‘Scende l’ombra sullo stadio che si svuota.
Sulle gradinate di cemento ardono qua e là alcune fiamme di fuochi fugaci, mentre le luci e le voci si spengono.
Lo stadio resta solo e anche il tifoso torna alla sua solitudine di io che è stato noi.
Il tifoso si allontana, si sparpaglia, si perde, e la domenica è malinconica come un mercoledì delle ceneri dopo la morte del carnevale’.
Eduardo Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio
Era Gaber, sopra un fondo musicale malinconico, a cantare che ‘l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé’. Parole, le quali non avrebbero potuto avere altra forma musicale diversa da quella drammatica. Perché, infatti, è solo riconoscendo questo sfondo di crisi che si potrebbe, ancora una volta, riattivare quel ‘principio speranza’ a cui una parte di noi anela, per restituire alla coscienza di quest’ultima una forma oltre la disgregazione,nella tensione verso una comunità dialogante con il tragico, per muoversi, autenticamente, nelle necessità del mondo.
Perché il destino del mondo è impossibile da cogliere senza una autentica coscienza di parte che ne abbia cura, e le ingiustizie e le forme di oppressione presenti davanti a noi, quotidianamente, nel movimento dell’intero non si possono contrastare se non traendo origine dalla propria esistenza, interrogandosi su quella domanda, ultima, del ‘perché sono qui’.
Quel sentimento di appartenenza, comunitaria e cosmica, infatti, svanisce sempre più in bagliori estemporanei individualistici, anche nelle sue forme esteriormente comunitarie. E quando, allora, si osservano forme apparenti di comunità, come quei tifosi che, insieme, sostengono, nella durata, la stessa squadra calcistica, interrogarsi è di un qualche giovamento per l’analisi critica della società.
Essere tifoso, nella mia infanzia, ha significato, a un livello solo parzialmente cosciente, la possibilità di una espansione, o di una consolazione, in una gioia o di in un dolore condiviso. Pensare a quelle persone che, in quel preciso momento, avrebbero patito modi di essere affini ai miei è stata quella preliminare possibilità esperienziale di una appartenenza storica. Un seggiolino senza schienale di uno stadio Olimpico gremito, con quel desiderio di essere tutt’uno, e, insieme, l’inquietudine, ed il dubbio che, forse, quella totalità mi avrebbe deformato.
Perché, a una prima approssimazione, è questo il primo tratto riconoscibile della fenomenologia del tifoso, la relazione tra individuale ed universale. Dialogo che diviene sempre più conflittuale nel momento in cui lo sviluppo di un senso critico si deve mediare con questo universale slegato, a cui l’individuo, per la gran parte, non contribuisce attivamente, soprattutto nelle sue possibilità decisionali, e in cui, dunque, convinzioni, ideali, ciò in cui si crede singolarmente devono entrare in relazione con questo al-di-là, a cui si partecipa con tratti fideistici.
Questa è il travaglio del tifoso, mediare, continuamente, tra il sé ed il suo sacrificio. Oscillare tra questi due estremi, nella tensione verso la possibilità di una ‘armonia dissonante’ che contrasti, insieme, le alternative di massa asfittica, ed atomo disperso.
Quel primo estremo, esemplificato da Eduardo Galeano, straordinario scrittore latino-americano, nella figura del ‘tifoso fanatico’, per cui, al fondo, si deve affermare che la propria squadra ha sempre ragione. Un’apparente assolutizzazione di quel sacrificio del sé, in una integrale consegna delle proprie ragioni a questo al-di-là. La spasmodica ricerca del nemico, per demarcare, dividere il mondo in ‘noi e loro’, ‘il Bene e il Male’. Una forma di comunità chiusa, in cui la necessità del respiro individuale viene soffocata da un affanno generale, e in cui, dunque, a prevalere è questo apparente riconoscimento, che, in verità, si muove nella finzione di un sacrificio che non riscatta la propria esistenza, bensì la imprigiona in un mondo irreale, per il suo aver obliato la presa in carico del tragico, quella sola possibilità preliminare al riconoscimento di forme autentiche di comunità.
E quel secondo estremo, di cui vediamo, ora, sempre più gli effetti in alcune modalità di gioco, competitive e, insieme, individuali, tra cui spicca ciò che si definisce ‘fantacalcio’ (gioco di simulazione, questo è il punto rilevante per il testo, in cui ogni singolo partecipante è proprietario di una squadra di calcio virtuale, formata da calciatori reali scelti nel torneo a cui il gioco si riferisce, ad esempio la Serie A). Questa critica non coglierebbe alcun centro, se volesse colpire ciò che, nei suoi propositi, resta un intrattenimento, il quale, se inserito in uno sfondo ironico, serberebbe in sé la possibilità di vivere il dentro in nuove forme, non necessariamente regressive. La questione si pone esclusivamente se questo, in realtà, divenga rivelatore di una tendenza essenziale del moderno. Quel passaggio, che si presenta in forme spontanee, dall’universale al-di-là verso una radicalizzazione dell’individuale, e, quindi, il dislocamento del tifo dalla mia squadra condivisa alla mia squadra personale.
Questi due estremi, in verità, non sono nient’altro che le due espressioni fondamentali del moderno, l’atomizzazione e la ribellione regressiva verso un mondo chiuso che non più ci appartiene, tra un individualismo, dunque, che ha circoscritto l’alterità in una dimensione di pericoloe una forma così asfittica di comunità da apparire fatiscente.
Comprendere e interpretare le modalità di tifo, nella contemporaneità, significa interrogarsi su quali siano le possibili forme di resistenza contro l’atomizzazione, e le sue maschere fittizie, le quali, nella loro apparente opposizione, in realtà, impediscono ogni possibilità trasformativa. E prendere coscienza di questo scacco, oltre la dimensione del tifo, è la possibilità di ripensare a nuove forme di cultura in cui l’individuo possa partecipare a un universale in cui riconoscersi, nella possibilità di un associarsi, nella dissonanza, delle prospettive delle singole esistenze verso un qualcosa che non si ponga più al-di-là, bensì qui, nel nostro mondo, contribuendo con la nostra azione, per riacquisire coscienza contro le antiche e nuove forme di oppressione.
Oltre la disgregazione del moderno, oltre forme di comunità fittizie, nella tensione verso un mondo, e una società in cui tentare un riconoscimento, che serbi in sé quella possibilità di far oscillare, con una divina acrobazia, ‘libertà dello spirito’ e ‘cura del comune’.
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