Il miraggio di un rilancio della “two-state solution” come via di uscita dalla crisi e come mezzo per ricucire il rapporto con gli stati arabi “moderati” è stato proposto, fra gli altri, dal Segretario di Stato Blinken, ma in termini vaghi. Anche così, è stato nettamente respinto dal Premier israeliano.
Sul New York Times (14 novembre) Thomas Friedman, tornato da un soggiorno in Israele, osserva che Netanyahu si fa guidare – contro l’interesse di Israele e di tutto l’Occidente – dall’esigenza di prolungare una situazione conflittuale che gli consente di tenere nel congelatore i suoi guai giudiziari e restare al potere. Anche senza il suo assenso, se non vuole farsi trascinare verso il disastro, Washington deve proporre un “piano Biden”.
Paradossalmente, sempre secondo Friedman, basterebbe rispolverare – almeno come base di un negoziato – il “piano Trump” del 2020, frutto di una stretta collaborazione fra il “Primo Genero” Jared Kushner e alti funzionari israeliani.
È un documento molto articolato, confezionato in modo abile, che a prima vista può apparire abbastanza equilibrato, e infatti ha sedotto un commentatore intelligente come Friedman. Parla di “Stato palestinese” (e di una Ambasciata USA ad Al Quds, nome arabo di Gerusalemme, sua capitale), e in questo senso rappresenta un passo avanti rispetto alla posizione presa in precedenza da Trump, possibilista sulla annessione: “uno Stato o due Stati, poco importa”.
Ma quali sono le concessioni alle pretese israeliane che spiegano il sostegno entusiasta dato allora da Netanyahu a questo piano e il veemente rigetto da parte della Autorità Nazionale Palestinese (ANP) di Abu Mazen? Limitiamoci ai punti principali.
Primo. Lo Stato palestinese avrebbe una sovranità limitata, in quanto la sicurezza rimarrebbe in mani israeliane. Così pure il mare territoriale lungo la costa di Gaza.
Secondo. Gli insediamenti ebraici rimarrebbero intatti, in gran parte incorporati nel territorio di Israele, in modo che il 97% degli ebrei viva entro i suoi confini. Gli insediamenti più lontani (il 3% equivale pur sempre a oltre 200mila abitanti) continuerebbero ad essere delle exclaves, in cui i coloni manterrebbero la cittadinanza attuale e sarebbero soggetti solo al diritto israeliano, come oggi. Il criterio del compattamento etnico al 97% si applicherebbe anche alla popolazione palestinese: trasferimento del “triangolo” arabo di Galilea allo Stato di Palestina, mentre gli altri arabi sparsi in piccole enclaves sul territorio di Israele verrebbero privati della cittadinanza e sottoposti all’ANP.
Terzo. La Cisgiordania, oltre a venire amputata delle zone vicine al confine in cui si concentra il grosso degli insediamenti, dovrebbe cedere tutta la valle del Giordano fino alla frontiera con il Regno di Giordania, che per ragioni strategiche Israele vuole annettersi. Sarebbe dunque interamente circondata. Una grande enclave, cosparsa di una miriade di piccole enclaves ostili. Gli anglosassoni non potrebbero più chiamarla West Bank (per distinguerla da Gaza), visto che sarebbe tagliata fuori dalla riva destra del fiume.
Quarto. Per compensare queste concessioni territoriali non basterebbe l’acquisizione dei comuni arabi di Galilea (punto 2). Ai fini di una formale equivalenza delle modifiche territoriali, Israele cederebbe pezzetti di deserto inabitabile nel Negev, come già previsto in vari piani discussi alla fine degli anni novanta.
Quinto. Gerusalemme-Est, abitata da 330mila arabi e annessa dal 1980, resterebbe sotto sovranità israeliana. Per soddisfare formalmente uno dei punti irrinunciabili della posizione dei palestinesi e di tutti i paesi arabi, un sobborgo orientale verrebbe chiamato Al Quds (la Santa, nome arabo di Gerusalemme) e dichiarato capitale, invitando tutti i paesi terzi a stabilirvi le proprie ambasciate presso il nuovo Stato.
Nei suddetti piani dell’epoca di Bill Clinton si parlava del villaggio di Abu Dis.
Sono motivi più che sufficienti per dubitare che l’ANP accetti di negoziare sulla base di questo documento, a maggior ragione se sarà guidata da Marwan Barghouti, il “Mandela palestinese”, che non è certo un moderato. Quanto a Netanyahu, che nel 2020 lo aveva avallato al fine di facilitare gli “accordi di Abramo”, oggi non lo prende in considerazione, inveisce contro l’ANP che dovrebbe essere l’interlocutore (“una autorità che fomenta l’odio e offre ricompense agli assassini”), e boccia l’idea di attribuirle la responsabilità di governare Gaza.
Ammesso e non concesso che lui nel 2020 fosse sincero nel prospettare (solo all’estero!) la creazione di uno Stato palestinese, pur in versione ridotta, oggi la situazione è cambiata. L’alleanza con i partiti suprematisti di Ben Gvir e Smotrich ha spostato il Likud ancora più a destra. Può darsi che dopo la cessazione delle ostilità ci sia una resa dei conti e Netanyahu perda il potere. Ma se ciò avverrà, a sostituire questa coalizione non saranno le colombe di Shalom Akhshav (Pace Adesso!), una piccola minoranza da tempo, ma ancora di più dopo il 7 ottobre.
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