Il 10 marzo si poteva leggere su “Business Insider” questa notizia:
“Un progetto per combattere la diffusione del coronavirus tracciando i contatti del paziente attraverso i dati in arrivo dagli smartphone. È quello che, in estrema sintesi, un paio di giorni dopo l’esplosione dei casi di coronavirus in Lombardia, è stato recapitato all’indirizzo dei vertici della Regione. Che però lo hanno di fatto ignorato, preferendo proseguire – come tuttora si sta facendo – a ricostruire i contatti “manualmente”, senza l’ausilio di tecnologie digitali. A portare alla luce il caso, su Twitter, è stato Carlo Carnevale Maffè dell’Università Bocconi, tra gli autori del progetto insieme con Alfonso Fuggetta, professore del Politecnico. La Corea del Sud – spiega Carnevale Maffè – sta sconfiggendo l’epidemia anche grazie a semplici tecnologie di contact tracing del contagio su smartphone. In Corea del Sud il fattore di riproduzione è già stimato sotto 1, grazie alla georeferenziazione dei casi di contagio e alla identificazione dei singoli focolai su mappe molto precise”
Quello che ci interessa di questa notizia non è solo che, purtroppo, il “contact tracing” non sia stato fatto, ma che sia possibile farlo. Il tracciamento degli spostamenti, che consente il controllo di dove vai e quando, serve, come è noto, ad accumulare dati per rendere più preciso il tuo profilo per le agenzie di marketing, a creare valore per i monopolisti digitali, a sorvegliare le tue relazioni politiche. Ma in questo caso serve anche a controllare e prevenire il contagio. È la finalità del suo utilizzo che rende socialmente e politicamente accettabile il dispositivo digitale. Ma questa considerazione ci porta a interrogarci su chi potrebbe orientare verso un utilizzo “giusto” e nello stesso tempo impedire (realmente, non solo normativamente!) l’appropriazione privata di dati digitali che oggi avviene senza contrasto alcuno.
Appena sono state chiuse scuole ed università è iniziato un vero e proprio movimento per consentire agli insegnanti e agli alunni, dalla prima infanzia fino all’università, di continuare la didattica online mediante le più diverse piattaforme. Molti si sono mobilitati. Tra i più attivi l’associazione “I Copernicani” con l’iniziativa “La scuola a distanza. Per fronteggiare l’emergenza” che, nella home page dedicata, viene sponsorizzata da Cisco, Google, IBM e TIM. Tutti sono d’accordo che sia una buona iniziativa proseguire la didattica con strumenti digitali che consentono di insegnare e apprendere a distanza, molti dicono addirittura che, finalmente, grazie al virus, la scuola riuscirà a dotarsi di strumenti adeguati. Non tutti però sono d’accordo sugli strumenti da utilizzare. Perché regalare i dati di studenti e professori alle piattaforme proprietarie invece di utilizzare i tanti strumenti “liberi e gratuiti” oggi disponibili, come ad esempio la piattaforma realizzata dal prof. Meo al Politecnico di Torino? Perché non chiedere alle aziende proprietarie delle piattaforme, che oggi offrono a scuole e insegnanti i loro servizi gratuitamente, le stesse garanzie che forniscono ai loro clienti “paganti”? Perché utilizzare lo stato di emergenza per abbassare la guardia in un settore così delicato, le cui modalità di funzionamento influenzeranno (contageranno?) il futuro di molte generazioni?
Più in generale in molte amministrazioni pubbliche è in corso l’estensione di modalità online di erogazione del servizio e di lavoro. Nell’amministrazione della Giustizia si è deciso di utilizzare tecnologie digitali non solo nella acquisizione dei documenti processuali, ma anche nello svolgimento delle udienze. Nella circolare del Ministero si legge in proposito:
“I collegamenti effettuati su dispositivi dell’ufficio o personali utilizzano infrastrutture di quest’amministrazione o aree di data center riservate in via esclusiva al Ministero della Giustizia.”. Quindi dati sensibili come quelli della giustizia possono risiedere sui data center delle aziende che forniscono il servizio (la dizione ‘riservate in via esclusiva’ non dà nessuna garanzia di non utilizzo da parte di altri).
E lo stesso può avvenire per i dati della Sanità, i cui servizi, proprio in ragione dell’emergenza, si chiede che siano in gran parte erogati online. Si pensi, ad esempio, al triage che viene effettuato sui portatori di sintomi compatibili con il contagio. L’emergenza digitale che ne deriva riguarda la collocazione e la gestione dei dati sensibili utilizzati o generati dai servizi sanitari. Dove debbono risiedere, con quali garanzie e con quali controlli?
È passato un anno da quando il capo dipartimento del ministero dell’innovazione, Luca Attias, ha proposto il progetto di un “Polo strategico nazionale” per mettere al sicuro dati e servizi digitali delle Pubbliche Amministrazioni e per offrire loro servizi infrastrutturali pubblici. Un progetto utile, ma non ancora realizzato, anche per la resistenza degli attuali fornitori di questi servizi. L’emergenza sanitaria rende questo progetto ancora più indispensabile e urgente.
Più in generale basta guardarsi intorno, anche nella cerchia più ristretta dei propri amici, per vedere che tutti, anche i più restii all’utilizzo degli strumenti digitali, sono alle prese con un qualche sistema di video conferenza o di lavoro a distanza, costretti a fare i conti con la disponibilità di un collegamento adeguato, con interfacce d’uso spesso inutilmente complicate, con la scelta fra strumenti a pagamento e strumenti apparentemente gratuiti, con la necessità di imparare termini e funzioni prima felicemente ignorate.
È come se stesse avvenendo un gigantesco processo di alfabetizzazione digitale coatta.
Qualcuno evoca la chimera di uno “switch off” digitale di massa.
Lo “switch off”, lo “spegnimento” delle modalità non digitali di lavoro, di comunicazione, di servizio è da tempi lontani il sogno che accomuna la più piccola azienda di servizi digitali al più grande monopolista. Quello che di straordinario sta avvenendo è che lo “spegnimento” non viene gestito gradualmente, un insieme di utenti o un servizio dopo l’altro, ma tutti gli utenti, repentinamente e drasticamente, sono costretti a inserire la modalità “digitale” in tutte le dimensioni della loro vita.
Senza dubbio alcuno l’utilità delle tecnologie digitali nel contesto di emergenza in cui siamo costretti a vivere è massima. Tutti lo stiamo verificando personalmente. Non è la solita predicazione sulla magnifica inevitabilità dell’innovazione. È l’esperienza della vita vissuta in condizioni di emergenza. Senza videochiamate, conferenze di gruppo, didattica a distanza, acquisti online, oggi vivere sarebbe molto più difficile e faticoso. Senza le forme di socialità che le tecnologie consentono, che sono sì forme degradate di socialità, che sostituiscono ad esempio ai corpi la loro immagine, ma sono tuttavia le uniche possibili in regime di isolamento, nessuna misura di distanziamento sociale sarebbe sostenibile.
Ma è proprio l’utilità senza ‘se’ e con molti ‘ma’ delle tecnologie digitali nelle condizioni attuali che può aiutarci a comprenderne le loro caratteristiche fondamentali e le implicazioni che ne derivano. E a contrastare l’entusiasmo con cui da troppi pulpiti si saluta la digitalizzazione della vita e della società come l’effetto collaterale positivo della pandemia.
Non vorrei che, guariti dal virus biologico, ci accorgessimo di aver contratto un diverso e più insidioso virus, che genera assuefazione a quel “distanziamento sociale” al quale proprio gli impieghi prevalenti delle tecnologie digitali già ci stavano inconsapevolmente conducendo.
La traiettoria di impiego delle tecnologie digitali, così come si è caratterizzata negli ultimi anni, e come viene descritta nelle strategie dei grandi monopolisti digitali, oggi viene svelata senza ambiguità dall’emergenza della pandemia.
Si tratta di dispositivi che abilitano e consentono il distanziamento sociale, e che proprio nella sua generalizzazione trovano la loro massima utilità d’uso.
Esserne consapevoli è l’unica forma adeguata di alfabetizzazione digitale e servirà, quando l’emergenza sarà finita, per provare a cambiare radicalmente direzione all’impiego e allo sviluppo della straordinaria potenza di queste tecnologie.
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