La sinistra è uscita sconfitta dalle elezioni della Comunità Autonoma di Madrid. La vittoria schiacciante è stata tutta per il Partido Popular e per la sua candidata Isabel Díaz Ayuso. La campagna elettorale è stata breve e dai toni aggressivi e fortemente ideologizzati, alla destra per vincere è bastato sbilanciarsi verso le posizioni neofranchiste di Vox e ripetere un discorso fin troppo banale arricchito da slogan contro il comunismo e per la libertà, per bar e ristoranti sempre aperti – malgrado nella regione si sia registrato il maggior numero di morti e contagi rispetto al resto di Spagna – per tasse più basse e la promessa di un futuro prossimo incredibilmente prospero. La maggioranza si è convinta e ha votato per Ayuso presidente, senza interrogarsi troppo sul carattere superficiale di frasi e slogan che esaltavano un nazionalismo di interessi regionali e profitti individuali in opposizione al nazionalismo più identitario, già visto nelle recenti elezioni catalane. Ha stravinto il populismo madrileno con un voto contro le misure e le decisioni approvate durante la pandemia dal governo centrale.
In questo contesto appare scontato e forse anche un po’ debole ridurre ad una sorta di colpo di scena le dimissioni di Pablo Iglesias che prima si è allontanato dalle cariche di governo per candidarsi alle elezioni di Madrid e poi da quella di segretario di Podemos, dopo l’esito elettorale così poco soddisfacente non per la sua formazione, che ha comunque aggiunto 3 scanni nel parlamento della regione, ma per tutte le opposizioni alle destre madrilene che governano ormai da 26 anni.
“Lascio la politica, non ho contribuito a unire, sono diventato un capro espiatorio” così ha detto Iglesias la notte stessa del risultato elettorale madrileno, preoccupato di essere stato lui ad aver risvegliato l’elettorato più reazionario e dell’ultra destra.
Quella delle dimissioni politiche, del passo indietro o di lato, è una consuetudine nello scenario spagnolo, ma questo non impedisce che prendano corpo libere interpretazioni.
C’è chi benevolmente si limita a sottolineare che questa uscita di scena non sarà un abbandono dell’impegno politico per consacrarsi al ruolo di padre che accudisce i suoi tre figli mentre Irene Montero, sua partner, continuerà la sua già brillante carriera politica. C’è chi sostiene che Iglesias continuerà comunque a contribuire in qualche altro modo, forse anche solo da un canale televisivo. Alcuni giornali hanno riportato sue recenti dichiarazioni: “Non sarebbe male se ci fosse un po’ di pluralità in più nei media spagnoli. Ma mi restano pochi anni in politica. Poi ho già detto, darò lezioni di politica e riprenderò quello che ho fatto prima di essere in Podemos con La Tuerka tv e altri programmi” e c’è chi vocifera di una negoziazione in corso per condurre un progetto televisivo. Chi invece si limita a ipotizzare che non smetterà di gestire la sua influenza sul partito anche da una posizione più defilata.
Parlare di crisi del capo politico o ridurre tutto a un eccesso di leaderismo – anche se il soggetto in causa si presta – spiega troppo poco ed evita di interrogarsi sulla questione di fondo alla base della sua scelta. In sintesi Iglesias si dimette perché i risultati elettorali della comunità di Madrid segnalano che la fase espansiva del movimento degli Indignados del 15M è chiusa o al contrario rimane aperta, ma solo una nuova leadership di Podemos può rilanciare quella sfida in un panorama nazionale?
Sono passati ormai 10 anni e se si considera chiusa quella fase di cambiamento iniziata nel 2011 dalle piazze con la rivolta degli Indignados, le dimissioni di Iglesias appaiono come una fuga dalle responsabilità. Soprattutto sembrano strumentali e finalizzate solo a ratificare la fine dello spazio politico di Unidas Podemos con il passaggio di consegne a Ione Belarra (ministra dei Diritti sociali) e Irene Montero (ministra dell’Uguaglianza) per la leadership di Podemos, e a Yolanda Diaz (ministra del Lavoro e dell’economia sociale), chiamata ora a sostituire Iglesias come vicepresidente del Consiglio, come prossima candidata per le elezioni politiche alla Presidenza del consiglio per Unidas Podemos. Ma Pablo Iglesias – dopo aver imposto la fine del bipartitismo, un cambio generazionale e la cultura della coalizione – è da oltre un anno che va dicendo che la leadership di Podemos e della formazione di coalizione con Izquierda Unida avrebbe dovuto trasformarsi, diventare “corale e femminile”, cioè il contrario di quel maschile e individuale con troppi eccessi di protagonismo che lui stesso ha interpretato per anni.
Così queste tempestive dimissioni diventano per lo più un ribaltamento e la constatazione che solo un profondo rinnovamento del gruppo dirigente può riuscire a rilanciare quel moto di cambiamento e trasformazione della Spagna che è iniziato con il 15M e assume un significato particolare la scelta di affidare a tre donne l’impegno di rilanciare lo spazio politico di Unidas Podemos e la sua capacità di rappresentanza politica di quel movimento sociale.
È anche comprensibile che siano per prime le destre spagnole a pensare che le dimissioni di Iglesias siano il risultato di una sconfitta e la fine di quella richiesta di cambiamento che da dieci anni scuote la Spagna. Non a caso Pablo Casado, segretario del Partido Popular, sta cercando di utilizzare la vittoria delle destre ottenuta a Madrid come chiave per interrompere l’alleanza fra PSOE e Unidas Podemos. Il bersaglio di Casado però non è Iglesias, il professore con la coda di cavallo che dieci anni fa arringava masse indignate e che da lì è diventato vicepresidente dell’esecutivo, ma è lo stesso Pedro Sánchez, presidente del consiglio e responsabile del tentativo di spostare a sinistra i socialisti spagnoli. Sánchez sarebbe colpevole di aver coinvolto il PSOE in un governo di coalizione con un piccolo partito ribelle, con quella forza politica statale nata dai collettivi anticapitalisti, dalle organizzazioni sociali e dai gruppi della cosiddetta sinistra alternativa, sempre in lotta per “dare l’assalto al cielo”.
Iglesias, Podemos e la sua riorganizzazione del modello di partito hanno giocato un importante ruolo per risolvere la crisi di rappresentanza che ha caratterizzato l’inizio del 2010, la crisi che ha dato origine al noto “non ci rappresentano” delle piazze del 15M, gridato proprio contro il PSOE di Zapatero. Hanno consolidato uno spazio a sinistra dei socialisti, più attrattivo e popolare soprattutto per le persone più giovani. Oggi c’è una difficoltà per l’intera sinistra spagnola di continuare a rappresentare quell’indignazione e questo anno e più di pandemia ha messo in evidenza, e inasprito, le disuguaglianze sociali già esistenti rendendo più complicata la lotta per superarle.
Nell’ultimo decennio il più importante soggetto di cambiamento che ha attraversato la Spagna è stato senza dubbio il movimento femminista. Dalla sua elaborazione collettiva, dalle sue tante assemblee, dalle giornate di sciopero globale che ha saputo animare è venuto il principale freno alle disuguaglianze, alla liquidazione dello stato sociale e a quella visione bigotta, familista, fatta di privilegi che le destre sollecitano per la società spagnola.
Non solo, nelle mobilitazioni femministe è sempre emersa con forza la spinta a un cambiamento che riuscisse a coniugare la domanda di uguaglianza e diritti con l’esigenza di quella transizione ecologica e quella lotta al cambiamento climatico che spesso si evoca come una chimera. Non è un caso che i movimenti femministi si sono spesso intrecciati con altri soggetti sociali, come la lotta di pensionate e pensionati per una vita degna o di chi si batte per sanità e istruzione pubblica. Oggi le femministe spagnole sono anche protagoniste delle mobilitazioni del movimento Fridays for Future, che reclama un salto di qualità nelle lotte al cambiamento climatico parlando di giustizia sociale e ambientale. Femminismi e ambientalismi sono quei movimenti globali che sfuggono a un’idea di rappresentanza politica tradizionale, anche a quella che una formazione come Podemos ha saputo finora promuovere.
Questa è la vera difficoltà della sinistra, su cui ha agito e trovato spazio la destra a Madrid. Dare rappresentanza politica a una domanda di cambiamento che questi movimenti esprimono richiede un percorso molto più articolato di quello che portò alla fondazione di Podemos nel 2014 e al conseguente spostamento a sinistra del PSOE. Né basta per rappresentarli riflettere sul superamento dello schema destre/sinistre, né tantomeno una visione immobilista e predicatoria che gli anticapitalisti spagnoli propongono, e che sembra interessare tutta la sinistra europea. Vista in quest’ottica assume un’altra rilevanza la decisione di Pablo Iglesias di farsi da parte, chiamando l’intero partito a un rinnovamento il cui percorso sarà deciso non da tre donne, ma da tre femministe. Questa scelta non è la concessione di un leader, ma è un esempio del cambiamento che si sta vivendo nella politica dei partiti in Spagna come risultato di intensi anni di movimenti femministi. Certo il risultato non è affatto scontato.
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