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Lunedì 13 ottobre è stato per Donald Trump un giorno campale. E trionfale, accolto alla Knesset e poi in Egitto come un salvatore. “È spuntata l’alba di un nuovo Medio Oriente” – ha proclamato tra gli applausi – “Ci sono voluti 3000 anni per arrivare fin qui” (senza precisare quale guerra stavano combattendo israeliani e palestinesi per i 2900 anni prima del 1948). Ma giocare con i numeri è il suo forte. Infatti ha aggiunto: “Ho chiuso 8 conflitti in 8 mesi”. Trump il paciere, Trump the pacifier? Si sa che in inglese questo termine significa anche succhiotto, la tettarella. Eccolo dunque tornare alla Casa Bianca con il sapore del successo in bocca, pronto ad accogliere Zelensky per chiedergli come mai il 7° conflitto – quello tra Russia e Ucraina – si ostina a non finire.

A dire il vero, neppure l’8° conflitto pare chiudersi, alla faccia di quanto concordato a Sharm el-Sheikh. La tregua voluta da Trump è durata meno di 24 ore. L’IDF ha sparato di nuovo, mentre Hamas regolava i conti con dei palestinesi giudicati traditori. Adesso, sulle macerie di Gaza vagano i senzatetto puniti da colpe non commesse, frammischiati a predoni tollerati – o anche protetti – dalla potenza occupante. Lo stesso accade in Cisgiordania, con la sola differenza che lì i predoni sono ebrei ultraortodossi. In futuro si ripeterà quanto accaduto ogni volta che pazienti mediatori erano riusciti a concordare tregue, armistizi e preliminari di pace in Medio Oriente: qualche attentato sanguinoso riportava la diplomazia alla casella di partenza. Tra i giovani palestinesi che hanno visto Israele bombardare a tappeto e trucidare sotto i loro occhi decine di familiari, quanti saranno i prossimi shahid in cerca del martirio?

Ricordiamo cosa disse Berlusconi, antesignano di Trump, subito dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003. “Mi rallegro che la guerra sia finita, che sia stata rapida e abbia prodotto meno vittime di quanto si temeva”. L’anno seguente, con l’Iraq in fiamme, rassicurava il nostro Parlamento così: “Ormai in Iraq c’è una vita regolare, ci sono le scuole e tutto quanto. Certo, ci sono cose che non funzionano: ad esempio i semafori a Baghdad non funzionano. Ogni tanto uno scende dalla macchina e si mette a dirigere il traffico” (il classico meneghino “Cià, ghe’ pensi mi”).

Con l’attuale regime israeliano la pace è impossibile. Ma almeno un passo in quella direzione Trump potrebbe fare fin d’ora: spodestare Netanyahu e il suo governo scellerato. Come? Beh, per due secoli gli Stati Uniti sono stati maestri in questa “palestra muscolare”. E oggi Trump verrebbe sostenuto nell’operazione da vari governi arabi, oltre che da frange crescenti dell’opinione pubblica americana e israeliana. Senza aggiungere che Bibi cadrebbe comunque appena gli venisse a mancare la stampella dell’amico Donald.

Ovviamente, il Premio Nobel per la Pace nel 2025 non è stato conferito a Trump, in barba alle sue minacciose aspirazioni e alle insinuazioni contro Obama, che l’aveva ottenuto nel 2009. Arduo compito sarebbe spiegare al tycoon che l’etica e l’estetica prevalenti tra i membri del Comitato norvegese del Nobel per la Pace – permeato di austera sobrietà – cozzano contro l’etica e l’estetica del Donald. È prevedibile che lui – fanciullo viziato – adopererà le sue note armi di pressione, stavolta contro la Norvegia, per ottenere il giocattolo. Ci tiene, al giocattolo, più di quanto lo immaginiamo: forse per sentirsi assolto dalle sue perversioni e certamente per gelosia nei confronti del suo predecessore alla Casa Bianca.

Meglio dunque chiarirgli subito che non otterrà il Premio neppure nel 2026. A meno che… A meno che non abbia l’umiltà – una volta tanto – di seguire l’esempio di Obama. A luglio del 2015 i media erano così focalizzati sul successo diplomatico di Obama sul nucleare iraniano, da non accorgersi della foto che lo ritraeva mentre percorreva il corridoio fra le celle del carcere federale di El Reno in Oklahoma. Mai prima un presidente si era spinto a visitare un istituto di pena di quel genere, e a confessare all’uscita: «Nel raccontarmi la loro infanzia e gioventù mi è parso di capire che questi reclusi hanno commesso errori non tanto diversi da quelli commessi da me». Grazie a quel gesto il Presidente riuscì a convincere il Congresso a rivedere la barbarie del solitary confinement (23 ore al giorno in totale isolamento, riservato a circa 25.000 carcerati). E dopo quell’esperienza concesse la grazia a 1715 detenuti (ma non l’avrebbe certo concessa ai facinorosi che nel 2021 devastarono il Congresso). Tra quegli infelici graziati da Obama il più meritevole resterà Bradley Manning (ora Chelsea dopo il cambio di sesso). Senza la sua coraggiosa “delazione”, mai gli americani avrebbero preso coscienza dei loro orrori sul fronte iracheno. Lo stesso accadrà anche ai militari israeliani impegnati da due anni a compiere crimini di guerra sul fronte palestinese.

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2 commenti a “Trump all’alba di un nuovo Medio Oriente”

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