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Le due guerre in corso nel vicinato hanno provocato esodi biblici, un milione di morti e un numero incalcolabile di feriti, di orfani, di senzatetto, di traumatizzati a vita: un’ecatombe ancora in corso, nella rassegnazione generale, o nell’indifferenza in cui sfocia l’assuefazione al male. Si attribuisce a Stalin una cinica osservazione: “Se una persona muore di fame è una tragedia, ma se ne muoiono milioni sono solo statistiche”. Né ci consola sapere che oggi si muore di violenza armata piuttosto che di fame. Che ci soccorra almeno la psicanalisi di un illustre polemologo, James Hillman: “Non potremo mai parlare di pace se non sondiamo questo amore per la guerra. Non possiamo capire questa attrazione se non ci addentriamo nello stato marziale dell’anima. Noi non partiamo in guerra in nome della pace, come declama una retorica ingannatrice, ma piuttosto per amore della guerra”.

L’umanità sembra aver smarrito quelle due “certezze” che Kant additava a sé stesso: “Il cielo stellato sopra di noi e la legge morale dentro di noi”. La legge morale? Come risvegliare le coscienze atrofizzate dei tanti che non ne percepiscono più la valenza? Gli ingegneri dell’intelligenza artificiale dovrebbero inventare un algometro (in greco algos = dolore, sofferenza) in grado di misurare la concentrazione di sofferenze, presenti e passate, così come un contatore Geiger misura la radioattività accumulata sul terreno e nell’atmosfera. Muniti del prodigioso strumento si potrebbe percorrere le vie del mondo, sostando ogni volta che comincia a vibrare: fortissimo su Hiroshima, su Nagasaki e poi sull’Indonesia, dove tra il 1965 e il 1966 furono sterminati milioni di comunisti (o ritenuti tali). Altrettanto forte sull’intero Vietnam, in particolare attraversando villaggi martiri come My Lai; e sulla vicina Cambogia, funestata da una follia genocida che ne dimezzò quasi la popolazione. Anche in Siberia l’algometro suonerebbe, misurando il grado di sofferenze patite nei gulag da Vladivostok fino al carcere di Charp, sperso nella tundra per eliminarvi Navalny lontano dagli occhi del mondo.

Sorvolando il continente africano, l’algometro vibrerebbe all’impazzata: Rwanda, Biafra, Sudafrica, Sudan, Libia, Somalia… Oltre Atlantico, la sensibilità dell’algometro segnalerebbe la piazza di Tlatelolco, teatro della “macelleria messicana” di studenti in quel sanguinoso 2 ottobre del 1968. Lungo il confine tra Messico e Stati Uniti lo strumento punterebbe in Arizona sulla contea di Maricopa, dove lo sceriffo italo-americano, Joe Arpaio, costringeva gli immigrati finiti sotto le sue grinfie a spaccar pietre a 35°; vibrerebbe dove Tom Homan, detto “zar della frontiera”, ora ingabbia e separa le famiglie in arrivo – gli adulti dai bambini – per scoraggiare chi tenta di varcare il confine. Forse emetterebbe un segnale anche all’avvicinarsi di Kristi Noem, la governatrice del Sud Dakota premiata da Trump a capo della Sicurezza Interna per aver punito a fucilate il suo riottoso cane da caccia.

Non lontano dal Messico, l’algometro punterebbe su Guantánamo, attrezzato a luogo di tortura per musulmani (non importa se colpevoli o innocenti). Carceri come Guantánamo o come Abu Ghraib in Iraq, Bagram in Afghanistan, Huntsville in Texas, Villa Grimaldi in Cile lasciano il dubbio che tra i maggiori produttori di dolore nell’ultimo secolo vi sia proprio quell’America che nella Dichiarazione d’Indipendenza aveva iscritto il perseguimento della felicità tra i diritti inalienabili dell’uomo.

Tra un mese, con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca l’algometro rischia di esplodere. A meno che – sorvolando il Medio Oriente – non esploda già prima, nel misurare la pulizia etnica e il male inflitto dalle forze di Netanyahu ai palestinesi di Gaza, agli abitanti della Cisgiordania, ai libanesi sfiancati dai bombardamenti. A cui si aggiungono le sofferenze patite dai siriani sottoposti al giogo di una dittatura specializzata nel torturare i propri cittadini nelle prigioni di Tadmor e Sednaya. Assistendo ai disperati spostamenti avanti e indietro delle migliaia di abitanti di Gaza e della Siria in fuga, solo allora si coglierà, forse, il senso della terribile confessione di Schopenhauer: “Se un Dio ha creato questo mondo, non vorrei essere quel Dio. La miseria del mondo mi spezzerebbe il cuore”.

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