New York è stata il centro del mondo nelle ore che l’hanno vista consegnare la presidenza al repubblicano Donald Trump: un consenso ampio negli stati chiave, quelli che facevano da pendolo alla campagna elettorale, eppure una disapprovazione altrettanto dilagante in quelli restanti. Avanzano, nelle ore successive al voto, diverse letture che indagano sulla composizione dell’elettorato, sulla relazione fra gli stati centrali e quelli periferici, sulla riuscita della campagna repubblicana e, l’evidente fallimento di quella democratica. Diversi gli interrogativi aperti sulla gestione dell’America targata Trump: dalla politica estera, a quella interna, dall’immigrazione all’aborto, non ultima la questione sull’accordo di Parigi. E’ certamente presto per affermare con certezza il volto che assumeranno gli States, ma ciò che a me è parso chiaro è la disapprovazione dilagante fra le strade di New York all’indomani del voto. Dal cliente da Starbucks che ironizza sul fatturato economico del neo presidente, alle rose intervallate dai versi di una poetessa messicana posizionate lungo la Trump Tower da un gruppo di studenti universitari. La piazza che sorge di fronte alla Torre, a West di Central Park, nei pressi del Lincoln Center, si colora di volti che testimoniano la multiculturalità newyorkese. Popolata da manifesti e cartelli che rivendicano ora il ruolo della donna, emarginato e denigrato all’espressività delle sue funzioni nelle varie dichiarazioni del neoeletto presidente, ora la determinazione a combattere forme di fascismo che intendono adottare politiche e misure restrittive verso l’immigrazione. Le voci si uniscono in un grido unico: Is not my president, Stronger Together. Eppure è il presidente di quei sessanta milioni di elettori ed elettrici che hanno deciso di sostenere la sua candidatura che è sembrata capace di restituire all’America il ruolo di prima potenza fra le altre, leader economico indiscusso, uscito vincitore dalla crisi che ne aveva cambiato le fattezze interne, inasprendo le già presenti fratture sociali che, altro non pare volere se non il riconoscimento, la medaglia all’onore, che sia avvenuto davvero. Ritornare all’età d’oro, si direbbe a Roma. The America’s dream, direbbe qualche nostalgico affezionato a quel Nuovo Mondo in cui si emigrava per cercar fortuna. Non la pensa così Renaldo, immigrato di prima generazione, arrivato a New York all’età di cinque anni quando la madre, donna intelligente e premurosa, decise di lasciare il Pakistan alla volta delle Americhe. Guida un bus shuttle di dimensioni modeste: dieci passeggeri che trasporta dal Jfk Kennedy a Manhattan, e viceversa. Lavora per cinque hotel, 12 ore al giorno. “America has no dream – mi dice con tono consapevole accompagnato dal guizzo di un sorriso amaro- the America’s dream today is survive.” Il suo racconto mi consegna il ritratto di un’America che, in seguito ai due mandati Obama, è riuscita ad umanizzare i problemi sociali, capace di garantire una prima assistenza sanitaria a tutti, in grado di promuovere il riconoscimento dei diritti fondamentali a coloro che non appartengono alla classe dirigente, o meglio i bianchi americani ricchi, tentando di eliminare l’evasione fiscale che, invece- tema caldo anche nella campagna elettorale- con l’amministrazione di Trump potrebbe dilagare nuovamente come fenomeno vizioso dell’economia statunitense. Renaldo, a differenza di alcuni suoi colleghi ed amici, ha sostenuto una donna alle elezioni presidenziali perché, dice ancora: “Hillary aveva una visione politica, sapeva dove condurre l’America, sarebbe stata il primo presidente donna. Io credo che la sua preparazione le avrebbe consentito di governare bene. Ma alcuni non l’hanno votata proprio perché non volevano essere governati da una donna. Non sono d’accordo, io credo che sarebbe stato un esempio. Sostenere Trump è come ritornare indietro negli anni: dopo Obama non si può votare uno come Trump. Per noi immigrati saranno tempi duri, ancora più duri.” Le dichiarazioni e il progetto di adottare misure contro l’immigrazione nel prolungamento del Muro della Vergogna è evidentemente un tema che segna una rottura fra due visioni politiche. Una potremo definirla includente che guarda alla composizione urbana delle città e ai profili dei lavoratori che occupano posizioni medio basse svolgendo le mansioni più umili, dagli operatori ecologici ai bartender, dagli autisti ai camerieri; l’altra escludente che, invece, mira ad inasprire le condizioni per ottenere e rinnovare i permessi di soggiorno sino alla costruzione fisica della frontiera eliminando quel naturale movimento che ha caratterizzato la storia americana nella conquista del Wilderness. Lo sa bene Renaldo che, non appena mi mostra la sua decisa contrarietà al Muro, amareggiato mi racconta che uno dei primi ad essere rimpatriato, qualora le parole di Trump diventassero operative, sarebbe il suo collega ed amico arrivato dalla Jamaica poco più di un anno fa. E’ difficile questa vittoria oggi: gli otto anni di Obama, seppur controversi sia per le decisioni adottate in politica estera che per le misure austere ma di lungo respiro messe in pratica in politica interna, hanno lasciato la sensazione, nell’aria, che il cambiamento culturale ed ideologico fosse ormai avviato. Invece l’ampio consenso repubblicano riporta in scena le vecchie paure di quell’America di memoria bushiana che si ergeva lungo una contrapposizione: l’America, bianca, cattolica, di ceto medio alto, nella quale i ruoli familiari erano ben distinti e l’america, multietnica e confusionaria, di diverse tradizioni religiose e dinamica. La fitta conversazione dura circa un’ora, il tempo che occorre per raggiungere l’aeroporto. Diverse le tematiche su cui ci confrontiamo: la sanità, il sistema d’istruzione statunitense che, quasi sembra costringere ad una istruzione di classe perché ampio è il divario fra le scuole pubbliche e quelle private sia per qualità dell’insegnamento sia per opportunità professionali. Evidente è la mancanza di politiche di welfare inclusivo capaci di assicurare assistenza familiare, sanitaria, scolastica abbandonando la logica dell’individualismo coatto, della responsabilizzazione estrema del soggetto autore e colpevole delle sue condizioni materiali di esistenza. Evidente è la consapevolezza di chi, come Renaldo, deve lavorare di più, lottando su diversi fronti per vedersi riconosciuti alcuni diritti fondamentali e per non perdere quelli di cui oggi gode. E’ pronto a resistere, mi dice: “Dobbiamo accettare che Trump è stato votato ed ha vinto ma, se non dovesse farà bene, allora protesteremo.” Arriviamo all’aeroporto in perfetto orario, il mio aereo decollerà alle 16.55 lasciandosi alle spalle la modernità architettonica di una città che, resta, il laboratorio sociale di cui parlava Park: contraddittoria e maestosa nelle sue strade, associativa nei banchetti per la raccolta fondi della Primary School, arrabbiata per gli scherzi delle urne, calorosa nelle strette di mano e nelle corse al semaforo rosso.
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