Le folle di sardine che si radunano nelle piazze italiane non sono la democrazia. Non sono neanche la democrazia sorgiva, per usare l’espressione che Adriana Cavarero dedica ai movimenti non violenti, non anti, visti come momento germinale dell’agire politico arendtianamente coincidente con la democrazia. Ma sono un indizio. Una traccia. Dicono di una speranza di vita in comune, che cortocircuita la complessità e durezza del reale. Pescano, letteralmente, entro il mare di ricordi vaghi, come vago è ciò che li unisce, ricordi di festa, di rito comunitario, non fusionista ma ‘sciolto’ dove si entra o si esce liberamente: una festa che non ha altro scopo che celebrare se stessa, manifestare agli altri ma soprattutto agli stessi partecipanti lo stare insieme, riconoscendo di esistere e di essere in molti.
Corteggiate ormai da ogni parte politica grazie alla vaghezza delle poche, pochissime parole che usano, le sardine difendono la liberaldemocrazia e la Costituzione. Anche questo scarno uso della parole è un segno della festa, del gesto che prende il posto dell’articolazione discorsiva e divisiva. Non c’è lexis, parola, ma contatto vivo, corporeo, prossemico, uno stringersi insieme. Un’aria di festa, di canzoni, contro un clima, di odio. In contrasto infatti con l’occupazione degli spazi mediatici (cui peraltro non sono estranei essendo convocati tramite social e ritrovandosi nel riscontro mediatico che viene dato alle loro iniziative), da parte di chi presenta il popolo e la democrazia in modo antagonista, violento, aggregando – secondo la norma base di ogni populismo – attraverso la frontiera del noi/loro. Un indizio che il rilancio della democrazia nei termini di “odio” (si insiste molto su questa parola cui si contrappone una festosa ironia e atteggiamenti di benevola coesistenza) non totalizza la realtà delle persone.
Atmosfere. Non un fare politica, ma appunto un piccolo segno, un indizio. Da una parte il ricordo delle vecchie feste di paese senza discorsi ma con le canzoni tradizionali che riscaldano l’appartenenza, lo stare in comune: lo stesso legame emotivo sul quale fa leva l’aggressività nazionalista contro l’ansia della globalizzazione, ma in chiave distesa, tranquilla: che ragioni ci sono per essere in tensione, per seminare paura? Dall’altro ancora un ricordo/rimpianto della liberal-social-democrazia, il desiderio a lungo negato di vivere tutti in pace, senza fusione né confusione, in un atteggiamento di solidarietà non radicale, del genere di quella che proprietari di case vicine si manifestano reciprocamente: se ha bisogno di qualcosa, conti pure su di me. Come se questo fosse la democrazia. Un indizio potente della rimozione necessaria per sopravvivere in un mondo politico che si dice democratico, dove questo piccolo desiderio di quietitudine della classe media (è quella delle sardine) non trova rappresentanza, né tanto meno risposte. In quanto la retorica, pane quotidiano della politica democratica, insegue il discorso allarmante.
Un indizio paradossale – l’ultimo della serie – della crisi della democrazia.
La doppia crisi della democrazia
L’affermazione che la democrazia è in crisi è un luogo comune. Quella attuale però sembra una crisi più violenta dello strutturale essere-sempre-in-crisi della forma democratica, forma costitutivamente aperta al proprio continuo rinnovamento attraverso la critica e la disputa, ritmata nelle scadenze elettorali e regolata sulla provvisorietà del titolo di gestione del potere politico.
Sembra che il disagio dei singoli – le sardine sono una pluralità di singoli – rispetto alle forme politiche tradizionalmente democratiche si sia spinto a un tale livello che si cercano, a tentoni, sperimentalmente o pragmaticamente piuttosto che teoreticamente, nuove forme di democrazia; si mettono alla prova modalità alternative di interpretare questa antichissima, nebulosa parola alla quale è difficile rinunciare.
La democrazia è in crisi oggi su due versanti che sono peraltro correlati e rinviano l’un l’altro.
È in crisi la versione della democrazia liberaldemocratica e rappresentativa (in occidente coincidente da tempo con la democrazia tout court) che concentra la scena democratica su forma e regole procedurali, avendo preso atto della impossibilità di un fondamento sostanziale (che viene letto in direzione pericolosamente totalitaria). Il posto del potere è vuoto, nel senso che non ci sono soggetti che siano legittimati naturalmente e oggettivamente ad occuparlo, ma possono farlo solo in modo temporaneo e modificabile: la democrazia si definisce sul principio della propria costitutiva strutturale imperfezione. Questo svuotamento della sostanzialità del potere e la contingenza temporanea e rivedibile di coloro che ne occupano il posto, sono il punto di forza ‘realista’ e proceduralista insieme di tutte le versioni dominanti della democrazia rappresentativa-parlamentare e in particolare della versione aggregativa ‘scientifica’ della democrazia, di modello schumpeteriano che vede elites in competizione, secondo il format della concorrenza nel mercato: elites che si disputano il potere di amministrazione e governo e che hanno l’evidente tendenza a degenerare in caste.
“Noi”: il nucleo rimosso dello stare in comune
Il vocabolario e le argomentazioni possono essere molto diversi (per esempio nel modello kelseniano), ma tutte le versioni proceduraliste che hanno il pregio ‘moderno’ di disinnescare il conflitto sui valori, pur rispecchiando realisticamente ciò che avviene, mancano il punto critico perché ignorano o meglio rimuovono il nucleo di eccedenza di fede e di senso che è il supplemento di ogni ‘stare in comune’: rimuovono frettolosamente il portato libidico della vita politica, l’eccesso di godimento che sta dentro la parola noi, sia nella tradizione democratica liberale, che, tanto più in quella comunitaria e nazionalista. Ignorarlo perché irrazionale – come non ha fatto la destra e come da tempo fa la sinistra – è rischioso ed inutile perché il rimosso si manifesta in modo spostato.
Questo plus non visibile della rappresentazione democratica che viene ignorato (sia dalla istanza anti-totalitaria della filosofia politica liberale alla Lefort, sia dal cinismo ‘realista’ del modello mercato), si sposta nel populismo che, al contrario, evoca platealmente questa eccedenza libidica esasperando retoricamente il labile fronte antagonista. Il populismo di oggi è l’altra faccia del proceduralismo che sterilizza le differenze: offre, piuttosto che miti di emancipazione e di progresso, forme risponsive, non mediate da un progetto solido, di identificazione libidica di facile consumo. Una scena democratica come quella attuale della governance neoliberale, carica di cinismo e insofferente verso l’espressione stessa di ‘bene comune’, una scena che proibisce a se stessa il nucleo di senso e di passione – considerandolo addirittura potenzialmente non ‘democratico’ – si tiene perfettamente con il populismo di oggi, sia con l’appello ad una volontà generale al di là degli sporchi compromessi della politica, sia con le sue identificazioni al ribasso piuttosto che idealizzanti. E si tiene, dall’altra parte, con la rievocazione della festa comune di coloro (sardine, girotondi flash mob) che si contrappongono al populismo, ma non accedono alla proposta politica costruttiva e organizzata, ripiegando sul rimpianto generico di un ‘comune’ serenamente condiviso.
Manifestazione vs rappresentanza
Èa mio avviso il nodo profondo del problema. Per quel che invece della crisi è riconducibile alla crisi della rappresentanza sono stati avanzati possibili correttivi interni all’ottica moderna-proceduralista: dai forum deliberativi che sperano di coinvolgere i cittadini (tutti nella versione razionalista habermasiana; gli stakeholders direttamente interessati alla questione da governare, nelle esperienze di democrazia partecipativa) fino alla contro-democrazia e ai suoi dispositivi di prossimità e di controllo suggeriti da Rosanvallon.
Ma questi correttivi non intaccano la radicalità della crisi attuale e anche di questo sono indizio gli apparentemente innocui raduni delle sardine. La crisi democratica colpisce infatti la stessa logica rappresentativa del moderno e la politica come luogo di sintesi e di ‘costruzione unitaria del popolo’. È una spinta antirappresentativa e immanentista decisamente epocale: esordisce nell’attacco degli anni sessanta-settanta al sistema di deleghe e al concetto stesso di autorità, nello smascheramento della volontà di potenza che sottende ogni rappresentazione metafisica e nel rifiuto della riduzione ad unità delle differenze, che nelle sintesi sono sacrificate e tacitate. È una rivoluzione culturale che aggredisce la delega rappresentativa e il concetto stesso di rappresentazione a favore della affermazione diretta – la manifestazione – delle singolarità e dei poteri sociali libertariamente svincolati dal costrutto artificiale della politica.
La messa in opera sociale di questa rivoluzione è ampia e radicale, poiché le istanze libertarie e differenzialiste (ricordiamo che queste piccole folle o i flashmob, sono fatti di singulier-pluriel, pluralità di singoli che restano tali) sono valorizzate e presto governate dal nuovo modus di produzione postfordista, cognitivo, dei servizi e/o finanziario. Un capitalismo deterritorializzante e globale, insofferente dei confini e dei controlli statuali e nazionali, che nella destrutturazione delle istituzioni sociali e nella crescita individualista e proprietaria trova il suo principio. I desideri liberati dal governo che li indirizzava al comune, vengono orientati verso godimento e consumo. La rivoluzione culturale neoliberale indirizza i processi di soggettivazione ed educazione verso personalità competitive , individualiste, adeguate al mercato.
Una politica della società
È da questo ‘dato’ che dobbiamo partire, assumendolo in tutta la sua pienezza: totalizzando la logica del mercato che si estende (al di là di una diagnosi di mero predominio dell’economia) a tutte le forme del vivente, la razionalità politica neoliberale, nominalmente democratica, produce processi di soggettivazione adeguati al sistema. È dunque radicalmente bio-politica perché struttura le vite, le mette-in-forma, e le responsabilizza del proprio autogoverno, della propria libertà che si esercita nella competizione con le altre libertà e poteri, nel momento stesso in cui ne destruttura le identificazioni formali e istituzionali che si erano stratificate nella modernità.
Questo implica un drastico indebolimento della democrazia così come la conoscevamo: uno svuotamento delle dicotomie democratiche moderne sulle quali basava il vecchio improponibile equilibrio: dentro/fuori, privato/pubblico, economia/politica, diritto, cittadinanza e sovranità e così via. Categorie che, pur persistendo formalmente, sono costrette a negoziare con forme di inclusione selettiva fondate non sul giudizio giuridico e morale – caposaldo della sintesi politica moderna – ma sulla valutazione gerarchizzante, sull’obiettivo pragmatico di ‘risolvere problemi’ e le emergenze. Emergenze ed eccezioni che perdono il luciferino ruolo di pilastro fondante della teologia politica moderna, per diventare la quotidiana occasionalità che mette in moto il problem solving del governo.
Erodendo senza distruggerli i caratteri democratico-formali, indebolendo il peso dei parlamenti ed eludendo il diritto (e i diritti) nelle emergenze congiunturali ed economiche, questa razionalità che, è bene sottolinearlo, è politica anche se si presenta come extra-politica, non punta allo scontro frontale, all’antagonismo come anima della battaglia politica per il trono vuoto del potere, né tanto meno allo scontro ideologico. Piuttosto in modo ambivalente, accanto all’evidente portato selettivo – che marginalizza i soggetti e senza escluderli li tiene in situazione di attesa ai margini, dove è sempre possibile essere esclusi se prevale un criterio per il quale siamo inadeguati, o per la stessa ragione, in una emergenza diversa, essere inclusi ed avere accesso alla competizione del mercato – apre spazi per la partecipazione alla gestione in forma di governance.
Una razionalità politica siffatta non ha difficoltà a tollerare la formazione di gruppi mobili di rivendicazione identitaria e di partecipazione. Entro la sua struttura e il suo dispositivo diffuso di controllo però – niente affatto totalizzante – si apre lo spazio per pratiche infra-governamentali inedite – accanto e al di là dei meccanismi canonici della rappresentanza investiti da sfiducia e manipolabili da forze economiche – che rendono porosi i confini della cittadinanza e articolano quella che Chatterjee chiama una politica della società, dei governati (diversa dalla blasonata società civile, ma anche diversa dalle forme di soggettivazione esclusivamente economiche).
Dentro e contro la governance neoliberale
La pressione sul sistema stesso della rappresentazione del demos-popolo, si fa assai forte, perché spesso elude la stessa ‘forma democratica’ per sperimentare forme pratiche e mobili di autogoverno: forme di soggettivazione postpolitica e postdemocratica ma anche, forse, forme capaci di essere contro pur essendo dentro la governance neoliberale.
Forme che accennano, con qualche ottimismo e nella crisi dell’euforia iniziale che ha accompagnato il cambio di paradigma, ad una governamentalità post-neoliberale: in ogni caso interessanti perché assumono il significato di democrazia prescindendo dal meccanismo del trascendimento verso l’unità. Cercano, non teoreticamente ma in modo empirico e pratico, un esercizio di autogoverno eludendo la trappola della riduzione all’unità sacrificale della rappresentazione moderna.
Con molti dubbi però. Perché soprattutto di recente e di fronte alla durissima crisi economica l’urgenza di strutturare le rivendicazioni e di essere politicamente identificabili al fine di dare continuità alla lotta, è evidente e avvertita dai movimenti stessi. L’indizio di qualcosa che è cambiato e di qualcosa che deve cambiare non basta, e non basta il rapido manifestare se stessi e la propria denuncia o protesta.
Bisogna riconoscere che il momento organizzativo eccede la dimensione puramente tecnica e si rivela una dimensione strutturale della democrazia stessa, che sembra vivere della incessante tensione (o oscillazione o piega, che dir si voglia) tra questi due poli.
I labili raduni, ma anche i movimenti e le sperimentazioni di autogoverno che si sono identificati nell’atto di testimonianza di se stessi e nella critica erosiva della rappresentazione politica, rivendicando la vitalità delle forme pre– o non politiche della moltitudine rispetto al popolo democratico e alle sue contraddizioni; questi agenti che, agevolati dalla orizzontalità della rete, si sono a lungo sottratti all’eterno impotente gioco democratico-rappresentativo e lo hanno sfidato per destrutturarlo, scegliendo la strada dello spostamento, della sottrazione, spostandosi verso il micro-scontro e le esperienze locali di partecipazione: ebbene, oggi, sono proprio questi agenti e queste esperienze di democrazia diretta che cominciano ad interrogarsi sulla funzione ‘politica’ della rappresentazione, non certo per tornare al passato, ma per sondare modalità di espressione politica che non tradiscano quell’incessante oscillare tra forma e movimento che è la democrazia, rimanendo fedeli all’istanza irriducibile che ci dice che la democrazia si pratica, non si affida e che alla crisi di democrazia si risponde con più democrazia.
Un intervento di lucidità rara.
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