabilità”. Una serie di enunciazioni e buoni propositi senza alcun dispositivo di implementazione. Tant’è che è la parte del Partenariato completamente inattuata. La cosa più grave è che nella premessa si affermava che il Partenariato non intendeva sostituirsi ad altre iniziative di pace e sicurezza in atto nella regione. Una esplicita dichiarazione di desistenza in favore degli Stati Uniti. Una subalternità storica, che, in più, si spiega con la fase geopolitica in cui la Conferenza di Barcellona si venne a trovare.
Siamo infatti nella fase iniziale e più roboante della potenza unipolare americana, quella del Nuovo Ordine Mondiale, preconizzato da George H. W. Bush. Il salto, dopo la caduta del muro di Berlino, dal ruolo egemonico a quello di unico gendarme del mondo, è stato repentino e fragoroso. Si è realizzato nel 1990-91 con la Prima Guerra del Golfo, una guerra così imponente come gli Stati Uniti non avevano mai più intrapreso dai tempi della guerra in Vietnam.
Ad eccezione del Lussemburgo, tutti i Paesi membri della Comunità Europea si schierarono con la coalizione di George H. W. Bush. Eppure, si sarebbe dovuto prevedere il segno lasciato da questa guerra nella percezione collettiva del mondo arabo. La seconda profonda ferita dopo la nascita di Israele.
Occasione mancata
Non solo; sempre nel 1991 cominciano le guerre che portano alla dissoluzione della Jugoslavia. Una dimissione da parte dell’Europa, ancora più colpevole.
La Conferenza di Barcellona sembra ignorare queste due rotture. Così l’Unione Europea perde la prima e, forse, decisiva occasione per cambiare la natura delle sue relazioni con il Mediterraneo e il Medio Oriente. La “sicurezza comune da Vancouver a Vladivostok”13 è ormai un’utopia di un’altra epoca. Da questo momento è sempre più evidente che l’Europa tende a identificare la propria sicurezza con la propria “prosperità”, una prosperità che sente sempre più minacciata dai suoi vicini.
Se, da un lato, questo significa la chiusura all’interno della “fortezza” europea, dall’altro, la politica di sicurezza declinata a livello di ciascuno Stato membro, significa il mantenimento dei vantaggi economici legati all’ineguaglianza delle relazioni con i paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente. Uno status quo da conservare ad ogni costo, anche quello di aiutare militarmente le élites al potere in questi paesi. Ma questa è anche storia di oggi.
Note
1 La Rai ha un programma dedicato all’informazione internazionale, Tg 3 Mondo. All’indiscussa professionalità della conduttrice fa riscontro una trasmissione, visibilmente priva di mezzi, di 25 minuti, relegata nella terza serata del fine settimana.
2 “I non luoghi dell’informazione. Periferie umane e geografiche nei media”. Illuminare le periferie. Rapporto 2020.
3 MENA (Middle East and North Africa) è la dizione usata dalle Nazioni Unite e dalla Banca Mondiale. L’imprinting coloniale è nel mantenimento dell’uso del termine “Medio Oriente”. La denominazione “Greater Middle East” (impropriamente tradotto Grande Medio Oriente), creata fin dagli anni ’70 dai think tank vicini al Pentagono, fu lanciata da George W. Bush nel G8 del febbraio 2004, che approvò la famosa “Iniziativa per il Grande Medio Oriente”, fatta propria poco dopo anche dalla NATO. Qui si passa dal soft power delle Organizzazioni Internazionali a un esplicito disegno d’intervento imperialistico da parte degli Stati Uniti. Il “Mediterraneo Allargato” è una nostra produzione. Il termine, coniato alla fine degli anni ’80 nell’Istituto di Guerra Marittima di Livorno, è oggi fatto proprio dalla diplomazia e dalla politologia ufficiale italiane e ormai penetrato anche in Francia. È una denominazione che allude a un baricentro geopolitico ben preciso: il Mare Nostrum. WANA (West Asia and North Africa), nato come appellativo puramente geografico, ha assunto valenza geopolitica a seguito dell’iniziativa lanciata dal Principe El Hassan bin Talal di Giordania, WANA Forum (poi WANA Institute), ispirata a promuovere un’autonoma integrazione tra i Paesi dell’area.
4 Yemen e Siria sono quasi spariti dall’informazione televisiva. Cfr. Rapporto 2020, op.cit..
5 Il 1° febbraio, per iniziativa di Nasser, era nata la Repubblica Araba Unita che unificava Egitto e Siria. In Iraq, Il 14 luglio il colpo di stato di un gruppo di ufficiali filo-nasseriani aveva spodestato il re Faysal, istituendo la repubblica.
6 Dopo un attacco a sorpresa dell’Iraq, la Guerra si protrasse con esiti alterni, per otto anni e con più di un milione di morti, e si concluse senza vincitori né vinti. Gli Stati Uniti, ufficialmente neutrali, nella prima fase della guerra, permisero all’Iran di rifornirsi di armamenti americani soprattutto attraverso Israele e Francia, mentre l’Iraq era armato principalmente dall’Unione Sovietica. Successivamente, gli americani, invece, appoggiarono direttamente l’Iraq, fino alla fine della guerra. Nel giugno 1981, Israele andò oltre la vendita degli armamenti: con un attacco missilistico, distrusse un importante impianto nucleare iracheno.
7 Il processo di decolonizzazione riguarda anche l’Italia. Perse Etiopia ed Eritrea, con la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia aveva ottenuto dalle Nazioni Unite, l’Amministrazione Fiduciaria della Somalia, che mantenne fino alla sua indipendenza nel 1960. Più tormentato fu il processo di decolonizzazione in Libia: avvenuto ufficialmente nel 1951 con l’indipendenza e la fine della British Military Administration, la Libia, durante il regno di Idris El Awal, è rimasta sostanzialmente colonizzata da britannici, americani e italiani (per la consistenza demografica e la rilevanza economica di questi ultimi) fino all’avvento della Repubblica Araba di Libia di Mu’ammar Gheddafi nel 1969.
8 Ci fu, con la famosa Conferenza Tricontinentale (L’Avana 1966), un tentativo di organizzare i Paesi del Terzo Mondo (non appartenenti né al Mondo Occidentale né a quello del socialismo reale) contro il neocolonialismo. Francia e Stati Uniti non gradirono l’iniziativa che, peraltro, non ebbe seguito, soprattutto, perché il suo promotore, il marocchino Mehdi Ben Barka, oppositore del re Hasan II, due mesi prima della Conferenza, era stato sequestrato a Parigi dalla polizia francese e poi torturato fino alla morte da agenti marocchini e mercenari francesi. Fu il primo dei famosi “assassinii mirati” di cui è disseminata la storia della regione WANA.
9 I 12 PTM comprendevano tutti i Paesi (extra-comunitari) rivieraschi del Mediterraneo, compresi Jugoslavia, Malta e Cipro tranne Libia e Albania.
10 La Convenzione di Lomé ha regolato, tra il 1975 e il 2000, le relazioni della Comunità/Unione Europea con i Paesi (prevalentemente ex colonie francesi e britanniche) dell’Africa (tranne i Paesi mediterranei e il Sudafrica che vi sarà ammesso solo nel 1997), dei Caraibi e del Pacifico (ACP). La Convenzione aveva tre pilastri: l’accesso senza dazi doganali dei prodotti ACP ai mercati comunitari (Sistema delle Preferenze Generalizzate); compensazione delle fluttuazioni dei prezzi dei prodotti agricoli ACP (Stabex); finanziamento di progetti di sviluppo.
11 Il termine co-sviluppo l’aveva coniato in Francia Michel Rocard ma con una accezione prettamente neocolonialista: la Francia doveva cooperare allo sviluppo dell’Africa. Il Comitato Economico e Sociale europeo, nei suoi pareri e rapporti sulla Politica mediterranea, ne capovolse il significato. Il termine fu adottato da molti governi e accademici di paesi arabi, quasi ad emblema di un’alternativa alla politica europea. Più tardi, alla fine degli anni ’90, il termine co-sviluppo subì un’altra trasmutazione semantica, ad opera del CESPI che ne diede un’accezione ben più riduttiva, legandolo al ruolo degli immigrati rimpatriati nei paesi d’origine.
12 Allora Ministro degli Esteri di Israele.
13 Dopo la caduta del Muro di Berlino, la CSCE (Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, diventata poi OSCE) preconizzava la costituzione di una “comunità di Stati liberi e democratici da Vancouver a Vladivostok”. Con la dissoluzione del Patto di Varsavia, da molte parti si preconizzava lo scioglimento della NATO e la creazione di un nuovo strumento per la sicurezza comune euro-atlantica. “Sicurezza comune da Vancouver a Vladivostok” divenne una parola d’ordine molto in voga nel mondo politico democratico e progressista.
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